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Caro Monti, non ci faccia rimpiangere le mutue dell’Inam


La giornalista e scrittrice Daniela Francese entra a suo modo nel dibattito sulla sostenibilità del Ssn. E lo fa con una lettera aperta al presidente Monti. “Le sue parole hanno scatenato un terremoto perché sembrano ammonirci che se non accettiamo una privatizzazione soft oggi potremmo non avere più un Ssn domani”.

03 DIC - Gentile professor Monti,
i nostri corpi già così martoriati, e non solo metaforicamente, se ricordiamo le proteste dei malati di Sla o la fine, frettolosamente archiviata, dell’infermiera Mariarca Terracciano, non meritavano quest’altro fendente. Il dolore e lo sdegno sono così forti che come ha detto Maurizio Crozza nella sua copertina della scorsa puntata di Ballarò, “viene voglia di Che Guevara” perché se, come lei ha affermato, “la sostenibilità futura dei sistemi sanitari nazionali, compreso il nostro, potrebbe non essere garantita se non si individueranno nuove modalità di finanziamento per servizi e prestazioni” orecchi esperti intendono che la fiscalità generale non potrà più sostenere da sola il SSN. Tradotto, ciò significa porte aperte alla sanità integrativa, all’assistenza di livello A, B, C che, scrisse qualche anno fa sul blog di Salute Internazionale Carlo Hanau, docente di programmazione e organizzazione dei servizi sociali e sanitari all’Università di Modena, “ci farà rimpiangere l’Inam che garantiva equità a 30 milioni di italiani”.
 
Le sue parole, professor Monti, hanno scatenato un terremoto e non poteva essere altrimenti perché sembrano ammonirci che se non accettiamo una privatizzazione soft oggi potremmo non avere più un SSN domani. Difficile da accettare sapendo quanti problemi - non soluzioni - ha già prodotto l’aziendalizzazione della sanità: una macchina efficientissima nel creare sempre nuovi centri di spesa a detrimento di quelli di cura e assistenza. Dunque, di privato, come di politica, in sanità riteniamo di averne già in abbondanza, mentre si è progressivamente affievolita la presenza e l’azione dello Stato contribuendo ad acuire i problemi che attraversano tutto il comparto e che chiedono una seria riflessione non più procrastinabile.
Il suo, dobbiamo avere il coraggio di dirlo, non è un governo tecnico. Al contrario, l’imprinting è decisamente politico e si muove in una direzione già ben delineata dal governo che l’ha preceduta aprendo faglie nella sanità, come anche, ad esempio, nell’istruzione, che trasformeranno una società di diritto in una, tutt’al più, di beneficienza, contro cui un uomo di frontiera come don Ciotti, già alcuni anni fa, ci metteva in guardia affermando che una società è “pienamente umana” quando “c’è meno solidarietà e ci sono più diritti”. Sappia, comunque, che per difenderli questi diritti siamo pronti ad alzare le barricate, se necessario. Lo dobbiamo a noi stessi, ai nostri figli, ai nostri nipoti; a quelle generazioni che ci seguiranno e a cui già troppo abbiamo rubato in termini di prospettiva di vita degna.
 
Siamo chiamati oggi - ora - a scegliere lo Stato che vogliamo e in questo ad occuparci delle sorti del Servizio sanitario nazionale che sempre entrano in gioco quando si parla di futuro: una parola sin troppo abusata nei discorsi elettorali, a cui nessuno ha dato il seguito che meritava, e che con una definizione più concreta significa pianificazione di scelte, obiettivi e risultati nel breve, medio e lungo termine. Qualche timida azione l’abbiamo vista nella scala temporale più prossima, grande è invece il vuoto per azioni di più ampio respiro che dovevano essere approntate per affrontare i cambiamenti socio-demografici previsti e le sfide del nuovo millennio.
La politica è la grande colpevole, ma anche noi, i cittadini, non siamo innocenti. Non riconoscerlo significa mettere in discussione le fondamenta stesse delle istituzioni e, di conseguenza, del nostro ordinamento democratico fondato sulla sovranità popolare. Dobbiamo dirlo a gran voce, se non vogliamo restare sommersi da un’ondata di populismo, la cui forza distruttrice potrà avere esiti ben peggiori della crisi che stiamo vivendo: ci è mancata la volontà di farci carico di noi stessi, siamo stati passivi, abbiamo sostituito l’impegno con una liturgia mediatica di “rassicurazioni di maniera”, come Edmondo Berselli definisce le nubi soporifere di omissioni e false verità che hanno soffocato la crisi finanziaria, quindi industriale e sociale. Tocca dunque a noi rimboccarci le maniche, anche perché, come non mancò di sottolineare Angela Merkel lo scorso anno, non ci sono debiti pubblici, ma esistono solo debiti privati di cui tutti saremo chiamati prima o poi a risponderne.
 
Dobbiamo tirarci fuori dal guado, ma non sarà lo smantellamento dello stato sociale il ramo a cui aggrapparci per non andare a fondo. Al contrario, la chiave di volta è nell’innovazione sociale, The power of social innovation, come ha scritto nel suo libro non un bolscevico ma il repubblicano Stephen Goldsmith il quale individua nella scuola, nella sanità, negli alloggi popolari e nel risanamento dei quartieri degradati i quattro assi attorno a cui concentrare l’azione di governo perché, dice, “in una fase di crisi tutti sono capaci di tagliare i costi peggiorando la qualità dei servizi sociali. La vera sfida è fare l’opposto”.
La vera sfida è anche vestire i panni di un leader che, come è nel significato della parola, sappia condurre il suo popolo anziché limitarsi a gestirne il bilancio. Abbiamo bisogno di statisti, di sguardi presbiti che riescono a vedere bene in lontananza per programmare il domani. Di politici miopi che guardano solo alle prossime elezioni ne abbiamo fin troppi, così come di contabili prestati alla politica che hanno ridotto ad un incrocio di addizioni e sottrazioni le scelte di governo. Solo in sanità abbiamo avuto cinque manove in cinque anni e nessuna ha significato studio e riorganizzazione del settore, ma solo tagli, a cui si sono aggiunti altri tagli, e così per cinque volte, perché la spesa sanitaria, veniva detto ad ogni sforbiciata, sale. Basta, non ne possiamo più di questa litania confutata da tutti i dati, compresi quelli Ocse, che delineano una spesa italiana decisamente più bassa della media dei Paesi membri, ed in diminuzione in rapporto al Pil (7,3% nel 2009 e 2010; 7,2% nel 2011; 7,1% nel 2012; 6,9% le stime per il 2013 e il 2014).
Naturalmente, con una popolazione sempre più anziana, ma anche progressivamente più disoccupata e immersa in un ambiente sempre più inquinato, i costi sanitari saliranno. Solo per la cura di malattie conseguenti all’inquinamento dell’aria in Europa spendiamo 130 miliardi l’anno e i costi più alti sono sostenuti proprio dall’l’Italia insieme a Germania, Polonia, Gran Bretagna e Francia. Farvi fronte non deve però significare addossarne l’onere ai singoli perché la salute è un bene comune, e “un interesse della collettività”, è bene sottolinearlo a chi ne vede solo il lato dei costi.
 
Occuparsi di sanità è un lavoro complesso, lo riconosciamo, che richiede studi intersettoriali, strategie e politiche sinergiche tra i settori dell’informazione, della salute, dell’ambiente, del lavoro, e dell’istruzione. Tuttavia, molto si può fare. Prendiamo ad esempio il capitolo degli incidenti sul lavoro, che nonostante il calo del 6,6% nel 2011 rispetto all’anno precedente, costano circa 40 miliardi l’anno e la cifra non include i costi per i 165 mila infortuni stimati dall’Inail per i lavoratori in nero. Eurispes nel suo Rapporto Italia del 2010 stimava che una riduzione del solo 1% dell’infortunistica avrebbe comportato un risparmio di 438 milioni di euro, che sarebbero saliti a 2,2 miliardi con una percentuale del 5%, o a 4,4 miliardi con una del 10%. Se poi a queste cifre avessimo sommato i risparmi ottenuti da una pari riduzione di incidenti stradali, le somme sarebbero salite rispettivamente a 726 milioni, 3,6 e 7,2 miliardi di euro.
Ancora in tema di lavoro, il mancato adeguamento dei processi produttivi industriali e delle tecniche di coltivazione a norme che tutelano l’ambiente e la sicurezza dei lavoratori sta spingendo sempre più in alto la curva di crescita delle malattie professionali (+ 9,6% dei casi denunciati nel 2011 rispetto all’anno precedente). In salita sono anche le patologie legate a stili alimentari e di vita sbagliati. Ma anche in questo ambito, se prendiamo ad esempio quanto fatto in Finlandia, dove solo con una capillare campagna di informazione volta a promuovere stili di vita salutari sono riusciti ad abbattere dell’85% i decessi per patologie coronariche, scopriamo di avere interventi alla nostra portata.
 
Uscire dal guado nel rispetto dei principi costituzionali è possibile. Un considerevole aiuto può venire dallo sviluppo delle nuove tecnologie che consentirebbero di capitalizzare risparmi senza perdite in termini di qualità dei servizi, ma non lo abbiamo ancora capito se anche quest’anno il World Economic Forum ci posiziona in fondo alla classifica del Global Information Technology Report. Siamo al 48° posto tra i Paesi capaci di promuovere l’innovazione tecnologica per trasformare economia e società, contro il 10° del Regno Unito, il 16° della Germania, il 23° della Francia, o anche il 33° del Portogallo e il 38° della Spagna. Il perché di un tale umiliante risultato lo si legge nel rapporto, secondo cui una politica debole ostacola il funzionamento dell’economia e un governo scarsamente incisivo non riesce a promuovere adeguatamente lo sviluppo delle nuove tecnologie per dare impulso alla competitività. In sanità questo si traduce in sperequazioni, ritardi colpevoli nella e-Health, opportunità per gestioni fraudolente e sprechi.
Sprechi, eccola la parola da tagliare senza esitazioni in tutta la pubblica amministrazione. Certo bisogna mettersi d’accordo su ciò che è utile e ciò che non lo è, bisogna avere un’idea di Stato da perseguire e condividere, bisogna stabilire le giuste priorità. E su quest’ultimo punto il divario con la sua visione di futuro sembra incolmabile. Se per lei priorità è aumentare di un miliardo il bilancio della Difesa, se per lei priorità è spendere 15 miliardi di euro per 131 caccia bombardieri, se per lei priorità è sottostare a pressioni facilmente intuibili e sacrificare ancora una volta le donne, il loro diritto alla salute e alla maternità, la sua idea di Stato, di futuro, non la condividiamo.
 
Ciò detto, c’è molto da sfrondare anche all’interno della sanità per ripulirla di tante storture come le 23 chirurgie di Milano quando se ne contano 40 in tutta la Francia; i 35 reparti di emodinamica del Lazio di cui solo 6 attivi 24h24; gli stipendi d’oro come quello intascato da un direttore generale di una sperduta Asl che ammonta al triplo di ciò che guadagna il presidente dell’Inps; gli innumerevoli primariati inutili; le convenzioni con le strutture private, decisamente da riordinare recuperando una cifra stimata in un miliardo di euro; quel 38% che è la media dei parti cesarei eseguiti nel nostro Paese quando il limite indicato dall’Oms è del 15%; le tariffe di alcuni farmaci, come nell’esempio riportato da un lettore de «La Repubblica» le cui pillole per abbassare il colesterolo hanno visto precipitare il loro costo da 37 euro a 12,50 solo a seguito dell’approvazione della legge sui generici; i costi della medicina difensiva, che solo a Roma e provincia secondo una ricerca della Fondazione Istud ammontano a poco meno di due miliardi; i canoni di affitto milionari quando ci sono locali disponibili gratis, come nell’esempio di sei poliambulatori della Asl RmD che spendono due milioni l’anno di affitto quando il piano dell’allora Commissario per l’ospedale Forlanini, Massimo Martelli, nel 2010, offriva un’intera ala dell’ospedale, così sottratta all’abbandono e al degrado, per accorpare i poliambulatori al costo simbolico di un euro l’anno.
 
Un capitolo a parte, in questa lista meramente simbolica delle zone d’ombra dove si possa e si debba intervenire, meritano invece i dispositivi medici perché nel loro fatturato a nove zeri ampie sono le sacche di acquisti poco leciti se paghiamo un defibrillatore, della stessa marca e dello stesso modello, 13.500 euro a Trento e 16.100 a Bolzano, o uno stent medicato 594 euro a Terni contro i 1.250 di Genova. L’ex ministro della Salute Ferruccio Fazio, per fermare quest’emorragia di denaro pubblico, propose di togliere alle Asl il potere di approvvigionarsi autonomamente, centralizzando a livello regionale gli acquisti. Un’idea che forse meriterebbe di essere ripresa e valutata, così come una riflessione andrebbe fatta a proposito dell’inappropriatezza di alcune prescrizioni, posta recentemente in risalto da un’analisi pubblicata su Hospital Medicine, dove si rileva che in tre casi su quattro dei 6,5 milioni di dimissioni ospedaliere esminate non ci siano state ragioni sufficienti a giustificare la prescrizione di inibitori dell’acidità di stomaco: una categoria di farmaci nel mirino di molti medici che ritengono assurda la spesa di un miliardo di euro da parte del SSN per curare la “cattiva digestione”.
Restiamo convinti, tuttavia, che nonostante le ampie possibilità di recupero di risorse qui accennate, per quella social innovation a cui abbiamo fatto menzione, la strada maestra da seguire con determinazione sia quella della lotta alla corruzione e all’evasione fiscale perché, come spiega l’ultimo Rapporto Italia di Eurispes, nel nostro Paese convivono tre Pil: quello ufficiale di 1.540 miliardi di euro, quello sommerso di 540 miliardi di euro e quello criminale di 200 miliardi di euro. La prima azienda del Paese è la mafia, riunendo sotto questo termine tutte le associazioni criminose, i cui affari uniti a quelli di contribuenti poco onesti drenano sotto forma di evasione fiscale una cifra che Eurispes stima essere di 250 miliardi di euro l’anno. Riuscire a recuperare parte di quella somma è il primo dovere di uno Stato di diritto affinché possa finanziare la conoscenza, lo sviluppo e l’innovazione, e così testimoniare la sua visione di società, più giusta e responsabile, che - come scrive l’economista Riccardo Petrella - “rifiuti il presente e sogni”, perché mondi migliori si realizzano solo con la forza dell’immaginazione e con l’impegno della cittadinanza più attiva.
 
Dopotutto, scrive il procuratore Scarpinato ne Il ritorno del Principe, il nostro Paese è sempre stato salvato dalle minoranze: l’Unità d’Italia fu opera di una ristretta cerchia che s’inventò una nazione che non esisteva, “il nostro patto sociale fondante - la Costituzione del 1948 – fu […] opera di una minoranza che non rifletteva le culture di massa”. L’augurio è che anche oggi almeno quella minoranza di cittadinanza attiva si ridesti e torni a sognare un’Italia possibile, madre e non matrigna dei suoi figli. Un’Italia dove non ci si debba più vendere alla criminalità, e per 1000 euro, i soldi necessari a curare un figlio malato, perché “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.
 
Daniela Francese

03 dicembre 2012
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