Encefalopatie dello sviluppo ed epilettiche, la ricerca avanza ma i malati arrancano. Le riflessioni al National Summit di SICS
di Lucia Conti
Sul fronte medico-scientifico sono stati fatti passi da gigante per la cura di queste patologie. Le prospettive future sono ancora migliori. Ma i pazienti e le loro famiglie evidenziano: “Il benessere del malato dipende da un mix di fattori e servizi che, oltre alla parte terapeutica e farmacologica, coinvolgono quella riabilitativa e sociale”. Per questo serve un approccio multidisciplinare e competenze specifiche. Ne abbiamo parlato con Simone Baldovino, Andrea Lenzi, Cristina Scaletti, Antonietta Coppola, Angela La Neve, Lino Nobili, Isabella Brambilla e Katia Santoro.
30 MAG - Le encefalopatie dello sviluppo ed epilettiche sono patologie gravi e rare. Alcune si manifestano già nei primi mesi di vita, o nei primi anni di vita dei bambini con differenti espressioni sintomatiche, che possono comportare un ritardo nello sviluppo cognitivo e/o motorio. Alla luce delle tante e differenti cause e sintomatologie l’iter diagnostico, terapeutico e assistenziale non può che essere multidisciplinare; il trattamento del sintomo epilettico deve andare di pari passo con le attività quali logopedia, psicomotricità, fisioterapia etc., perché tutte queste prestazioni possono fare importanti differenze sulla qualità di vita che è possibile offrire ai pazienti, così come di particolare rilievo è il passaggio dall’età pediatrica a quella adulta e la continuità assistenziale. Di tutto questo, e molto altro, si è parlato al National Summit su "Il percorso di cura del paziente con epilessie rare", promosso da Sics Editore con il contributo non condizionato di UCB Pharma.
La puntata, condotta da Ester Maragò (Quotidiano Sanità), ha visto ospiti Simone Baldovino, Responsabile del Centro di Coordinamento della Rete Interregionale per le Malattie Rare del Piemonte e della Valle d’Aosta; Andrea Lenzi, Coordinatore del Centro Regionale Malattie Rare del Lazio e Rappresentante della Regione al Tavolo Interregionale sulle Malattie Rare; Cristina Scaletti, Responsabile clinico Rete Regionale Malattie Rare Regione Toscana; Antonietta Coppola, Responsabile Centro Epilessia Dip.to di Neuroscienze, Scienze Riproduttive ed Odontostomalogiche Università Federico II di Napoli e membro della commissione Genetica della LICE; Angela La Neve, responsabile del Centro per la diagnosi e cura delle Epilessie del Policlinico di Bari; Lino Nobili, Professore Ordinario di Neuropsichiatria Infantile, Direttore della Scuola di Specializzazione in Neuropsichiatria Infantile, Responsabile dell'Unità di Neuropsichiatria Infantile Istituto IRCCS G. Gaslini; Isabella Brambilla, Presidente Dravet Italia ONLUS; Katia Santoro, Presidente Associazione Famiglie LGS ITALIA.
“Nei pazienti con encefalopatia epilettica – ha spiegato Lino Nobili – convivono due condizioni: l’encefalopatia, con alterazioni strutturali e funzionali del cervello, e l’epilessia. Questo comporta da una parte disturbi dello sviluppo e del neurosviluppo (disabilità intellettiva, disturbi motori e psicomotori, disturbi comportamentali delle relazioni sociale o quadri psichiatrici severi), dall’altra le crisi epilettiche, generalmente frequenti”.
“Esistono – ha proseguito Nobili – diverse forme di encefalopatia epilettica, con sintomi ed evoluzione differenti”. Come per ogni altra malattia, più velocemente arriva la diagnosi, prima si avvia il percorso di cura, che non porta alla guarigione, ma può migliorare lo stato di salute del bambino e la sua qualità di vita. “Ridurre l’attività epilettica, ad esempio, è fondamentale – ha spiegato ad esempio l’esperto -. Tuttavia, c’è molto altro dare fare, perché le malattie estremamente complesse, necessitano di una presa in carico altrettanto complessa, che va oltre le terapie farmacologiche e si spinge a tutte quelle prestazioni e servizi in grado di offrire al bambino le maggiori opportunità in termini di sviluppo e di benessere psicologico”.
Serve un approccio multidisciplinare, dunque. Fin dal percorso diagnostico, perché, ha spiegato Antonietta Coppola, le encefalopatie epilettiche e dello sviluppo possono avere cause molto diverse, “per la maggior parte genetiche, ma anche malformative. Conoscere la causa scatenante è un vantaggio enorme, anzitutto per determinare la terapia migliore, ma anche perché conoscere il nome del ‘mostro’ contro cui si combatte ha un impatto positivo sulle famiglie. Non sapere fa più paura”. La scienza, ha detto Coppola, “negli ultimi anni ha fatto passi da gigante, a livello diagnostico e terapeutico, con opzioni sempre più personalizzate e di precisione. Restano delle zone d’ombra, ma nel tempo avremo opportunità per sempre più diverse condizioni”.
Terapia personalizzata e di precisione significa tenere anche conto, ad esempio, dell’età del bambino, o di quali farmaci non possano essere utilizzati per determinati condizioni perché aumentano il carico della malattia, così come di eventuali effetti collaterali. “Per tenere conto di tutti questi aspetti – ha osservato Coppola -, ci vogliono competenze specifiche, multidisciplinarietà e centri di riferimento dove poter trovare queste competenze e professionalità”.
Una diagnosi accurata e la presa in carico in un centro adeguato, ha aggiunto Angela La Neve, “possono consentire di conoscere, ad esempio, qual è l’anomalia generata dalla mutazione genetica e procedere a un trattamento integrativo, ad esempio nel caso di carenza di un costituente fondamentale, o con una dieta specifica, se necessario”. La questione è questa: “Dalle encefalopatie epilettiche non si ritorna mai indietro, ma possiamo rendere la vita dei malati sicuramente migliore. Certe volte le soluzioni ci sono, serve l’attenzione e le giuste competenze per individuare il problema e come affrontarlo”.
La Neve e Katia Santoro hanno quindi sollevato una questione di grande rilevanza, che riguarda la brusca frenata che subisce la macchina assistenziale nel momento in cui il bambino diventa adulto: “Per quanto possano esserci carenze, l’assistenza pediatrica esiste e garantisce servizi fondamentali. Ma sembra che i decisori politici siano convinti che compiuti 18 anni la malattia svanisca. Beh, non è così, i nostri figli non guariscono mai, piuttosto vengono dimenticati”, ha detto Santoro, spiegando come questo, unito alla fine dell’età scolastica, porti i ragazzi addirittura a una regressione, perché possono venire a mancare le terapie riabilitative, la logopedia, il sostegno psicologico e anche le interazioni sociali. “Tutto questo è assurdo ed è anche uno spreco, perché non si può mettere in piedi un team che, insieme alla famiglia, spinge il bambino a dare il massimo e poi disperdere questa squadra vincente e i traguardi raggiunti”.
Per la presidente dell’Associazione Famiglie LGS Italia “in Italia ci si dimentica troppo spesso che i malati vanno presi in carico nella loro totalità e dignità, così come vanno sostenuti i caregiver e anche i sibiling, cioè i fratelli e le sorelle, che subiscono un impatto fortissimo dalla diagnosi del fratello o della sorella. Un impatto che inizia da giovani, quando siamo costretti a trascurarli o a chiedergli sacrifici, e che li vede destinati a diventare caregiver quando i genitori non potranno più farlo”.
Angela La Neve lo ha definito “il problema dei problemi”, quello della continuità assistenziale del lavoro di équipe nei pazienti una volta raggiunta l’età adulta. “Il governo statale e quelli regionali hanno il dovere di individuare uno o due centri di terzo livello in ogni regione, con team multidisciplinari strutturati, in cui ogni figura professionale dovrebbe essere scelta direttamente dalla direzione sanitario dell’azienda in base alle sue competenze, perché fare lo psichiatra è una cosa ma seguire un ragazzo con una sindrome del neurosviluppo è di completamente diverso. Servono competenze specifiche, così come a nulla servono i PDTA se non si individua chiaramente il team multidisciplinare con competenze specifiche che lo mette in pratica. I pazienti e le loro famiglie vanno accompagnate, nel migliore dei modi, per tutto l’arco della vita del malato”.
Anche da parte di Isabella Brambilla un appello affinché sia garantita la multidisciplinarietà e una serie di servizi che possono fare la differenza: “Se la parte diagnostica e terapeutica è fondamentale – ha detto - non meno importante è poter contare sulla riabilitazione e servizi di sostegno sociale. Servizi che oggi non possiamo trovare neanche nel privato, fossimo anche nella possibilità di pagare cifre altissime per ottenerli. Perché di esperti veri, in questo campo, ce ne sono pochi. Per questo è essenziale poter contare su Centri di riferimento”.
Particolarmente carente oggi, per la presidente di Dravet Italia, è il sostegno psicologico al paziente e alle famiglie: “Ne abbiamo bisogno. Lo dimostra in fatto che il 40% delle coppie con un figlio affetto da encefalopatia epilettica finisce per divorziare. Anche dove questo non avviene, le madri rinunciano a carriera e sacrificano tutta la loro vita per accudire i figli. Ci si scontra con la burocrazia. I fratelli e le sorelle soffrono. La vita non è più quella di prima”.
Simone Baldovino, responsabile del Centro di Coordinamento della Rete Interregionale per le Malattie Rare del Piemonte e della Valle d’Aosta, ha ricordato come le encefalopatie epilettiche complesse rientrino nel gruppo ancora più ampio delle malattie rare. Ha quindi voluto sottolinea come l’Italia sia stata “tra i primi Paesi a spostare l’attenzione dai farmaci orfani ai pazienti rari, con l’emanazione, nel 2001, del decreto ministeriale istitutivo della rete nazionale delle malattie rare e di esenzione per i pazienti rari dalla partecipazione al costo delle prestazioni”. In Italia però, ha rimarcato Baldovino, “siamo tanto bravi a partire quanto a fermarci”. E così anche il decreto sui nuovi Lea, che amplia l’elenco delle malattie rare esenti dalla partecipazione al costo, aspetta ancora di diventare operativo. Permangono, così, molte differenze tra Regioni che garantiscono prestazioni extra Lea e quelle che non lo fanno. “Abbiamo un Tavolo Interregionale sulle Malattie Rare con cui cerchiamo di dare risposte univoche e uniformi ai nostri pazienti, ma spesso lo stop è imposto dall’alto, probabilmente perché si pensa che certe prestazioni faranno lievitare chissà quando la spesa pubblica. Chi eroga servizi extra Lea ha invece dimostrato che le spese si riducono, perché il paziente non adeguatamente trattato ricorre più spesso all’ospedale e a cure non previste”.
Sulla necessità di formazione e informazione è tornata a riflettere Cristina Scaletti, responsabile clinico Rete Regionale Malattie Rare Regione Toscana, secondo la quale di malattie rare dovrebbero occuparsi anche “ingegneri, fisici e matematici”, perché “queste patologie hanno bisogno di terapie ma di tanto altro ancora. Serve ricerca, ma serve anche organizzazione e reti ad altissima efficienza”.
Scaletti ha quindi richiamato all’importante ruolo svolgo dalle associazioni, anche come punti di riferimento per capire i bisogni dei pazienti, e ha evidenziato come l’Italia sia apprezzata a livello europeo per quanto riguarda le malattie rare: “Nella rete ERN siamo tra i paesi che possono vantare più centri di riferimento per le malattie rare. Centri che, per entrare a far parte della rete, hanno dovuto superare valutazioni rigide, che tengono conto di ogni aspetto che entra in gioco nella presa in carico di queste malattie e che dimostrano quanto sia importante fare rete”.
Scaletti ha quindi citato alcune delle best practice introdotte nel nostro Paese, come screening neonatali per la SMA, “che ha cambiato il decorso naturale di una malattia terribile sul piano prognostico”.
A tirare le fila della puntata, il coordinatore del Centro Regionale Malattie Rare del Lazio e rappresentante della Regione al Tavolo Interregionale sulle Malattie Rare, Andrea Lenzi, che ha ribadito l’impegno suo e del tavolo per garantire l’assistenza di cui hanno bisogno a tutti i pazienti in ogni Regione: “Noi, nel Lazio, godiamo di alcuni privilegi derivanti dalla centralità territoriale e dalle strutture di eccellenza presenti su Roma, ma sappiamo bene che da altre parti la realtà è molto diversa”.
Di passi avanti, comunque, ne sono stati fatti. Ma serve ancora “tantissima formazione, sia tra i professionisti, medici – penso a quelli del territorio – e non solo”. Per Lenzi serve anche informazione, “a livello politico in primis, perché è lì che si prendono le decisioni, ma anche di popolazione generale, perché la sensibilità e le conoscenze a livello di società civile aiutano a migliorare l’integrazione del paziente con il tessuto sociale, a introdurre soluzioni inclusive, insomma a migliorare la qualità di vita dei malati”.
“Da alcuni anni – ha osservato Lenzi concludendo – la collaborazione tra associazioni, clinici, scienziati e persone con responsabilità istituzionali è senz’altro cresciuta. Dobbiamo mettere le Regioni nelle condizioni di lavorare insieme e camminare allo stesso passo. Ci accorgeremmo che il traino non sempre arriva dal Nord verso il Sud e che il passo non rallenta, bensì crea più salute”.