La spinta a partecipare al Forum 180 mi è stata data dal recente libro “Oltre la 180” di quel gran genio di Ivan Cavicchi del quale avevo già apprezzato tutti gli interventi in tema di Salute Mentale su QS nonché il precedente libro sulla Scienza impareggiabile.
Il tema conduce alla Psichiatria che della Salute Mentale è il fulcro.
La psichiatria è una branca della medicina ed è, come affermato da Mario Maj nell’intervento inaugurale della SIP di quest’anno a Genova, la più complessa delle discipline mediche.
Se si parlasse di qualsiasi altra disciplina il discorso sarebbe più semplice, ma trattandosi di Psichiatria, la questione è decisamente più complicata ed imprescindibile dalla sua natura e dalla sua storia.
La Psichiatria, infatti, nasce con tre anime e per questo il discorso psichiatrico è situabile in uno spazio logico di forma triangolare dove al vertice si pone la scienza (medicina e più latamente le scienze della vita) ed alle basi , da un lato, la filosofia (nel cui corpo nacque la psicologia senza mai separarsene del tutto) e dall’altro, la politica (quale tecnica del governo, dell’organizzazione pubblica, della giustizia, del diritto…).
Sono queste tre anime che l’hanno resa nel tempo estremizzabile, manipolabile, minimizzabile, ma i tempi cambiano…. questi sono durissimi …. se non facciamo scelte decise sulla nostra identità di psichiatri e la nostra posizione le sorti non saranno certo quelle magnifiche e progressive del tempo che fu.
Credo che questo voglia dire leggere i tempi e decidere di fare della psichiatria una disciplina in costante sincronia con lo spirito del tempo… o almeno provarci, senza dimenticare certamente la lezione di Basaglia.
Per questo e in questo senso, come dice Cavicchi, serve andare “ oltre la legge 180”…
Il passato
Dopo il varo della legge, tuttavia, la commistione tra indirizzo politico e gestione e la incerta crescita dei servizi territoriali non hanno permesso di raggiungere i risultati attesi, anche perché il quadro politico e finanziario non consentì - come programmato - di varare il PSN nel 1979.
In questo clima di incertezza la legge 595 del 1985 stabiliva i nuovi principi di programmazione ed organizzazione sanitaria per gli ospedali, ne definiva i parametri (dotazione media di pl, tasso medio di ospedalizzazione, tasso minimo di utilizzazione ecc…). Si individuavano, inoltre, le aree funzionali omogenee per superare le norme della legge 132 del 1968 sul numero dei p.l. delle Divisioni e , come modalità pratica per l’avvio dei Dipartimenti, si introduceva anche il concetto delle alte specialità, premessa del DM del 1992 sull’elenco delle alte specialità e sui requisiti necessari per ospitarle, da cui è derivato il riconoscimento delle aziende ospedaliere.
La nostra scelta della psichiatria di comunità all’epoca è stata il tamburino di una complessa rivoluzione antropologica e sociale che ci ha fin qui accompagnato ininterrottamente.
La nascita dei nostri Dipartimenti, indipendenti da tutti gli altri (con i nostri P.P.O.O. e il PANS) è il passato, così come le altre affascinanti utopie che ne hanno accompagnato la storia. Ricordiamo quella dell’equipe longitudinale per assicurare la continuità assistenziale (affossata dopo pochi mesi di vita della riforma dal Commissario del Governo della Regione Liguria, il quale ratificò una legge che prevedeva tre distinte equipe psichiatriche: ambulatoriale, ospedaliera e per gli OO. PP.).
Ricordiamo anche l’indifferenza verso il numero dei posti letto ospedalieri e, soprattutto, la noncuranza del loro decoro. Ed inoltre: la carenza di strutture residenziali pubbliche esitate nella progressiva privatizzazione della salute mentale. Insomma: un caleidoscopio variegato diverso da regione a regione influenzato non solo da ragioni storiche, culturali ed economiche, ma anche da una congerie infinita di fattori locali, tra i quali la capacità del singolo psichiatra di relazionarsi con il contesto politico-amministrativo di riferimento per ricavarne attenzione e sensibilità verso i problemi dell’assistenza psichiatrica.
L’avvio dei dipartimenti si è scontrato, già dall’inizio, con dei limiti difficilissimi da superare come l’impossibilità di delegare ad altri la propria funzione (pensiamo alla decisione di privare della libertà un individuo per “malattia”), la necessità di considerevoli risorse interne per individuare e rendere disponibili le risorse esterne indispensabili al buon esito del trattamento (esiste un’altra funzione lavorativa obbligata a questo titanico sforzo di autosostentamento e di autolegittimazione operato senza soluzione di continuità e totalmente fuori dal proprio ambito funzionale?).
E ancora: l’identificazione del trattamento del paziente con la presa in carico dello stesso (siamo ben oltre qui dalla nota distinzione semantica tra il curare ed il prendersi cura) e la sottovalutazione ideologica del problema degli esiti del trattamento, per cui si è bandita per anni la parola cronicità, addebitandola, se proprio si era costretti ad usarla, a tutti i più svariati fattori che non fossero, come è principalmente, la naturale evoluzione nosodromica.
Ciò ha generato spesso un sentimento difensivo di onnipotenza dello psichiatra: dato per scontato che la cura fosse ben condotta, la responsabilità dell’insuccesso non solo non gli era addebitabile, ma era addirittura la riprova delle responsabilità di cattivi amministratori, di cattive famiglie, di una società ostile e rifiutante.
Stiamo parlando delle psicosi, le malattie gravi deliberatamente individuate come obiettivo di cura pressochè esclusivo dei dipartimenti.
Tutti gli operatori della Salute Mentale, comunque, nel caravanserraglio dipartimentale hanno lavorato come loro possibile (vedi “Oltre la 180” pag. 134 e segg.).
I risultati, dati alla mano, li abbiamo davanti e tutti i direttori di dipartimento presenti nel corso della conferenza nazionale dell’aprile scorso a Roma sono stati concordi sul giudicare tragica la situazione.
Il futuro
Credo che, per capire dove vogliamo e possiamo andare, sia bene conoscere, seppure brevemente, cosa è successo e sta succedendo nel mondo sanitario intorno a noi, a partire dal momento del nostro ingresso nel SSN nel 1978.
Già dai primi anni’70 il SSN era entrato in crisi per la forte espansione dell’assistenza sanitaria, in particolare di quella ospedaliera in buona parte attribuibile all’incremento della popolazione anziana e alle gravissime carenze di soluzioni alternative.
Occorre sottolineare che, poiché nel mondo occidentale la medicina organizzata è, sin dall’inizio, medicina ospedaliera, la crisi di questa riguardava tutte le economie occidentali.
Da qui le varie risposte nei diversi paesi. Una delle prime fu la definizione, negli USA, delle caratteristiche delle malattie croniche (“long-term patients”) ovvero di coloro che richiedono un prolungato periodo di cure, di almeno 30 giorni in un O.G. o più di 3 mesi al proprio domicilio o in altre istituzioni (negli Stati Uniti la spina dorsale del sistema ospedaliero sono i “Comunity hospitals” cioè short-term- general end special hospitals con una degenza di durata inferiore ai 30 giorni ).
Era evidente, per impedire la saturazione del sistema da parte dei long-term- patients, l’importanza delle strutture post-ospedaliere. Altrettanto evidente, secondo questa logica, affermare che la rete dei servizi assistenziali è unica e non può che far capo logicamente, concettualmente e funzionalmente che all’ospedale, inteso come riferimento della Progressive Patient Care (PPC) , definita come “una forma sia di organizzazione che di atteggiamento nel provvedere ai servizi che riguardano la salute dei pazienti, i quali sono seguiti in un ambiente adeguato alle loro necessità come: Intensive Care; Acute Care; Long- Term Care e Home Care.
Circa i dipartimenti, la loro attività era già presente da anni negli USA , ma in Europa se ne comincia a parlare formalmente nel 1977, quando in Scozia ed in Inghilterra due documenti indicano l’esigenza che venga superato il frazionamento delle unità cliniche in tante parti tra di loro indipendenti e che, quindi, seguendo anche l’esempio del Nord America si creino organizzazioni più ampie (“Divisions”) per rendere agevoli le relazioni tra discipline affini e complementari così da valutare assieme i criteri di ammissione dei pazienti, i percorsi assistenziali, le attività ambulatoriali ed il rapporto con le strutture extraospedaliere.
Per rendere visibile il concetto, il rapporto inglese raffigura in copertina una ruota dentata (“cogwheel”) per indicare un’attività complessa che funziona solo se tutte le parti sono sincronizzate. Gli americani ed i tedeschi hanno dato grande spazio al decentramento dei dipartimenti conferendo loro grande responsabilità clinica, sostanziale, organizzativa e corredandoli anche di un esperto di amministrazione.
L’ospedalizzazione del SSN in Italia nasce sugli stessi principi che hanno portato al NHS and Comunity Care Act in Gran Bretagna nel 1990 che ha sancito la dipartimentalizzazione (“Clinical Directorates”) ai fini della responsabilizzazione clinica e gestionale: tutti concetti che trovano riscontro in Italia nel DL 502 del 1992 e nelle successive modifiche e integrazioni.
La remunerazione dei ricoveri per DRG (adottata in Italia nel 1995) era stata introdotta dal programma Medicare negli USA a partire dal 1983 ottenendo gradualmente ciò che ci si aspettava, cioè una maggiore attenzione sui singoli ricoveri, una riduzione significativa della degenza media e del numero dei posti letto per acuti ed una forte crescita dell’attività “outpatient” (che comprende anche quello che da noi è il DH) nonché una marcata utilizzazione dei servizi territoriali, ambulatoriali e residenziali.
E’ noto che a partire dalla legge di riforma DL 502/92 e s.m.i. si sia posto il tema della definizione delle prestazioni erogate dal SSN (poi divenute LEA) e della loro “valorizzazione “attraverso un’idonea ed esaustiva classificazione e corrispondenti “tariffe“.
A fronte di un sistema inizialmente “centralizzato” ed unitario che proprio per garantire il carattere universale e nazionale del SSN avesse regole e definizioni comuni, si sono via via sviluppate (in seguito alla modifica dell’art.117 della Costituzione nel 2001) differenze che hanno portato il SSN ad essere piuttosto costituito dall’aggregazione di singoli ed autonomi SSR.
Attraverso una disamina dei principali provvedimenti normativi e considerazioni sugli scenari emersi, diversi esperti ribadiscono la necessità di recuperare una condivisione sulla definizione delle prestazioni erogabili (LEA) e soprattutto sulla metodologia di determinazione delle tariffe recuperando i ritardi ed “allineando” le diverse realtà regionali locali, pena la “babelizzazione” del SSN, il mancato controllo ed il permanere di sostanziali problemi di sperequazione in termini effettiva copertura universale, accessibilità, equità e sostenibilità del sistema. Ma sul tema delle prestazioni sanitarie (e della loro remunerazione) pure affrontabile in termini di riforma nel PNRR saranno necessari ulteriori approfondimenti.
A questo proposito va segnalata la proposta del caso che le prestazioni siano comprese in un unico percorso assistenziale – PDTA – erogato per un unico paziente da diversi soggetti – tutti accreditati, privati o pubblici che siano – e appartenenti a diversi “setting assistenziali” - per es. ospedale vs territorio ricovero vs prestazione specialistica o “extraospedaliera” e per semplicità e in teoria riteniamo tutti “appropriati” cioè consistenti nelle prestazioni giuste al momento giusto, caso esemplare non facilmente risolvibile non solo per la salute mentale, ma per tutte le specialità del nostro sistema sanitario.
La rassegna storica (evidentemente lacunosa) dimostra come si sia realizzata, a partire dalla fine del ‘78 e continuando con quelle del ‘92 e ‘99 una politica di “deospedalizzazione” (dismissione di massa dei posti letto, chiusura di molte strutture giudicate inadeguate ecc.) basata sull’errata competizione ospedale/territorio in cui l’ospedale come istituzione veniva via via politicamente delegittimato come bene e come servizio contrapponendo ad esso il territorio come strumento per contenerne la funzione, ma soprattutto il costo.
Il riferimento di quelle politiche è il DM 70 (quanti psichiatri lo conoscono?) che è dichiarato essere il riferimento anche della missione M 6. C 2 del PNRR dove, quindi, l’idea di “prossimità” che è l’idea forte della missione 6 sarebbe, a tutt’oggi, nonostante la pandemia ancora strisciante, tutta giocata in chiave antiospedaliera.
Ciò vuol dire, secondo il Forum Permanente sul SSN nel post Covid (QS del 14.6.2021) che per il governo precedente il cittadino avrebbe diritto ad avere un ospedale minimo, ma non adeguato alle sue reali necessità di cure, dunque un ospedale cui è impedito il diritto di svilupparsi, come se la salute prodotta dall’ospedale fosse incompatibile con quella prodotta nel territorio.
Da qui l’idea suggerita da Cavicchi di cambiamento per superare la dicotomia “territorio ed ospedale”, affermando la validità di un sistema non banalmente integrato, ma interconnesso, nel quale diversi sottosistemi con autonomie relative operano in modo cooperante.
L’idea vecchia, classica di integrazione, ora che si può contare sulla tecnologia informatica, dovrebbe lasciare il posto ad un’idea più moderna di interconnessione funzionale.
Oltre l’idea di “rete” c’è sempre quella di “organizzazione dipartimentale” da considerare però non come semplici insiemi o somma di servizi, ma come servizi in relazione tra di loro cioè con autonomie funzionali interconnesse.
Sempre nel 2006 Elio Guzzanti (ideatore e primo direttore di Agenas, già Ministro della Sanità , profondo conoscitore dell’assistenza ospedaliera in Italia e promotore dell’applicazione del modello dipartimentale nelle strutture ospedaliere): “Ed è a questo punto che si evidenzia il modello dell’ospedale per acuti che, allora come oggi, ma anche nel prossimo futuro, non può vivere in un vuoto assistenziale circostante e non può farsi carico del crescente numero di persone con malattie croniche e/o non autosufficienti, se non quando queste presentino episodi di acuzie o di riacutizzazione, oppure necessitino di procedure diagnostico-terapeutiche o di brevi periodi di riabilitazione intensiva.
Occorrono perciò un nuovo approccio e nuove soluzioni: da un lato configurando gli ospedali strutturalmente, tecnologicamente e soprattutto organizzativamente e culturalmente per un uso appropriato dei posti letto per acuti, ma anche per una maggiore estensione e qualificazione dei servizi di emergenza, delle attività a ciclo diurno e degli ambulatori. Dall’altro lato, è necessario prevedere un’organizzazione territoriale ben articolata, ambulatoriale, domiciliare e residenziale che si faccia carico di risolvere, a livello della comunità, la grande maggioranza dei bisogni assistenziali dei cittadini: dalla prevenzione alla long-term care”.
Il cosiddetto territorio o meglio l’assistenza territoriale è, quindi, “complemento” dell’ospedale (e sviluppo di quest’ultimo): il dualismo ospedale-territorio (almeno in Italia) nasce proprio da un malinteso approccio a due “entità” che in realtà sono le facce della stessa medaglia.
Sull’errata “mentalità” dei ragionamenti abituali che contrappongono l’ospedalo- centrismo (sbagliato) al territorio- centrismo (sbagliato), l’ospedale “minimo” al territorio “massimo” (sbagliato) c’è un interessantissimo articolo di Ivan Cavicchi (si sempre lui, in veste di autorevole componente del Forum Permanente e di estimatore-amico di Guzzanti mancato nel 2014) su QS del 14.7.2021.
E gli psichiatri dove sono? Se non fosse perché Cavicchi si è dichiarato da tempo disponibile a darci una mano (QS 20-9-2021) gli psichiatri in trincea nei Dipartimenti e nelle Università sono invisibili, come se appartenessero ad un altro mondo e fossero immersi in altre realtà.
Forse non abbiamo ancora smaltito l’ebbrezza post-180 per arrivare a renderci conto che i nostri dipartimenti sono carriole lente, sempre più sgangherate ed inadatte a fornire risposte veloci, sensate, con un ordine gerarchicamente definito delle priorità che il momento attuale richiede. Carriole (wheelbarrow altro che cogwheel!) con le quali non siamo stati in grado di riconoscere ed intercettare i nuovi bisogni che si stavano profilando già prima del covid e men che meno di soddisfare questi e quelli che , nel frattempo, si sono aggiunti.
Come in un forte o su una nave i militari stanno di vedetta per l’avvistamento dei nemici, le nostre vedette delle malattie sono gli Ospedali, perché, vale sottolinearlo ancora, la medicina organizzata nel mondo occidentale è, sin dall’inizio, medicina ospedaliera. La psichiatria , pur con le sue peculiarità, non può sottrarsi alla sua realtà di scienza medica, ai suoi principi, alle sue logiche, se non perdendo, con la sua identità, il suo campo d’azione per consegnarlo ad altre discipline come già sembra intravvedersi all’orizzonte.
Non starò ora a ripetere ciò che ormai tutti noi conosciamo (meno personale, meno posti letto per l’acuzie- ultimi in Europa! con 9 pl/100.000 ab. su una media europea di 73! -, afflusso di minori in aumento al PS , elevatissima percentuale di dimessi - anche gravi! - proprio dal PS, sofferenze tutte che ovviamente vanno perdute, maggior parte degli interventi nei servizi territoriali fatti in sede e spesso dedicati ai rapporti con l’autorità giudiziaria, aumento dei posti letto e della durata media dei ricoveri nelle strutture residenziali ecc….ecc…).
Non è che, perdendo l’acuzie, stiamo favorendo la cronicità? Non è che, fuori dal forte o dalla nave, stiamo contribuendo a mantenere lo stigma?
Mentre i colleghi delle altre specialità si sono riuniti nel Forum Permanente dando voce ai Presidenti delle loro Società Scientifiche (tutte le Società tranne la nostra!) per la grave sofferenza di tutto il SSN e rivendicano, anche intersindacalmente, insieme con la valorizzazione, l’autonomia e la responsabilità dei professionisti, più investimenti economici nel FSN, la depenalizzazione dell’atto medico, la riforma del sistema emergenza-urgenza e della formazione post-laurea e la revisione in senso migliorativo del DM 70 (che noi non abbiamo neppure applicato al meglio delle possibilità che pure offre), noi siamo rimasti o abbiamo lasciato che ci facessero rimanere nel nostro storico isolamento, a gestire sempre più spesso e prevalentemente violenza ed emarginazione.
Ci si stupisce della nostra assenza nel PNRR e nel DM 77?
Ci sorprende che ci sia un’erronea, diffusa convinzione di rappresentare un’area della sanità pubblica “autosufficiente”? Ma va?! Ci voleva Cavicchi a sostenere come un atteggiamento difensivo dell’enclave psichiatrica generata dalla riforma del ‘78 sia funzionale ad alimentare la regressività culturale che pervade il mondo della SM (grande!).
Tornando al DM 77, posto che le strutture intermedie della Missione “6” sono deputate alla gestione di patologie croniche, una prima considerazione, suggerita da molti esperti, è che la situazione del SSN, rispetto al suo livello di finanziamento cui concorre lo Stato rimane fortemente critica. Gli incrementi di risorse ci sono stati, ma la loro entità è sostanzialmente correlata alla maggiore spesa provocata dalla pandemia ed è quindi dichiaratamente transitoria.
Vi è talvolta una inopportuna tendenza a richiamare la cospicuità delle risorse previste per l’Italia per l’attuazione del PNRR come fattore che di per sé consentirà di superare tutte le difficoltà del nostro SSN. In realtà si tratta di risorse attribuite per spese di investimento. I margini di miglioramento che esse consentiranno dovrebbero attrezzare il sistema per consentire non solo di recuperare le difficoltà a garantire i LEA vigenti (quelli del DPCM 2017), ma pure di reggere le nuove sfide assistenziali che, aperte dal Covid, resteranno anche oltre il Covid.
Non è scontato, dunque, che la missione vada come previsto e, d’altronde, gli Psichiatri sono i primi e da tempo abituati a fare i conti con i libri dei sogni anziché con la realtà. Una seconda considerazione riguarda proprio la posizione pressochè invisibile degli psichiatri nella Missione “6”, i quali si trovano nell’esclusiva, singolare condizione di discutere dell’assistenza territoriale su cui gravano pesantissime incognite, senza comparire e senza avere voce sul macrolivello di assistenza ospedaliera, i cui standard, come già scritto, sono quelli del DM70 del 2015.
Sembrerebbe questo il momento di agire anche per noi per un’alleanza con la classe medica, di annullare invidualismi, sterili conflitti, veti, rancori e utopie ideologiche, in modo da ricomporre tutti insieme: MMG, ospedalieri , territoriali, universitari, Società Scientifiche e Ordini un “ paradigma” nuovo che si imponga a definirsi vera ed unica forza del sapere medico, liberandosi dai ricatti ed agendo quale effettiva dirigenza della Sanità.
Conclusioni
Parlare di Ospedale e Territorio separatamente, per tutto quello che si è affermato finora, non significa altro che distinguere le diverse collocazioni lavorative opzionabili a seconda dell’esperienza e/o delle attitudini personali degli operatori (non solo medici) della salute mentale.
Ospedale
I servizi ospedalieri sono da realizzarsi secondo le indicazioni (per ora) del DM 70 in quanto a standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi attrezzandosi ovunque possibile con solerzia e determinazione (sapevo che solo in Piemonte si stavano costruendo 6 nuovi ospedali!).
La specificità dei nostri pazienti richiede, ovviamente, un’attenzione particolare (per es. nella divisione tra sezione uomini e sezione donne con personale infermieristico omogeneo in ciascuna).
Se previsti posti di degenza per la NPIA, questi andrebbero ubicati vicino a quelli degli adulti e, in caso negativo, si dovrebbero prevedere, comunque, posti letto contiguamente al SPDC almeno per gli infradiciottenni e la presenza nell’equipe ospedaliera anche di un neuropsichiatra infantile , fermo restando che tutti gli psichiatri dovrebbero conoscere gli aspetti più importanti dell’urgenza neuropsichiatrica infantile (soprattutto per quanto riguarda l’ adolescenza) così come si devono conoscere quelli dell’urgenza correlata all’uso di sostanze.
L’attività dovrebbe prevedere, oltre all’ordinario ricovero il DH terapeutico, quello riabilitativo, l’OBI, il DSA, le prestazioni intermedie, l’attività ambulatoriale e dei percorsi. Il DH per i DCA, ad es., consente, con il passaggio dal reparto ove necessario prima o dopo, di trattare i pazienti non lontano dalle loro case, opzione sempre preferita sia dai pazienti che dai familiari rispetto a quella dei centri sovrazonali.
Gli ambulatori, dentro o fuori dal reparto, aprono ad una scelta psicopatologica vastissima soprattutto per quel che riguarda l’adolescenza e la dipendenza anche in fase di emergenza/ urgenza.
Il DH terapeutico rappresenta una sicurezza per i pazienti che devono essere monitorati anche dal punto di vista fisico (grazie al DSA) e per quelli in trattamento con moderne terapie particolari come l’esketamina e la TRM possibili solo in ambito ospedaliero (peccato per quei colleghi dei dipartimenti e dei SERD che si rivolgono ai reparti di Neurologia per farli!).
Con il tempo si dovrà pensare anche a qualche posto letto di Psichiatria Forense.
Tutto questo, per la nostra esperienza, si può fare, con efficacia, efficienza, equità, ma anche appropriatezza, accessibilità, comfort e, come vogliono le aziende, misurabilità.
Territorio
Missione “6” nasce con l’intento di costruire un SSN moderno che tenga insieme territorio ed ospedale. I nuovi standard per l’assistenza sanitaria sul territorio rappresentano il DM 77. Le strutture intermedie di nuova denominazione (Case della Comunità, Centrale Operative, Ospedali di Comunità…) sono deputate alla gestione integrata di patologie croniche sempre più diffuse in termini di incidenza e prevalenza e di situazioni complesse.
Le CdC , le COT, gli OdC, i consultori ed il Dipartimenti di Prevenzione dovranno essere, all’interno dei Distretti, i referenti fondamentali dei Servizi territoriali distrettuali di Psichiatria. In particolare la COT, con il suo ruolo di raccordo fra i vari servizi ed i vari professionisti coinvolti nei diversi setting assistenziali, offrirà a tutti gli attori del sistema (MMG specialisti tutti, psichiatri compresi) la sua operatività 7 giorni su 7.
Anche il coordinamento con le CdC integrate con i servizi di continuità assistenziale h 24 secondo programmi ben definiti dai vari Servizi Psichiatrici potranno prevedere la partecipazione degli psichiatri nei servizi di specialistica ambulatoriale per le patologie ad elevata prevalenza sia nella CdC hub che spoke ed usufruire alla pari della presenza medica ed infermieristica h24 7/7 gg. nelle CdC hub ed h12 6/7 gg. nelle CdC spoke.
La capacità di lavorare in un’ottica di sistema ed una logica di una rete in gruppi multiprofessionali (abituale per la Salute Mentale) dovrebbe permettere di raggiungere, con modalità concordate via via, un rapporto virtuoso con tutti gli operatori del distretto.
I servizi psichiatrici distrettuali dentro le strutture intermedie potrebbero essere definiti di I livello ed essere affiancati da altri di II livello, in numero da concordarsi, con compiti specifici riguardo alla gestione della residenzialità, all’assistenza in carcere, alle REMS.
Tutto ciò sempre che vada a buon fine, come si spera, il DM 77.
Riavvicinando gli psichiatri agli altri medici, è nostra ferma convinzione ,maturata dopo molti anni in trincea, che anche i nostri pazienti si equipareranno a tutti gli altri. Il resto lo faranno la realtà ed i progressi delle neuroscienze.
Infine: condivido tutti i punti della Peroratio di Cavicchi, soprattutto quando afferma la necessità di partire dal principio di realtà e di fare delle scelte di campo e che la crisi dell’apologia nella salute mentale non è solo un accidente, ma un’occasione che dovremmo sfruttare. Ed ancora… che certe cose si riescono a fare non perché si è liberi, ma perché si è costretti. Se, in sanità, come altrove determinante più del pensiero e l’urgenza, dobbiamo provare ora a cambiare, perché questa occasione storica pare veramente unica (quando mai ripetibile?).
C’è bisogno d’altro per fare questo passo?
Rosanna Ceglie
Direttore Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze, ASL 5 La Spezia
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