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Dossier Ocse. "Liste d'attesa". Un problema non solo italiano. Ecco le soluzioni per ridurle


13 i paesi considerati nell’ultima pubblicazione “Waiting Time Policies in the Health Sector” e in tutti le tempistiche di cura sono una questione urgente. In Italia il problema principale non è tanto nel ricovero, quanto nel percorso diagnostico e per i day hospital. Ma come viene affrontato il tema nel nostro paese e all’estero?

09 FEB - I tempi di attesa lunghi per l’accesso alla cura sono una questione molto importante e urgente di sanità in molti dei paesi Ocse. Per questo già dal 2001, l’organizzazione aveva lanciato un progetto proprio per valutare le politiche intraprese per limitare questo problema, in 13 paesi (Australia, Canada, Danimarca, Finlandia, Irlanda, Italia, Olanda, Nuova Zelanda, Norvegia, Portogallo, Spagna, Svezia and e Gran Bretagna). Sul breve termine tuttavia era difficile valutare quali politiche potessero funzionare meglio. Tuttavia, oggi questa valutazione sta dando i primi frutti, offrendo un quadro, seppur ancora poco omogeneo, di cosa sia stato fatto e cosa ci sia ancora da fare. Il risultato è stato pubblicato in un libro consultabile online dal titolo “Waiting Time Policies in the Health Sector – What works?”.
 
Come l’attesa si ripercuote sul sistema sanitario
Il problema delle attese troppo lunghe in sanità si riscontra in quasi tutti i paesi Ocse e in quesi tutti gli ambiti: dalla medicina generale al day hospital, dal pronto soccorso all’oncologia, fino ad arrivare alla chirurgia non emergenziale. Nell’ultimo decennio, tuttavia, da quando i primi sforzi sono stati messi in atto per recuperare questa situazione, alcuni progressi sono stati fatti. Il libro tenta proprio di valutare in maniera critica cosa abbia funzionato, mettendo a confronto gli approcci in paesi diversi.
La questione non è semplice ed è legata in maniera molto stretta alla disponibilità dei posti letto, alle spese sanitarie, e soprattutto ai risultati ottenuti nella cura. I dati dimostrano – ma era facile immaginarlo – che lunghe attese non giovano all’esito delle procedure urgenti, come il bypass coronarico, mentre la situazione è meno definita per la chirurgia meno improrogabile, come quella per la sostituzione di protesi all’anca. Inoltre, rimane un problema di disparità di accesso: in molti paesi le strutture pubbliche – meno costose e coperte dall’assicurazione sanitaria – hanno tempi di attesa molto maggiori delle strutture private a pagamento, il che comporta che chi ha uno status socioeconomico peggiore può dover aspettare molto di più di chi è più benestante.
 
Come si fa a ridurre il problema?
Fare un confronto tra i paesi membri dell’Ocse è difficile, le politiche sono molto disomogenee e così anche i metodi di valutazione dei tempi di attesa. Tipicamente sono due i metodi che si sono scelti per tentare di ridurre il problema: da una parte l’inserimento di limiti massimi di attesa cui le strutture sanitarie devono adeguarsi e di cui rendere conto alle istituzioni; dall’altra permettere ai pazienti di scegliere diversi tipi di servizi di assistenza, passando a quelli privati se i tempi di attesa nel pubblico sono troppo lunghi. Tuttavia, dirottare direttamente la sanità verso il privato non ha funzionato: l’esperienza australiana ha insegnato che incoraggiare la sostituzione delle terapie negli ospedali pubblici con l’assistenza privata non ha – di fatto – fatto diminuire i tempi di attesa, e l’impatto sulla funzionalità degli ospedali è stata minima.
Più efficace invece il metodo di penalizzazione di chi ‘sfora’ i tempi massimi, soprattutto in paesi come la Gran Bretagna e la Finlandia dove l’errore viene pagato con multe molto salate, con un metodo che in modo ufficioso e particolarmente evocativo viene chiamato “target e terrore”. In questo modo infatti le tempistiche si riducono sicuramente, ma sebbene il metodo sia efficace non è ben visto dai professionisti né del tutto sostenibile a lungo termine.
In ogni caso in tutti e 13 i paesi analizzati dagli specialisti dell’Ocse esiste un limite massimo entro il quale le principali prestazioni cliniche devono essere garantite, spesso in combinazione con target di prestazioni da raggiungere a livello della singola struttura sanitaria.
Un metodo meno usato, ma che è comunque piuttosto diffuso è quello del turismo medico. In particolare, nell’Unione Europea molti pazienti sono disposti a curarsi all’estero se questo permette di aspettare meno: in media il 64% dei cittadini europei sarebbe se necessario disposto a viaggiare per la terapia, un po’ meno in Italia, dove comunque il numero di chi sarebbe disposto a farlo è identico a chi invece preferisce comunque rimanere nelle strutture sanitarie italiane (pari in entrambi i casi al 47%).
 
I termini massimi di attesa tra i diversi paesi
Come già detto è piuttosto complicato fare paragoni tra le diverse nazioni, perché ognuna ha un sistema sanitario diverso che si basa su regole diverse. In ogni caso come già detto tutte le nazioni considerate hanno dei limiti massimi entro i quali devono fornire le prestazioni sanitarie. Alcune, come l’Australia, dividono semplicemente i pazienti in termini di “urgenza”: le persone la cui situazione di salute probabilmente peggiorerà velocemente devono essere trattati entro 30 giorni, chi probabilmente non avrà un tracollo fisico in breve tempo dovrà aspettare al massimo 90 giorni per la cura, chi invece ha una situazione che è molto improbabile peggiori in fretta può dover aspettare fino anche a un anno. Un meccanismo simile si ha anche ad esempio in Norvegia e in Portogallo (in quest’ultimo però i pazienti oncologici sono trattati con un po’ più urgenza degli altri).
Per altri paesi, come l’Irlanda, l’Olanda, il Canada o la Spagna le differenze non sono nell’urgenza della condizione in senso stretto, quanto più dal tipo di prestazione (day hospital, pronto soccorso, chirurgia non emergenziale) o dalla procedura specifica (sostituzione di protesi all’anca, cataratta, bypass cardiaco, ecc). Altri ancora invece – come l’Inghilterra, l’Italia o la Danimarca – hanno un’attenzione specifica nel caso dell’oncologia o delle malattie ischemiche (vedi la tabella allegata per avere tutti i dati).
 
E in Italia?
La situazione italiana è più o meno in linea con quello del resto delle nazioni osservate: anche per noi le tempistiche sono lunghe e molto eterogenee, variando a seconda delle procedure e delle strutture.
In media i tempi di attesa per i più comuni test diagnostici si aggirano intorno al mese e mezzo o due mesi negli ospedali pubblici, ma tendono ad essere minori negli ospedali convenzionati. In particolare per una normale ecografia ci vogliono in media 61 giorni nei primi, e solo 7 nei secondi, con la via di mezzo delle cliniche pubbliche nelle quali bisogna attendere in media 36 giorni (media totale 42 giorni). Analoga la situazione per le risonanze magnetiche: 65 giorni negli ospedali pubblici, 15 nelle strutture convenzionate, ma con la differenza che le per le cliniche pubbliche salgono addirittura a 91 giorni in media (media totale 52 giorni). Ribaltata invece la situazione per i test endoscopici per cui bisogna aspettare di più (media totale italiana 54 giorni), ma per i quali risultano più rapidi i primi (46 giorni), e più lenti i privati convenzionati (78 giorni), così come le cliniche pubbliche (72 giorni). Infine, minori sono le differenze di attesa per fare una TAC, per la quale su territorio nazionale si impiegano in media 53 giorni: 46 se si tratta di un ospedale pubblico, 73 se si tratta di una clinica pubblica, 49 se si tratta di una struttura privata convenzionata.
In ogni caso, nel nostro paese il problema meno grave secondo gli esperti Ocse è l’attesa in caso sia necessaria ospedalizzazione, mentre le tempistiche si allungano in maniera critica per il percorso diagnostico e per i day hospital. Anche per questo i termini massimi di attesa imposti sono leggermente diversi da quelli del resto dei paesi osservati.
Così come all’estero anche in Italia ci sono infatti dei limiti massimi di attesa, stabiliti nel 2002 e che dovrebbero venire rispettati dalle strutture: 60 giorni per le procedure diagnostiche principali; 30 giorni per le visite cardiache o oculistiche; 2 settimane per la prima visita oncologica, 30 giorni per l’intervento oncologico o per iniziare la radioterapia o la chemioterapia; 80 giorni per l’intervento di cataratta o di sostituzione della protesi all’anca; 120 giorni per l’angioplastica coronarica.
Dal 2010 sono poi state stabilite anche delle regole specifiche per le malattie cardiovascolari – trattamento di emergenza entro 72 ore dal problema; 10 giorni per trattamenti che se non somministrati per tempo possono ridurre significativamente la prognosi o provocare dolore, disfunzioni o disabilità; 30 giorni per i trattamenti di gestione di dolore, disfunzione o disabilità – e oncologiche – tre giorni per le diagnosi urgenti; dieci giorni per le diagnosi urgenti all’interno di un programma terapeutico già stabilito; follow-up a seguito del trattamento già effettuato.
 
L’analisi contenuta nel libro è mastodontica e veramente eterogenea. Secondo gli esperti dell’Ocse servirà ai policy maker per comprendere cosa c’è ancora da fare e per mettere a confronto ciò che si è fatto nelle diverse nazioni. “Vedere cosa è stato fatto fa capire quali sono le politiche più diffuse e quanto il problema dei tempi di attesa sia diffuso”, spiegano gli autori. “Che si tratti di chirurgia, medicina generale, pronto soccorso oppure oncologia, i tempi di attesa nella cura possono fare la differenza tra un servizio che funziona e uno i cui risultati sono scarsi e dunque in cui la salute dei cittadini è in pericolo”.
 
Laura Berardi

09 febbraio 2013
© Riproduzione riservata


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