E’ possibile coniugare la medicina con la guerra al di là della funzione prettamente curativa e riabilitativa di questa “pratica”? Gli scopi storici della medicina possano convivere all’interno di obbiettivi politici in cui la “violenza“, anche se organizzata civilmente e governata da regole, recita un ruolo portante? E’ possibile riflettere sull’impegno del medico non tanto contro la guerra, cosa abbastanza scontata e condivisa, ma in qualità di sanitario e cittadino sullo scenario bellico? Insomma Marte ed Esculapio possono talvolta essere alleati? Come gestire da un punto da un punto di vista etico questa impossibile alleanza?
Nel corso di questi ultimi decenni il mondo medico ha avuto modo di interrogarsi sulla realtà della guerra, non soltanto per le conseguenze deleterie sulla vita e la salute dell’uomo nel suo ambiente ma anche in relazione alla struttura e alle cause di questo fenomeno socio patologico. Nel corso della storia sono stati attribuiti diversi significati a questa “pratica umana” che è costantemente presente nel genere umano indipendentemente dall'ambiente e dall'educazione, nonostante che la civiltà sia progredita e abbia mosso numerosi passi in avanti.
Eraclito chiama la guerra "madre e regina di tutte le cose", Thomas Hobbes, antesignano del Giuspositivismo cui dobbiamo la descrizione della natura umana come sostanzialmente competitiva ed egoista, la definisce “stato naturale dell'umanità”, nel senso che è quello cui si ridurrebbe senza le regole del diritto o dal quale cerca di uscire mediante queste regole. Esemplificativi sono le riscoperte di alcuni aforismi Bellum omnium contra omnes ("la guerra di tutti contro tutti" nello stato di natura) e Homo homini lupus ("ogni uomo è lupo per l'altro uomo"), aforismi che hanno trovato poi riscontro nel campo dell'antropologia politica.
Ci sono sicuramente alcune metafore che sono condivise dalla medicina e dalla guerra. Il celebre clinico tedesco R. Virchow affermava che un efficace sistema sanitario non poteva limitarsi solo a trattare i disturbi clinici dei pazienti ma doveva affrontare le radici profonde delle malattie e delle epidemie. Insomma la battaglia deve essere sociale!
Non è dammeno la guerra mutuando termini medici. Oggi la guerra non è più dominata da arricchimento individuale in cui la violenza si presenta gratuita e criminale e la popolazione nel suo complesso rimane estranea, ma da obiettivi di diritto (genocidio) e di giustizia sociale in cui la violenza è tutto sommato controllata e gode dell'appoggio di buona parte della popolazione; i bombardamenti dal cielo e da terra sono rappresentati in questo caso come azione chirurgiche, come se la guerra fosse mossa dalla mano esperta di un chirurgo in grado di rimuovere il male senza danneggiare il corpo.
Al di là di queste metafore, il codice deontologico frutto attuale di quasi settanta anni di riflessioni raccolte in diverse stesure fino all’attuale, sembra indicare due indicazioni pratiche: la prima è che il medico deve necessariamente respingere la guerra e non semplicemente limitarsi a non condividerne le ragioni, la seconda che il medico non deve operare alcuna discriminazione di nazionalità neppure in guerra anche se si trova sul fronte avverso.
Una posizione dunque ferma e chiara. Il codice deontologico è permeato da un radicale contrasto tra le finalità di chi opera per la salute e ogni azione di violenza anche se legittimata dal diritto ed è per questo che Antonio Panti si chiede, nel suo lucidissimo articolo, come dobbiamo rapportarci con l’articolo 52 della nostra Costituzione che esplicita chiaramente che “La difesa della patria è sacro dovere del cittadino”.
Come si comporta il medico civile in caso di guerra? E mi sento anche di aggiungere: il medico deve essere sempre neutrale e imparziale o deve schierarsi per garantire la pace? Fino a che punto può collaborare con regimi dispotici del paese cui appartiene che sono al centro del conflitto? La scienza medica che studia armi per la difesa dei propri confini è libera di diffondere e comunicare le conclusioni delle proprie ricerche o queste dovrebbero essere sottoposte a restrizioni per evitare che possano cadere nelle mani di potenziali nemici? Quale autorità politica, militare, scientifica dovrebbe decidere su queste materie?
Un campo vastissimo di domande che lascio aperte, ma che sono in grado di mettere in dubbio che il pacifismo contemplato dalla deontologia, quale dovere del medico, sia la posizione superiormente più etica di qualunque altra. Pretendere di rimanere equidistanti, equiparare le motivazioni dei belligeranti, cercare alibi nelle guerre precedenti è una forma di pacifismo retorico e di puro esercizio di stile e in fin dei conti inutile.
A mio parere, non ci aiuta né come medici, né come cittadini, perché alla fine favorisce oggettivamente chi dispone di maggiori risorse e, di conseguenza, come nell’attuale conflitto in Ucraina è presumibile che sia l’aggressore piuttosto che l’aggredito. Tralascio volontariamente la possibilità di cercare un’ancora nel diritto e nella cosiddetta giustizia internazionale perché in campo bellico entrambi si sono manifestati per lo più come giustizia dei vincitori sui vinti e oggi si sta pagando l’incapacità di un passato di concepire un’autorità sovranazionale davvero sopra le parti e dotata di un adeguato potere di sanzione.
Non voglio nemmeno contrapporre il valore della “salute”, meglio preservata dall’assenza di guerra, al valore della “libertà” o della “democrazia”, da difendere attraverso la guerra. Mi sembra che sia del tutto superfluo, perché la libertà e la democrazia sono elementi essenziali per il raggiungimento della salute, che oggi definiamo come benessere fisico, psichico e sociale.
Democrazia e libertà possono inoltre anche essere difese efficacemente attraverso azioni alternative alla guerra come recita la carta di Ottawa a cui si ispira l’intera comunità di sanità pubblica. La carta generalmente riconosciuta per esser stata il catalizzatore del movimento per gli ambienti cita “la pace” come il primo dei prerequisiti fondamentali per la salute.
E’ indiscutibile che la presenza diffusa di malattia e morte, dovuta alla guerra, impedisce non solo l’impegno a favore della promozione della salute, ma anche lo stesso esercizio della libertà e la partecipazione democratica che si prefigge di difendere. Pertanto concludo che per il medico civile, così come per qualunque cittadino, debba valere l’accettabilità delle sue azioni non tanto da ricercarsi nelle motivazioni che si adducono per giustificare la guerra quanto nella guerra in se’ dove chi conta è chi combatte come e dove, dal consenso di cui gode la guerra presso il proprio popolo capace di mettere a repentaglio la propria esistenza sul proprio suolo nazionale.
A mio parere pertanto non c’è spazio per guerre motivate per esportare la democrazia né per guerre imposte da autocrati. Non c’è spazio per il rifiuto pacifista, assoluto e categorico. Si tratta, piuttosto, di restituire capacità di giudizio agli uomini e alle donne, a partire da quelli che si trovano a combattere in prima linea e il medico che vive quotidianamente la sua esistenza in questa tragica situazione saprà di sicuro fare le scelte più consone.
Maurizio Benato