Parole chiave: Italia Africa, Telemedicina, Piano Mattei, Cooperazione, il Basaglia dell’Africa; Pongov
di Michelangelo Bartolo
Progetti di inclusione differenti, per storia e per posizione geografica, possono rafforzarsi e sostenersi reciprocamente. In un momento storico in cui viene naturale accentuare le differenze, pensare ad una sorta di collaborazione tra il nord e il sud del mondo può essere una chiave per lenire, almeno in parte, le differenze tra Europa e Africa.
16 OTT - Cotonou, non è propriamente il centro del mondo. E’ la capitale economica del Benin, paese che affaccia sull’Atlantico nel Golfo di Guinea, tendenzialmente dimenticato dal circuito delle notizie internazionali.
Per una settimana ho frequentato il Centro Sanitario San Camillo del Lellis perché anche qui è stato installato un servizio di telemedicina che ora è anche in grado di trasmettere tracciati elettroencefalografici, diagnostica preziosa per il corretto trattamento dell’epilessia, patologia diffusa in queste latitudini e curata, quando va bene, con la sola osservazione clinica. I tracciati e le notizie cliniche dei pazienti, saranno visionati da una rete di neurologi della Società Italiana di Neurologia che collaborano da anni con la Global Health Telemedicine, onlus che da 10 anni garantisce migliaia di teleconsulti dai luoghi più disparati dell’Africa.
Il Centro Sanitario è una creatura di Gregoire Ahongbonon, uomo minuto, ex gommista, che da oltre 30 anni dedica interamente la sua vita a liberare malati di mente dalle catene che li affliggono; catene tutt’altro che metaforiche. Ancora oggi in molti paesi emergenti la malattia mentale si confonde con l’epilessia, la sordità o ad altre patologie organiche e fa spesso etichettare qualsiasi forma di malattia non come una patologia da curare ma come una sorta di opera del demonio, di stregoneria, che, come tale, deve essere combattuta, repressa ed isolata. La prassi, ancora tutt’altro che sporadica, relega molti malati all’isolamento più assoluto assicurato da ceppi o catene che li legano agli alberi, accuditi, si fa per dire, da qualcuno che gli porta acqua e viveri come fossero animali.
Gregoire, da quasi trent’anni, toccato da tale realtà e da un’autentica esperienza di fede, decide di liberare questi poveretti ed organizza per loro centri di accoglienza che ben presto divengono centri sanitari con la presenza, per quanto è possibile, di medici, infermieri, psicologi e qualche psichiatra. L’etichetta di malato di mente inizia così a declinarsi con diagnosi differenziate: schizofrenia, depressione, psicosi, sindromi bipolari, epilessia, sordità. Accanto alle diagnosi iniziano trattamenti appropriati anche farmacologici.
Oggi il centro San Camillo de Lellis ospita stabilmente quasi 300 persone e ha in cura migliaia di pazienti dalla città. E’ una struttura ampia a forma circolare che nel suo centro ospita una costruzione a mo’ di pagoda su cui affacciano le camere degli ospiti. A breve le stuoie saranno sostituite da veri e propri letti con materassi e zanzariere. Appena è possibile ad ogni malato viene affidato un compito: dalla pulizia dei luoghi, alla cucina, alla cura del canto, all’attività nel laboratorio d’arte o al lavoro nella panetteria. Ricomincia la vita. Non pochi di loro hanno ancora i segni dei ceppi di catena che gli aveva inferto ferite alle gambe o alle braccia.
E la liberazione dalle catene è qualcosa che continua anche oggi. Con Gregoire, armato di enormi tronchesi, delle dimensioni in dotazione ai vigili del fuoco, mi addentro con la sua jeep in un sentiero che se fossimo a piedi dovremmo percorrere in fila indiana. Si procede lentamente con la vegetazione che schiaffeggia il pickup ma che sembra ritrarsi al nostro passaggio. Dopo qualche chilometro raggiungiamo un agglomerato di una manciata di case di legno e fango. Dall’interno di uno di questi improbabili rifugi una voce, una specie di cantilena, ripete all’infinito suoni circolari. Entriamo. Janet, 65 anni, giace seduta in un angolo. I suoi movimenti sono limitati da una catena di motocicletta serrata intorno alle caviglie bloccata da lucchetti ormai arrugginiti.
La cantilena si fa più forte, angosciosa, forse anche spaventata dalla mia presenza. Credo che sia la prima volta che un bianco metta piede nel suo tugurio. Gregoire, non perde la sua tranquillità. Gli parla, ripete domande a cui non riceve mai risposta. Poi la parola passa alle tronchesi. L’anello dei lucchetti oppone un’inutile resistenza ma cede quasi subito all’impietoso gioco di leve. Janet è meravigliata, non capisce, si alza e con incertezza muove alcuni passi. Le gambe con una massa muscolare ridotta al minimo, cedono quasi subito. Gregoire, anche se minuto di corporatura, gli offre il suo appoggio. Risaliamo tutti in macchina, anche con Janet, ripercorriamo il sentiero al contrario accompagnati dalla sua cantilena che dopo poco assume le sembianze di una melodia, non più monotonale. Dopo due ore al Centro Sanitario di Cotonou viene lavata, vestita con indumenti nuovi e indirizzata ad una prima visita. Una nuova liberazione si è compiuta anche oggi.
L’opera di Gregoire Ahongbonon è ormai ben radicata ed ha attirato l’attenzione dei mass media di diversi paesi tanto che, soprattutto in Italia è conosciuto come “Il Basaglia dell’Africa”. Candidato al premio Aurora Humanitarian award del 2021, personaggio che ha collezionato non pochi riconoscimenti internazionali, ha diffuso la sua opera in Benin, Costa D’Avorio e Togo, diffondendo una cultura dell’inclusione anche per i malati più complicati.
Il fatto che tale modello contro la segregazione dei malati di mente parta dall’Africa, credo che debba interrogare anche il nostro paese. Potremmo dire che, in un certo senso, l’appellativo di “Basaglia dell’Africa” ci fa onore e che la riforma dettata dalla legge 180 ha raggiunto, nei suoi fondamenti, anche alcuni paesi africani. Analogamente a quanto sta facendo oggi Gregoire, la chiusura dei manicomi e l’istituzione di servizi di igiene mentale pubblici iniziata quasi 50 anni fa, ha di fatto creato una breccia verso l’isolamento forzato di tali malati.
C’è anche da dire che, anche in Italia anche se in modo isolato, non mancano ancor oggi esperienze significative a riguardo. La Asl Roma 4 nel nord del Lazio, solo per fare un esempio, ha realizzato 14 esperienze di Co-housing per persone con disagio psichico, e il modello è segnalato tra i progetti di eccellenza anche dal Ministero della Salute e dal progetto PONGOV cronicità promosso dall’Agenas.
Progetti di inclusione differenti, per storia e per posizione geografica, possono rafforzarsi e sostenersi reciprocamente. In un momento storico in cui viene naturale accentuare le differenze, pensare ad una sorta di collaborazione tra il nord e il sud del mondo può essere una chiave per lenire, almeno in parte, le differenze tra Europa e Africa.
Si parla ultimamente di piano Mattei per l’Africa, un programma ambizioso che, a mio modesto avviso, dev’essere inteso non solo come un programma a senso unico, dall’Italia all’Africa, ma come una sorta di una nuova cooperazione a doppio senso, dove l’arricchimento non deve essere necessariamente unidirezionale.
Le esperienze citate o i servizi di telemedicina per l’Africa, ad esempio, di cui l’Italia, grazie alla collaborazione di centinaia di medici specialisti di strutture sanitarie di rilievo è leader, possono giocare un ruolo determinante nella definizione dell’imminente “Piano Mattei”. Fornire servizi di telemedicina che permettono indicazioni diagnostiche e terapeutiche certe ha un valore che va oltre all’utilità, già elevata, del singolo caso clinico. Si tratta di una sorta di formazione continua, un ponte che con pochi click mette in comunicazione mondi distanti.
Un’Europa che moltiplica muri, fossero anche muri d’acqua come lo è il Mediterraneo, è destinata ad avere un ruolo marginale sullo scenario internazionale, quasi si autocondannasse a giocare sempre in difesa. Ma forse oggi, più di ieri, davanti le divisioni e i mali del mondo c’è bisogno di giocare in attacco. Un attacco fatto di rete di comunicazione, per fornire sviluppo, speranza, formazione, crescita ad ogni paese. La cooperazione sanitaria può forse aiutare, nei limiti delle proprie competenze, a dare un motivo in meno, per abbandonare il proprio paese e affidarsi all’incognita dell’emigrazione.
E’ un progetto ambizioso, sicuramente di lungo periodo. La professionalità e il know how di tante realtà sanitarie italiane è fondamentale. La cooperazione non si improvvisa. Oggi c’è bisogno di scelte coraggiose: investire risorse umane ed economiche per affrontare questa sfida.
Michelangelo BartoloCoordinatore Gruppo di Lavoro Telemedicina della Regione LazioUOSD Telemedicina Azienda Ospedaliera San Giovanni Addolorata
16 ottobre 2023
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