L’esperienza dei neonati Dipartimenti di Psichiatria e poi di Salute mentale degli anni 80-90 aveva reso presto evidente che la semplice abolizione delle mura non era sufficiente, ma che era necessario trovare risposte adeguate alla complessità dei bisogni di Salute mentale. In che cosa consisteva dopo la “liberazione” la cura delle persone in difficoltà? Non solo quelle che venivano dal manicomio ma anche quella di coloro che anno per anno arrivavano ai servizi e i manicomi non li avevano mai conosciuti.
Anni di ottimismo contro ogni razionalità, di scoperta delle relazioni, della realtà “condivisa[1]” di grandi successi per la psicoanalisi, la fenomenologia, la stessa filosofia ma anche di gite, assemblee, musica, pittura e danza.
Ha ragione Cavicchi quando dice, riferendosi all’epoca dei primi progetti obbiettivo nazionali, e anche prima alla stessa 180, che esisteva di una sorta di “mistica” del DSM: una organizzazione immaginata che voleva dire un contenitore che trasformava, innalzandole di livello, le attività ambulatoriali, semiresidenziali e dove c’erano residenziali, facendoli diventare interventi sulla “salute mentale”. Poi è successo tutto quello che sappiamo e che merita spazi ed analisi diverse.
Comunità e assistenza sanitaria
L’età, la residenza, l’uso di sostanze, le fonti di finanziamento etc. sono categorie contro le quali di infrangono anche i tentativi più coraggiosi di tentare pratiche innovative.
Nuovi bisogni, nuovo tutto
E’ un fatto che non ci sia nessun psichiatra oggi che non ritenga che la nosografia e il modo di far diagnosi (quindi di indentificare i problemi delle persone che portano un bisogno) debba cambiare ed evolversi dal sistema DSM-V. Sono due secoli che gli psichiatri affrontano questo problema e sono insoddisfatti di ciò che viene descritto nei manuali. I bisogni di cura cambiano, sempre, costantemente, con il cambiare del mondo. Se cambiano i bisogni non di meno cambiano le “comunità “, ovvero il contesto sociale e gli stessi operatori
Gli operatori
È evidente che nel suo libro Cavicchi ha in testa alcune persone e associazioni che ha ritenuto rappresentative del dibattito sulla salute mentale nel nostro paese. L’impulso “democratico“ da cui esce la 180 e la stessa 833 non è però stato sufficiente a garantire per tutti questi anni che quella legge e quelle organizzazioni fossero le migliori possibili. A questo concetto Cavicchi dedica almeno metà delle sue riflessioni spiegando nel dettaglio perché è opportuno lasciare da parte apologie e ripetizioni di quella legge. E ha ragione.
E’ forse un po' meno attento a considerare lo scenario degli operatori della salute mentale nel suo complesso (per esempio la 180 bis come la chiama non è stata l’unica proposta di riforma ma anche quella Marin basata sulla semplificazione e l’allargamento del TSO paradossalmente peccava della stessa mancanza di innovazione di cui egli accusa la 180 bis).
Se poi consideriamo il Manifesto[2] da lui citato o le Conferenza Nazionali per la salute mentale esse rappresentato opinioni” selezionate” come lo è il Tavolo ministeriale per la salute mentale[3] , nella sua parte non istituzionale che, al massimo, hanno portato a qualche discutibile e risibile provvedimento[4]
La crisi di rappresentatività dell’associazione e delle società scientifiche
I soggetti coinvolti nelle politiche della salute mentale nella forma di associazioni, società scientifiche e in generale portatori di interesse si sono persi per strada una grande parte delle persone che, almeno in teoria, dovrebbero rappresentare. La crisi delle associazioni dei familiari, per esempio è conclamata; dalla mancanza di ricambio generazionale alle difficoltà legate alla frustrante mancanza di risposte; la crisi delle società scientifiche: alcune presenti solo in eventi congressuali (la Sopsi o la Società di psicofarmacologia) altre come la SIP che riesce oggi ad avere la metà della metà degli iscritti degli anni 90, e sono sempre tanti se confrontati con la Siep che ne conta alcune decine come, probabilmente, Psichiatria democratica.
A questo aggiungerei la linea tenuta dagli ordini professionali (psicologi, assistenti sociali) che non si son mai sentite “interne” ai DSM ma hanno speso molto del loro tempo e delle loro energie a rivendicare ruoli dirigenziali piuttosto che a proporre idee che valorizzino queste professionalità come risorse irrinunciabili.
Formazione e fughe
È un fenomeno di questi ultimi periodi quello di giovani specialisti che evitano accuratamente di partecipare a un concorso pubblico e di lavorare nei servizi o di persone che, pur non essendo in età pensionabile decidono di licenziarsi e lasciare il DSM. Questa crisi motivazionale non può non avere a che fare con la formazione, con la fruibilità delle teorie della cura, del proprio ruolo dell’immaginare una interpretazione personale delle competenze con flessibilità come Cavicchi auspica ma hanno a che fare anche, e forse soprattutto, con le condizioni di lavoro nei DSM.
I problemi di oggi
Consideriamo, doverosamente, il punto di vista di una persona che ha un problema: di un ragazzo che un ritiro sociale, di una ragazza che un disturbo alimentare, di una famiglia conflittuale in cui girano sostanze, di un anziano caduto nel buco nero della depressione. Sono solo esempi, e non sono i soli, di persone che si infrangono sul muro della accessibilità dei servizi e che, anche se riescono a penetrarlo, non sempre ricevono la riposta di cui hanno bisogno. E non basta rassicurali sul fatto che sono liberi e che si lavora con la relazioni, e tutte le belle cose che si dicono se poi nulla, in pratica, accade.
Ci sono eccezioni è ovvio: molte realtà offrono risposte e percorsi adeguati ed efficaci ma questo di certo non vale per tutti. E’ inquietante, però, quando si sente parlare del CSM come di una entità burocratica che ha preso in mano “il caso” ma che poi dà risposte per lo meno discutibili come per esempio vedere una volta al mese per somministrare un long acting una persona di 25 anni che ha ricevuto una diagnosi di disturbo psicotico. Non è scritto da nessuna parte nella 180, ma oggi sappiamo che se questa persona ( e faccio il caso più semplice) è supportata nella sua cura da una adeguata informazione, se è supportata la famiglia, se ha supporti alla socializzazione, se riesce ad avvicinarsi ad una attività lavorativa etc. etc. sicuramente avrà maggiori opportunità di stare meglio.
E che se non riceve nulla di tutto avrà più probabilità di stare peggio. Se una famiglia non sa di chi andare e cosa fare il giorno che scopre che il figlio minore assume cannabinoidi, vive di notte e non esce perché teme di essere seguito questo è certamente un indicatore che le cose non vanno, che non funzionano proprio.
La centralità della persona e il buon senso
Pensare che attraverso una legge o una programmazione ottimale si possano effettivamente ottenere un innalzamento della quantità e della qualità della salute mentale della popolazione, rischia di far peccare di ingenuità. Ciò nulla toglie alla convinzione che è necessario un cambiamento.
Senza apprendere dalle esperienze non si costruiscono modelli e teorie e apprendere necessita di criteri per definire la natura di ciò che viene appreso il che equivale a concludere se una certa attività o una data organizzazione sono efficaci o meno e, una volta dimostrato che lo siano anche se sono efficienti. E’ evidente che il sistema va costruito dentro il territorio e deve comprendere le aziende sanitarie ma anche i comuni, le realtà associative significative presenti nei territori e tutto ciò che nel territorio fa vita di comunità.
Le comunità hanno la necessità di ridefinire la rete che sarà ovviamente diversa in una comunità montana da quella di una città con centinaia di migliaia di persone. E’ necessario sbarazzarci dell’idea che ci sia una salute mentale specifica per un soggetto predefinito (dalla diagnosi, dall’età, dalla residenza o da qualsiasi altro fattore limitante) ma dobbiamo ribadire che la salute mentale è una dimensione inalienabile della salute; della salute in generale, e che riguarda, quindi tutto il sistema dell’assistenza ed è pure indispensabile come dice bene Cavicchi: “Non si tratta più di intervenire sulla salute mentale in funzione della medicina ma è esattamente il contrario: occorre intervenire sulla medicina scientifica in funzione della salute mentale cioè in funzione di un nuovo e diverso paradigma di complessità”.
Fare rete in una comunità che cambia (se rete non piace chiamiamolo pure lavoro eccentrico) e costruire una riforma su valori partecipati mi sembra una buona idea, ma per arrivare a ciò è necessario definire un percorso trasparente condiviso e la burocrazia programmatoria regionale o nazionale non possiede nessuna di queste qualità. E’ necessario definire i contesti per la cura: senza una relazione di cura non si cura, non si libera nessuno. La cura quindi resta, pur dentro un atto di liberazione della persona, quello che è e deve essere: un atto clinico le conoscenze scientifiche sono importanti ma altrettanto importante è come le si usa”.
E le risorse?
Davvero sono solo un problema finanziario? Afferma Cavicchi che le risorse si danno su una base di una contrattualità e di un valore proposto ma è pur vero che se due persone fanno il lavoro di 6 lo faranno male convincendosi sempre di più che quello è il massimo che si può fare dispenseranno questa convinzione intorno a loro.
Se dunque i medici mancano, gli psicologi non sono assunti, gli infermieri scarseggiano, gli assistenti sociali dipende… come stupirsi poi che l’unica attività proposta sia il discutibile e discusso “ambulatorio”. È vero ci vuole una riforma su nuove idee ma nessuna riforma può andare senza risorse che sono le persone. Per fare riforme non servono muri o luoghi servono persone, competenze e una visione innovativa della comunità e per la comunità.
Gli “equilibristi”
Cavicchi auspica quell’equilibrismo fatto da necessità di flessibilità e responsabilità che esitano in autorialità. Capisco che responsabilità è anche consapevolezza della propria pratica dentro una dimensione relazionale. Ma capisco pure che le svolte di metodologiche o di episteme, se preferiamo chiamarle così, si fanno creando e sviluppando cultura nei gruppi di lavoro. Consapevolezza e flessibilità è un sistema valoriale su cui i DSM già lavorano o vorrebbero lavorare, ma è una convinzione astratta: c’è la necessità che condizioni riformate e risorse adeguate permettano che la loro pratica renda vissuto questo sistema valoriale.
Definire queste condizioni riformate (la riforma di cui parla oltre la 180) non può essere compito di pochi ma a sua volta una pratica che coinvolge tutti i portatori di interesse e che non può riguardare solo i DSM ma tutto quell’ambito che oggi chiamiamo territorio.
Gerardo Favaretto
Già direttore del DSM della AULSS 2 Marca Trevigiana, Già direttore dei servizi sociali della Ulss di Treviso, Già Vicepresidente della Società Italiana di Psichiatria
Leggi gli altri interventi: Fassari, Cavicchi, Angelozzi, Filippi, Ducci, Fioritti, Pizza, d'Elia, Cozza, Peloso
Note:
[1] Hocman Hocman, “Realitè partagè et tratiment des psicotique”, Revue Francaise di psychanalise, Tome L, 11-12, 1986
[2] si riferisce a Angelo Barbato, Antonello D’Elia, Pierluigi Politi, Fabrizio Starace, Sarantis Thanopulos, che firmano il Manifesto per la Salute Mentale: “La cura nella Salute Mentale come valorizzazione della persona e difesa della democrazia”, QuotidianoSanità.it, 15 settembre 2021.
[3]https://www.salute.gov.it/portale/saluteMentale/dettaglioContenutiSaluteMentale.jsp?lingua=italiano&id=5231&area=salute%20mentale&menu=azioni
[4] Andrea Angelozzi, Salute mentale. Nuove linee guida del Governo molto deludenti, QuotidianoSanità.it, 16 marzo 2022.