Covid e infarto. Tra ritardo trattamento e paura di andare in ospedale uno studio europeo stima 20mila morti in più in Italia
Sono alcuni dei dati del Registro Europeo COVID (ISACS-STEMI COVID19) sull’infarto acuto, il più grande registro al mondo sull’argomento, partito da Novara nel mese di Aprile e diretto dall’italiano Giuseppe De Luca: “Si spera che questi dati, che finalmente ci offrono un’idea della reale proporzione del problema, servano a lanciare un allarme alle autorità sanitarie nazionali”.
23 SET - “Se immaginiamo che in Italia muoiono ogni anno circa 50000 pazienti per infarto, in base ai nostri dati (ovvero incremento del 41% del rischio relativo di morte) è presumibile che il COVID possa contribuire indirettamente ad aumentare di oltre 20000 il numero di morti per infarto annui, numeri non molto lontani da quelli determinati direttamente dal virus. Moltiplicando i numeri su scala mondiale, si comprende bene la reale portata del problema”. È quanto afferma prof.
Giuseppe De Luca, Professore Associato di Cardiologia presso l’Università del Piemonte Orientale di Novara, di recente nominato tesoriere della sesta commissione della Società Europea di Cardiologia che ha diretto lo studio Europeo COVID (ISACS-STEMI COVID19) sull’infarto acuto, il più grande registro al mondo sull’argomento, partito da Novara nel mese di Aprile.
“La necessità di tale registro” ci spiega il prof. De Luca “è nata dal fatto che a seguito dell’inizio della pandemia è emerso che il Coronavirus-19 possa essere un Killer che potrebbe colpire sia in maniera diretta che indiretta. Quello dell’infarto acuto è una dimostrazione della rilevanza del problema. Piccoli registri eseguiti in Europa, in Asia e in America poco dopo l’inizio della pandemia, avevano mostrato una riduzione degli infarti acuti trattati, conseguenza del fatto che i pazienti, timorosi del contagio, avrebbero preferito rimanere a casa nonostante i sintomi piuttosto che andare in ospedale per curarsi. Tenuto conto del rilevante impatto dell’infarto acuto sulla mortalità nei paesi industrializzati, è evidente che questa condotta timorosa dei pazienti avrebbe potuto avere un drammatico impatto sul numero di morti per infarto a livello mondiale”.
Lo studio ha coinvolto 77 tra le maggiori istituzione europee nel trattamento dell’infarto acuto, dalla penisola iberica alla Siberia, dalla Sicilia alla Finlandia, tra cui 18 importanti istituzioni italiane, con l’obiettivo di confrontare i dati del 2020 nei mesi iniziali della pandemia (Marzo ed Aprile) con quelli rispettivi del 2019. Nello studio sono stati arruolati 6609 pazienti affetti da STEMI trattati con l’angioplastica coronarica (il cosiddetto palloncino con stent). Lo studio ha definitivamente contribuito a quantificare il reale impatto della pandemia COVID19 sull’infarto acuto in Europa. Il numero dei pazienti con infarto sottoposti ad angioplastica primaria per milione di abitanti è notevolmente diminuito da 595 nel 2019 a 494 nel 2020, con una riduzione significativa del 19%. Lo studio ha mostrato per la prima volta che tale riduzione è stata estremamente variabile tra i centri (una variabilità del 39%), e non legata al numero di pazienti affetti da COVID né al numero di pazienti morti per COVID sia a livello locale che nazionale.
“E’ probabile” sottolinea il prof. De Luca “che questo dato sia legato ad una disparità nella gestione dell’emergenza da parte delle locali organizzazioni sanitarie, che possono aver influenzato la paura del contagio (es. il numero di operatori infetti in ospedale) e il rischio di morti improvvise preospedaliere per un ritardo di intervento da parte del servizio di emergenza territoriale”.
L’Italia, ad esclusione dei paesi dei Balcani, è stata tra le nazioni con la maggior riduzione relativa (20%) del numero di infarti. Tale registro è inoltre l’unico studio al mondo che ha analizzato le caratteristiche dei singoli pazienti che potessero associarsi maggiormente alla riduzione dei casi.
“Ebbene” sottolinea il prof. De Luca “si è osservato che l’unica variabile clinica che ha impattato in maniera significativa sulla riduzione dei casi è stata l’ipertensione arteriosa, ovvero, la riduzione dei casi è stata significativamente più marcata nei pazienti ipertesi (23%) rispetto ai non ipertesi (14%). Questo risultato viene spiegato dal fatto che i dati inizialmente emersi sull’associazione tra ipertensione e mortalità dei pazienti affetti da COVID, in aggiunta alla potenziale associazione con la mortalità di alcuni farmaci antiipertensivi (Ace-inibitori) abbiano avuto un maggior impatto psicologico sui pazienti ipertesi spingendoli a rimanere a casa ed evitare l’accesso al sistema di emergenza nonostante i sintomi” Altro dato estremamente rilevante è quello del ritardo al trattamento. Oltre a recarsi meno in ospedale, i pazienti durante la pandemia COVID-19 molto più frequentemente si sono presentati tardivamente, oltre quelli che sono definiti i tempi utili per poter riaprire la coronaria e salvare la parte del cuore ancora vivo nel territorio infartuato. Circa l’11.7% dei pazienti nel 2020 si è presentato oltre le canoniche 12 ore dall’inizio dei sintomi, rispetto al 9.1% nei pazienti del 2019, quindi con un incremento relativo, dopo aggiustamento, del 34%.
“Il ritardo al trattamento” ci spiega il prof. De Luca, che in passato con rilevanti pubblicazioni in merito a tale argomento aveva contribuito al cambiamento della tempistica e modalità di trattamento dell’infarto acuto a livello mondiale, “ci aiuta a capire il dato estremamente importante del registro, ovvero la più alta mortalità osservata nei pazienti trattati nel 2020 (6.8%) rispetto al 2019 (4.9%), ovvero un incremento relativo, dopo aggiustamento, del 41%. Sebbene, fortunatamente, questo studio rinneghi quanto di allarmante suggerito da piccoli studi che mostravano un incremento della mortalità di addirittura del 300%, di certo i rilevanti risultati di questo studio non possono lasciarci tranquilli tenuto conto del numero di pazienti affetti da infarto annualmente. Se immaginiamo che in Italia muoiono ogni anno circa 50000 pazienti per infarto, in base ai nostri dati (ovvero incremento del 41% del rischio relativo di morte) è presumibile che il COVID possa contribuire indirettamente ad aumentare di oltre 20000 il numero di morti per infarto annui, numeri non molto lontani da quelli determinati direttamente dal virus. Moltiplicando i numeri su scala mondiale, si comprende bene la reale portata del problema”.
Il lavoro verrà pubblicato a breve su una delle più prestigiose riviste cardiologiche a livello mondiale, il Journal of the American College of Cardiology (JACC).
“Si spera” conclude il prof. De Luca “che questi dati, che finalmente ci offrono un’idea della reale proporzione del problema, servano a lanciare un allarme alle autorità sanitarie nazionali in modo da poter adottare tutte le iniziative, da compagne educazionali ad interventi logistici sul territorio, necessarie a fare in modo che venga prevenuta una ulteriore strage di vittime, causata stavolta indirettamente dal Killer Coronavirus, soprattutto nel caso di nuove ondate di contagi, già osservate negli ultimi giorni, ed attese ancor di più nel prossimo autunno-inverno”.
Il Registro è stato da poco esteso anche ai paesi Latini Americani, Sud-Est Asiatico e Nord Africa con l’obiettivo di monitorare gli effetti del COVID sugli infarti acuti, sui ritardi al trattamento e sulla mortalità a livello globale. In attesa di questi ulteriori dati, ci si augura che quelli già attualmente disponibili dal registro ISACS-STEMI COVID 19 servano a prevenire le tante morti indirette legate al Coronavirus-19
23 settembre 2020
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