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24 NOVEMBRE 2024
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Sostenibilità del Ssn. Intervista a Grazia Labate: "Il problema esiste. Inutile nasconderselo"

di Luciano Fassari

La sostenibilità dei servizi sanitari pubblici è un problema che coinvolge tutta l’Europa, a prescindere dai modelli sanitari di ogni paese membro. Parlare di sostenibilità non vuol dire cambiare il modello di riferimento né privatizzare. Il problema non è ridurre la spesa del Ssn, il problema è tenerla in equilibrio

03 DIC - Il Ssn è ancora sostenibile? Secondo Grazie Labate professoressa di Economia sanitaria presso l'Università di York in Inghilterra, nonché ex sottosegretario alla Sanità all'epoca del secondo Governo Amato, “sì, ma il rischio in futuro c’è ed “è un problema che coinvolge tutta l’Europa, a prescindere dai modelli sanitari di ogni paese”. Per Labate, però, bisognerebbe evitare, quando si parla di questi argomenti così complessi  “di dividerci in tifoserie, animate dall’esegesi del pensiero e dall’ideologia”. Il “problema numero uno non è ridurre la spesa, che già oggi è stata falcidiata abbastanza con provvedimenti non sempre mirati e lungimiranti, ma semmai è tenerla in equilibrio e non aumentare la pressione su di essa nel medio lungo periodo”. E per fare questo la proposta è quella di fare sempre più ricorso ai Fondi integrativi che però, ribadisce “non c’entrano nulla con le assicurazioni private” e non mettono in discussione i principi del Ssn.
 

Professoressa Labate, le recenti affermazioni di Mario Monti hanno riaperto con forza il dibattito sulla sostenibilità del nostro sistema sanitario. Ma c’è veramente un rischio sostenibilità per il Ssn?
Sì, ed è un problema che coinvolge tutta l’Europa, a prescindere dai modelli sanitari di ogni paese membro. In Italia nessuno può ignorare alcuni fattori, che rendono più esposto il nostro paese: circa 2000 mld di euro di debito pubblico, 120 mld di evasione fiscale, recessione al meno 0,6% di Pil, disoccupazione all’11,4%, crescita zero, che si trascina da almeno 15 anni. In primis questa crisi economica pesantissima incide direttamente sulla capacità di spesa pubblica del nostro paese. Poi, con riferimento specifico alla salute, l’allungamento della vita e l’aumento delle patologie croniche sono due fattori indiscutibili di incremento della spesa. Il 38,8% di cittadini è affetto da patologie croniche degenerative, la percentuale sale all’86,9% tra gli over 75 anni. Per cui credo che il Premier abbia fatto bene a sollevare la questione della sostenibilità finanziaria per il futuro, bisogna pensarci già oggi per affrontare il domani. Il fatto è che nel nostro Paese si dovrebbe smettere di dividerci in tifoserie, animate dall’esegesi del pensiero e dall’ideologia quando si affrontano temi così complessi e delicati, che riguardano diritti costituzionalmente protetti e che costituiscono il nostro grado di civiltà. Credo che atteggiamenti del genere non portino da nessuna parte, o peggio lascino incancrenire le situazioni per poi prendere atto della criticità quando magari è troppo tardi, e la questione che ha posto Monti è seria e reale. Ripeto, non solo per l’Italia.
 
 
Il Ministro Balduzzi, come del resto il Premier in successive precisazioni, ha rassicurato che la sanità non verrà privatizzata ma ha specificato anche come servano nuovi strumenti di finanziamento, parlando di fondi integrativi. È una soluzione praticabile?
Chiariamo subito che parlare di sostenibilità non vuol dire cambiare il modello di riferimento né privatizzare. Un esempio: quando la Germania nel 1995 si rese già allora conto che il problema degli anziani e la non autosufficienza costituiva un rischio finanziario per le risorse pubbliche, decise di costituire un Fondo per la non autosufficienza alimentato da quote da parte dell’impresa, dei lavoratori e dei pensionati, pari all’1,5%, oggi è all’1,9% e nel programma di stabilità tedesco si eleva ancora dello 0,1 entro il 2014. Ciò ha consentito insieme al sistema sanitario di fornire le cure necessarie senza scardinare nessun sistema, ma potrei citare l’Inghilterra che si avvale della mutualità di Benenden con il suo progetto sixty six o la Svezia che attraverso l’istituto della nuda proprietà chiama i cittadini a compartecipare al costo delle cure di lunga durata senza scardinare nessuno dei principi dei propri NHS.  E in questo senso ragionare sul futuro vuol dire esaminare il nostro contesto macroeconomico in sofferenza e dentro di esso la sostenibilità finanziaria del SSN.
L’aumento della longevità dei cittadini: 60 milioni e 626 mila attualmente residenti. Il 20,3% della popolazione con più di 65 anni e con il  5,6% che ha più di 80 anni. I bassi livelli di fecondità, 1,41 il numero medio di figli per donna congiuntamente al notevole aumento della sopravvivenza rendono l’Italia uno dei paesi più vecchi al mondo. Nel 2011 si registrano 144,5 anziani ogni 100 giovani; l’indice di vecchiaia(rapporto tra la popolazione di 65 anni ed oltre e la popolazione fino a 14 anni) è passato da 116,6 nel 1995 a 144,5 nel 2011. Questa tendenza continuerà anche nei prossimi anni e secondo stime Istat sarà pari a 205,3 nel 2030 a 256,3 nel 2050.
Cresce anche l’indice di dipendenza (misurato dal rapporto % fra la popolazione in età non attiva, 0-14 anni e 65 e più, e quella in età attiva, 15- 64 anni, che passa dal 45,5% del 1995 al 52,3 del 2011, per salire nel 2050 a 84,7. 
Tutto ciò comporterà inevitabilmente il bisogno di più cure e per periodi più lunghi. E infine occorre affrontare la questione dell’innovazione (farmaci, tecnology device, etc,,) che inevitabilmente porterà ad un aumento dei costi. Fatta questa premessa le prospettive ci dicono che nel medio-lungo termine rischiamo di non riuscire a sostenere il nostro sistema, anche perché abbiamo un’evasione fiscale elevatissima ed un tempo non breve per recuperarla, una priorità assoluta che è innescare qui e adesso una più sana e robusta crescita, ridurre il cuneo fiscale sul lavoro, fare buona occupazione per i giovani.  E in questo scenario credo che bisogna utizzare tutto quello che c’è. In questo senso credo che lo sviluppo dei Fondi sanitari integrativi e la mutualità possano essere una risposta efficace.
 
 
Gli scettici, però, vedono dietro ai fondi integrativi lo spettro di una privatizzazione. È realmente così?
Innanzitutto, nel dibattito di questi giorni ho colto come vi sia una notevole confusione sul tema. I Fondi integrativi, desidero precisare, non c’entrano nulla con le assicurazioni private (che sono for profit) o con le vecchie mutue categoriali, parlare di questo argomento, non vuole dire mettere in discussione i principi fondanti del nostro SSN. I Fondi di questo tipo, e lo dice la parola stessa, non sostituiscono il SSN ma lo integrano. E se analizziamo il nostro contesto, l’adozione dei Fondi potrebbe essere uno strumento per ottimizzare le risorse del SSN verso una sua sempre maggiore efficienza e qualità e usare i fondi e la mutualità  per ciò che l’SSN non riesce a coprire. Per esempio intervenendo su quegli aspetti dove il servizio pubblico è carente, penso alle cure odontoiatriche e ai problemi legati alla non autosufficienza, su cui  già oggi i fondi hanno un vincolo del 20% per queste prestazioni che abbiamo introdotto con il Decreto Turco del 2008. Questo in un quadro che possa consentire al nostro servizio pubblico di avere più tempo e risorse per riorganizzare quei servizi che sono ancora carenti, vedi la riorganizzazione dell’assistenza territoriale, il riorientamento ospedaliero verso l’eccellenza, il supporto alla ricerca pubblica.
 
 
Non c’è il rischio di una sanità di serie A e B?
L’obiettivo è proprio il contrario. Far in modo che il SSN diventi sempre più di serie A e non scivoli per consunzione in serie B. E poi questi Fondi, che ricordo sono no profit e pagati dalle aziende e dai lavoratori, o la mutualità sostenuta da quote associative fra cittadini, sono già molto diffusi non solo nei settori produttivi dei lavoratori dipendenti, impiegati, quadri, dirigenti, ma anche nel lavoro autonomo, le libere professioni ed anche nel settore pubblico: le Università, gli istituti di ricerca, la Presidenza del Consiglio, la metà delle Regioni e anche gli stessi sindacati fanno ricorso alla sanità integrativa. E poi, guardando ad esempio alla recente esperienza francese, lo stesso presidente Hollande ha il 20 ottobre, invitato a potenziare questo strumento, parlando al Congresso della mutualità territoriale francese, che già in Francia riguarda 36 milioni di cittadini, esortando a raggiungere i 40 milioni con un impegno del governo di maggiore deducibilità fiscale per le mutuelles.
 
D’accordo. Tuttavia sembra evidente che, se vogliamo ridurre la spesa del Ssn non creando altri canali di assistenza alternativi e sostitutivi, si dovrà comunque ridurre la quantità delle prestazioni erogate attraverso i Lea. Quindi meno Lea e più fondi integrativi. E’ così?
Il problema numero uno non è ridurre la spesa, che già oggi è stata falcidiata abbastanza con provvedimenti non sempre mirati e lungimiranti. Il problema semmai è tenerla in equilibrio e non aumentare la pressione su di essa nel medio lungo periodo.
Il nostro sistema è ancora in grado di curare tutti gli italiani ma non può pensare di farlo con i Lea obsoleti del 2001 e con il razionamento strisciante e palese che tutti ormai avvertiamo. Certo che bisogna lavorare molto sull’appropriatezza, sul costo efficacia, ma questo non può voler dire abbassare o ridurre l’offerta di salute. Lo scopo è di rivedere i Lea, di rimodularli, tenendo presente che la spesa pubblica è in sofferenza e che non è sufficiente solo un miglioramento dell’efficienza, la lotta agli sprechi, tutte cose sacrosante da fare per sostenere il sistema, ma fare del tema della cronicità e della longevità la vera sfida con cui il sistema si deve cimentare e per raccogliere questa sfida bisogna costituire una massa critica con cui affrontarla che non possono essere da sole le risorse attuali del sistema provenienti dalla fiscalità generale cosi compromessa, occorre chiamare a raccolta tutto ciò che convive con il sistema: Fondi sanitari, mutualità, terzo settore, mercato sociale, imprenditoria sociale, quella enorme voragine di spesa out of pocket, circa 30 miliardi di euro spesi dai cittadini, per riorientarli verso una economia sociale e della salute che ci possa far guardare al futuro con più serenità. In questo senso vive l’universalità senza aggettivi distorsivi, si afferma la cultura della socializzazione dei rischi, la sussidiarietà orizzontale, che possono essere il vero secondo pilastro del terzo millennio. Occorrono quindi nuovi strumenti di supporto, come i Fondi, di cui la revisione dei Lea dovrà tenere conto. Per iniziare si potrebbe prevedere una maggiore partecipazione  dei Fondi integrativi e della mutualità (ad esempio il 40% rispetto al 20 attuale) per determinate prestazioni che il sistema da solo non è più in grado di sostenere. E penso a tutto il panorama della non autosufficienza su cui il nostro Paese è ancora molto carente, nonostante che assieme alla Germania costituisca il paese più longevo d’Europa.
 
 
 
Ma a che punto siamo oggi sui fondi integrativi?
Sicuramente in ritardo di almeno 15 anni, da quando furono introdotti nel nostro ordinamento dalla Riforma Bindi. Ma a parte ciò, questo andrebbe chiesto al Ministro Balduzzi. Solo con il ministero di Livia Turco e poi con il decreto del ministro Sacconi del 2009 si è dato corso alla disciplina degli ambiti operativi dei fondi, al riorientamento verso una integrazione con l’SSN introducendo il vincolo del 20% verso l’odontoiatria e la non autosufficienza, tentando un riequilibrio tra deducibilità fiscale riconosciuta ed introdotta nell’anno 2000 e ritorno in termini di maggiore integrazione con l’intero sistema. Purtroppo dal 2009  nulla si è mosso. E sono passati quasi  4 anni. L’anagrafe dei Fondi c’è ma i dati censiti ufficialmente non li sappiamo. Non si comprende perché manchi la volontà di andare avanti con la definizione di una vera governance del sistema, la necessità di un Regolamento, degli strumenti di cessione in gestione e di controllo. Nonostante si sia in presenza di una caratteristica espansiva dei fondi e della mutualità di territorio, che come si sa,  coprono i maggiori copayments, (tickets, libera professione intramoenia), la specialistica dovuta alle lunghe liste di attesa, l’odontoiatria, la riabilitazione post ospedaliera.  Si assiste a tornate di rinnovi contrattuali che sempre più comprendono accordi di sanità integrativa e vanno avanti esperienze territoriali significative con la costruzione di veri e propri centri salute a prezzi calmierati per la specialistica e l'assistenza domiciliare. Secondo le mie stime già oggi in Italia vi sono 7 milioni di iscritti per una platea di assistiti di circa 14 milioni e queste sono ben diverse da quelle ufficiose del Ministero che parla di 5 milioni di assistiti..
Inoltre, nel 2011, risulta abbiano sostenuto 4,5 miliardi di euro per prestazioni, di cui 900 milioni per cure odontoiatriche e non autosufficienza. La sindrome da privatizzazione impedisce di vedere che nel nostro paese le assicurazioni private del ramo malattia riguardano solo il 5,5% della popolazione cioè circa 1.330.000 cittadini, una minoranza, verso la quale l’ordinamento non riconosce deducibilità fiscale, come per i fondi e la mutualità, ai quali, quindi è giusto chiedere che si integrino sempre più con il sistema, ed infine non vedo un privato privato che avanza con proposte di sostituzione del sistema pubblico, anzi da noi quel che c’è è un privato a mercato protetto che senza il pubblico rischia il default. Per questo ci sarebbe bisogno di una ‘vision’ di medio lungo periodo che chiami soggetti istituzionali, sociali, forze sane del paese a disegnare una strategia efficace per i cittadini. In questo senso la riapertura di un dibattito pubblico sulla sostenibilità del sistema sulla base del principio di realtà rapportato all’oggi ed almeno al medio periodo potrebbe aiutare molto la costruzione dei puntelli a sostegno del SSN, liberando la mente da pregiudizi e non difendendo aprioristicamente solo i principi ma la realtà fattuale di un sistema che come tutti i sistemi evolve nel tempo in quantità e qualità ma anche in complessità delle sue variabili. Il simpatico ‘duello’ Cavicchi–Spandonaro è dimostrativo. Ma non può essere, parafrasando Cavicchi, che la ‘compossibilità’ non possa essere data da più forme di finanziamento che interagiscono per un fine comune? Dipende da come si costruiscono i processi, li si governa e li si misura per i risultati che producono in termini di servizi e qualità delle prestazioni.  
 
Altre proposte che circolano sono quelle che riguardano le nuove modalità di compartecipazione alla spesa, come la franchigia in base al reddito. Come giudica questo sistema?
Non ho nessun pregiudizio sul sistema della franchigia in base al reddito, ma in un Paese come il nostro ad alta evasione fiscale, l’introduzione sic et simpliciter di un sistema del genere potrebbe non essere efficace. Per questo sarebbe bene fare, prima di ogni altra cosa, una verifica incrociando i dati sanitari sulle attuali esenzioni con quelli dell’Agenzia delle Entrate sulle attuali fasce di  reddito, calcolarne l’impatto rapportarlo al nuovo ISEE che il consiglio dei ministri dovrebbe varare e poi valutare se l’introduzione di una franchigia possa recare reali benefici in termini di equità e almeno di maggiori introiti per scongiurare l’abbattersi dei famosi 2 miliardi di ticket, sennò non riesco a capire come si faccia a stimare 5 miliardi di entrate con il nuovo sistema. In ogni caso, dove nel mondo è stata introdotta la franchigia essa è sempre accompagnata da un ticket moderatore che possa comunque moderare gli eccessi di domanda di salute. In Europa non esiste sistema sanitario che abbia la sola franchigia. 
 
Luciano Fassari

03 dicembre 2012
© Riproduzione riservata


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