13 OTT - Gentile direttore,
Il recente intervento di Ivan Cavicchi sul DDL Dirindin-Manconi “Disposizioni in materia di Salute Mentale…” fornisce una chiave di lettura originale della crisi del sistema di cura per la salute mentale nel nostro Paese, che abbiamo più volte documentato, anche dalle colonne di questo Quotidiano.
Tra i pochi esperti di sanità pubblica che ne hanno colto la gravità, Cavicchi cita quello che altrove abbiamo definito il “paradosso della salute mentale”, tormentata dall’aumento e diversificazione dei bisogni, da un lato, e la riduzione delle risorse, soprattutto umane, dall’altro. E propone un’analisi dello stato attuale delle cose che affonda le radici nella storia delle tre riforme che la Sanità Pubblica ha attraversato dal 1978 ad oggi. Con spirito critico (ma anche propositivo) non comune Cavicchi individua nelle invarianze culturali, nelle asincronie tra le trasformazioni economiche e sociali che hanno caratterizzato l’ultimo quarantennio e le rigidità dell’impianto organizzativo pensato per dare risposta alla domanda di salute, il motivo reale della disapplicazione del disegno riformatore. Le disconferme, esplicite o più spesso inespresse, dei principi riformatori si aggiungono alle scelte non sempre felici adottate per trasdurre gli stessi principi in norme funzionali all’innovazione.
La denuncia – pur necessaria – della “deriva” alla quale sono lasciati i Servizi di Salute Mentale in assenza di qualsivoglia attenzione istituzionale, e la rivendicazione – pur giusta – delle necessarie risorse umane ed economiche, rischiano di costituire mero esercizio di testimonianza, se non si mette mano a un disegno riformatore complessivo, in grado di attualizzare i principi della 180 in un contesto profondamente mutato.
Questo il cardine della riflessione che Cavicchi ci propone, innescando un dibattito al quale non intendiamo sottrarci.
Come è noto, la SIEP (Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica) ha più volte segnalato – dati alla mano – l’inadeguatezza crescente del sistema di cura per la Salute Mentale in Italia, caratterizzato da eccellenze di spicco a livello internazionale e al tempo stesso da diseguaglianze profonde, intollerabili, sul territorio nazionale, ed è stata la prima a documentare l’inosservanza – da parte delle stesse Regioni che l’avevano definita – della quota minima del 5% della spesa sanitaria da destinare alla salute mentale.
Ciononostante, siamo consapevoli del limite insito in una semplice rivendicazione economica. L’economia aziendale fornisce numerosi esempi di fallimentari scelte conservative, in cui l’iniezione di risorse in sistemi produttivi che non vengono profondamente riformati si traduce in spreco, dissipazione, non solo di denaro pubblico ma di aspettative e in ultima analisi di consenso.
Forse l’unico esempio che in tal senso è possibile rinvenire in salute mentale è costituito dal processo di superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. In questo caso il Legislatore ha previsto l’allocazione di risorse per le innovazioni strutturali e il reclutamento di personale indispensabili per rendere operativa la Riforma, ma è innegabile che i tempi, i modi, il funzionamento e gli esiti sono estremamente diversi da Regione a Regione, profondamente influenzati dai preesistenti assetti organizzativi, dalla vision e dal livello programmatorio che ne deriva.
Se questo, dunque, è il problema, quali le possibili soluzioni?
Trovo molto utile almeno due ipotesi di lavoro che Cavicchi traccia nel suo articolo:
1) Occuparci delle “invarianze”, ossia di tutti quei fattori che hanno impedito alla norma di produrre i cambiamenti auspicati (o peggio, di riprodurre “sotto mentite spoglie” le medesime dinamiche che la norma intendeva modificare: l’esempio della trans-istituzionalizzazione dall’Ospedale Psichiatrico al territorio è illuminante, ma molti altri potremmo citarne, dagli approcci teorici ai meccanismi amministrativi, dal ruolo dei portatori di interessi economici alle scelte organizzative).
2) Combattere il rischio di “regressività” di proposte difensive aprendo il dibattito fuori dal rassicurante perimetro disciplinare, confrontandoci con i diretti interessati, creando nuove connessioni inter- ed extra-istituzionali; oggi “fare salute mentale” di comunità assume connotazioni diverse e richiede nuovi modi, nuovi strumenti, nuove alleanze, rispetto solo ad alcuni anni fa.
Credo che questa necessità sia ampiamente avvertita: ne è testimonianza il manifesto appello per la Salute Mentale, promosso da SIEP un anno fa e condiviso dai Dipartimenti di Salute Mentale, da tutte le società scientifiche ed associazioni di familiari e utenti, dai principali sindacati dei lavoratori, in cui – a conclusione di un’analisi del sistema di cura in Italia – si richiedeva al Ministero della Salute ed ai Presidenti delle Regioni di convocare Conferenze Regionali della Salute Mentale, “con l’obiettivo di rendere conto in modo pubblico, partecipato e trasparente del reale funzionamento dei sistemi locali per la salute mentale, dei modelli organizzativi adottati, delle risorse umane ed economiche effettivamente impiegate, del grado di raggiungimento degli obiettivi di Piano Regionale e Nazionale, dei livelli di efficacia ed inclusione sociale conseguiti”.
Si chiedeva altresì di “convocare la Conferenza Nazionale della Salute Mentale, con il fine precipuo di verificare in che misura i differenti sistemi regionali siano in grado di perseguire gli obiettivi definiti nel Piano di Azioni Nazionale per la Salute Mentale approvato in Conferenza Unificata il 24.1.2013 e di definire le misure per garantire in modo uniforme sul territorio nazionale il diritto alla cura e all’inclusione sociale delle persone con disturbi psichiatrici”.
Il DDL Dirindin-Manconi costituisce un ottimo strumento di lavoro, che ha il pregio di individuare criteri ed articolazioni organizzative che hanno dimostrato, in alcune parti del Paese, di essere funzionali a una mission (la salute mentale di comunità) coerente con i principi della Riforma. Credo tuttavia che sia la vision, la capacità di proiettarci nel futuro, l’immaginare i nuovi scenari del nostro agire, a dover attraversare un profondo processo di ricontestualizzazione. Esso non può realizzarsi altro che negli spazi pubblici e partecipati che abbiamo richiesto nell’Appello.
E “convinti come siamo che la Salute Mentale sia un bene esigibile individuale e collettivo” dovremo prendere atto dell’assordante silenzio delle Istituzioni interpellate e promuovere occasioni autonome di dibattito e confronto.
Siamo persuasi che sia un buon modo per avvicinarci al quarantennale della Legge 180, una legge che pretende, per mantenere inalterato il suo portato riformatore, un lavoro continuo di de-costruzione e ri-costruzione delle teorie e delle prassi.
Fabrizio Starace
Presidente SIEP
13 ottobre 2017
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