09 APR - Gentile Direttore,
durante la VII legislatura, alla fine di aprile 1978 e nel giro di due giorni, la XIVCommissione (Sanità) della Camera, riunita in sede legislativa, discusse, modificò e approvò il disegno di legge di iniziativa governativa n. 2130. Dopodiché, non necessitando del passaggio in Aula, il testo fu inviato direttamente alla 12ᵃ Commissione del Senato (Igiene e sanità) che gli attribuì il numero 1192. Dai suoi componenti, riunitisi il 10 maggio, quel disegno di legge nel breve volgere di tre ore ottenne il via libera per diventare legge dello Stato. La numero 180.
Oggi entrata a pieno titolo nella storia della psichiatria mondiale, ma non certo per avere istituito gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori per malattia mentale e le relative procedure di esecuzione, di revoca e di tutela giuridica. No, il merito spetta al contenuto di tre righe di un comma aggiunto il 28 di aprile all'interno dell'articolo 8 in discussione, e cioè che “negli attuali ospedali psichiatrici possono essere ricoverati, sempre che ne facciano richiesta, esclusivamente coloro che vi sono stati ricoverati anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge”.
Vale a dire fino al 16 maggio 1978. E così, grazie a quelle tre righe, mio figlio, alcuni anni dopo, non fu accompagnato in manicomio in forza di una legge del 1904.
Durante la breve discussione del 10 maggio, un senatore della Commissione si premurò di declamare ai colleghi che “ai familiari incombe l'obbligo di accettare la nuova realtà che si crea di fronte a un malato di mente”.
Tredici anni dopo, la OMS, nel suo Rapporto sulla salute mentale nel mondo, citando l'Italia scrisse che: “i pochi dati di cui si dispone sembrano indicare che sulle famiglie ricade il peso di una serie di cure che prima erano a carico delle strutture psichiatriche ospedaliere. I benefici e i vantaggi per i malati che hanno seguito questo nuovo sistema sembrano potersi attribuire più alle cure delle famiglie che alle offerte dei servizi”.
Benefici e vantaggi offerti dai familiari di tutte le regioni, senza campanilismi o opzioni ideologiche. Pochi furono a cedere. Ancora di meno a sottrarsi.
Lo psichiatra divenne il nostro unico punto di riferimento valido e certo per la terapia, mentre a noi toccò di agire nell'intervallo di tempo che si consumava tra la visita ambulatoriale di nostro figlio al Centro Psico Sociale (CPS) e la successiva seduta. Vale a dire, nella migliore delle ipotesi, sette/dieci giorni e sette/dieci notti. Una formazione sul campo che chi non ha provato non può pienamente capire e che, invece, è divenuta pane quotidiano per migliaia e migliaia di familiari ormai consci che il portone del manicomio di Trieste era stato abbattuto non per fare folklore, ma per lasciare passare il Marco Cavallo e il suo rifiuto che la psichiatria continuasse a “trattare i malati mentali come degli esclusi da cui la società voleva ancora difendersi”.
Sul “territorio”, invece, il procedere della riforma avvenneprevalentemente ad handicap, non di rado in conseguenza della dottrina, allora più o meno diffusa ai vari livelli di responsabilità, che sosteneva che la malattia mentale fosse un mito, e in quanto tale non esistesse. Oppure che si trattasse di un disagio esistenziale adulto, nato e colpevolmente cresciuto in ambito familiare.
In fondo, non conoscendo le cause, ma solo i sintomi psicotici: le leggende metropolitane venivano ascoltate come verità probabili, se non certe.
Tornando al 1978, fu così che nei primi tempi (che sembrava non finissero mai) lo psichiatra che si mise non solo in movimento da subito, ma che concretizzò efficacemente il ribaltone basagliano fu il dottor Rotelli a Trieste. Lui e i suoi collaboratori; lui e la città intera. Mentre altrove, non pochi suoi colleghi sorridevano o ridevano al solo sentire parlare di possibilità di recupero di persone sofferenti per un disturbo mentale grave. Condizionando non certo positivamente l'operare e la crescita dei servizi in cui lavoravano.
Per fortuna, quegli psichiatri sono ormai tutti in quiescenza insieme ai loro gravi errori di valutazione. Convinzioni che sono state via via rifiutate dai medici che li hanno poco alla volta rimpiazzati. Per cui, a me pare fuori dal tempo dover leggere sul volantino di invito a Roma per la conferenza nazionale celebrativa del suo quarantennale che: “Tuttora, seppure ostacolata, parzialmente attuata e persino tradita, la legge 180.. ecc.ecc.”.
No, i familiari, la legge 180 non l'hanno ostacolata, non l'hanno tradita: l'hanno attuata. Ciascuno entro i limiti delle proprie capacità, accresciute dall'esperienza e dalla possibilità di ricorrere all'aiuto reciproco.
Noi siamo convinti che si debba operare per valorizzare e incrociare saperi professionali e saperi esperenziali (anche dei malati/utenti), per migliorare aspetti fondamentali dei percorsi di cura quali la fiducia, la speranza, il clima generale, l'adesione ai trattamenti. Lo scrivemmo nel 2013 per motivare una proposta di iniziativa popolare sull'argomento che, però, non raggiunse il numero di firme necessarie per poter proseguire il cammino in Parlamento.
Lo scrisse anche la OMS nel suo “Piano d'azione sulla salute mentale 2013-2020” chiedendo di: “stimolare e ottenere la partecipazione delle parti interessate di tutti i settori pertinenti, in particolare delle persone con disturbi mentali, i loro familiari e carer, nell'elaborazione e nella applicazione delle politiche, delle leggi e dei servizi di salute mentale usando, allo scopo, strutture e meccanismi ufficiali.”
Possibilità parzialmente richiamata anche nel volantino, dove però le famiglie non vengono citate come tali, bensì come “nuclei di appartenenza”, e parificate alle “comunità di appartenenza” del malato. Ma non fa nulla.
Franco Vatrini
(familiare-Brescia)
09 aprile 2018
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