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Coronavirus. La corsa al vaccino: collaborazione rara e concorrenza aspra. Tutti vogliono arrivare primi

di Camilla de Fazio

Nonostante la necessità di uno sforzo globale, Stati Uniti, Europa e Cina lottano per essere i primi a sviluppare un vaccino contro Covid-19. Dopo l’annuncio dell’avvio dei trial clinici da parte della Moderna Therapeutics, anche la Cina, che “non sarà più lenta di altri paesi” ha rivelato l’avvio dei test, mentre Trump pare abbia tentato di acquistare i diritti della tedesca CureVac sul vaccino che stanno producendo. Sono in gioco riconoscimenti scientifici, brevetti e naturalmente le entrate che derivano dallo sviluppo di un vaccino. La competizione però, secondo il New York Times e The Guardian, si potrebbe trasformare anche in una questione di sicurezza nazionale

25 MAR - Il nemico del mio nemico è mio amico. O almeno dovrebbe esserlo, a rigor di logica. Sopratutto quando il nemico è un virus e i potenziali alleati sono altri paesi, altre case farmaceutiche, altri laboratori di ricerca. Purtroppo però, le epidemie, anche quando diventano pandemie, non arrestano la concorrenza.

Nonostante la necessità di uno sforzo globale, Stati Uniti, Europa e Cina lottano per essere i primi a sviluppare un vaccino contro Covid-19. Questa battaglia è illustrata con chiarezza in un articolo del New York Times del 19 marzo. Inizialmente si trattava di accaparrarsi riconoscimenti scientifici, brevetti e naturalmente le entrate che derivano dallo sviluppo di un vaccino di successo. La competizione però, secondo gli autori, si potrebbe trasformare in una questione più ampia di sicurezza nazionale.

Circa 35 case farmaceutiche e istituzioni accademiche stanno lavorando allo sviluppo di un vaccino che, come ha precisato a più riprese l’Oms e hanno ribadito le aziende stesse, sarà disponibile tra circa 12-18 mesi.

La statunitense Moderna Therapeutics è stata la prima, e al momento l’unica, a dare il via a trial clinici su 45 volontari sani, per testare la sicurezza del vaccino mRNA-1273, prodotto in collaborazione con il Vaccine Research Center del National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID). L’azienda lavorava già sui coronavirus, dopo le infezioni di Sars e Mers, è stata quindi particolarmente rapida nello sviluppo di un vaccino che contiene corti frammenti di Rna del virus prodotti in laboratorio.

Altre aziende hanno optato per strategie diverse, come Janssen di Johnson & Johnson che sperimenta un vaccino con vettori virali, sarà forse inserito in studi clinici entro l’autunno. La francese Sanofi invece produce proteine virali, con lo stesso metodo usato dalla casa farmaceutica per la produzione dei vaccini antinfluenzali. Insomma ognuno sfrutta le proprie competenze e la ricerca che era già in corso nei propri laboratori.

La Cina "non sarà più lenta di altri paesi", ha dichiarato Wang Junzhi, un accademico della Chinese Academy of Engineering, durante una conferenza stampa a Pechino. Ci sono circa 1.000 scienziati al lavoro nel paese per lo sviluppo di un vaccino. Solo 19 ore dopo l’annuncio dell’avvio dei trial clinici da parte della Moderna Therapeutics, anche la Cina ha rivelato l’avvio dei test da parte della l'Accademia delle Scienze mediche militari che ha iniziato a reclutare volontari. Il Global Times riporta le parole di Junzhi, che spiega come, anche in Cina, si seguono piste diverse per lo sviluppo del vaccino, tra cui un vaccino basato sugli acidi nucleici.

La concorrenza sembra diventare a tratti sleale. Il presidente degli Stati Uniti, scrive il British Medical Journal il 17 marzo (la notizia è stata riportata per la prima volta il 15 marzo dal Washington Post), avrebbe fatto una proposta alla tedesca CureVac per assicurarsi i diritti di qualunque vaccino essa avrebbe prodotto. In effetti, la casa farmaceutica tedesca è in prima linea nello sviluppo di un vaccino anch’esso basato sull’Rna, così come il prodotto della Moderna Therapeutics.
 
Il tentativo di Trump è stato ampiamente criticato, naturalmente nessun governo dovrebbe avere accesso esclusivo ad un vaccino. Gli Stati, tuttavia, secondo il New York Times, non vogliono dipendere da una potenza straniera per l’approvvigionamento di farmaci durante una pandemia. Viene ricordato l’esempio dell’influenza H1N1 del 2009. Fu un’azienda australiana la prima a produrre il vaccino monodose. Prima di esportarlo ad altri paesi, soddisfò i bisogni del proprio. In seguito il prodotto venne acquistato prima di tutto dalle nazioni che potevano permetterselo, lasciando sprovvisti i paesi più poveri, sottolinea un articolo di The Guardian.

Vedremo. La concorrenza è esplicita, non è necessariamente salutare per lo sviluppo rapido di un vaccino e “le questioni politiche ed economiche potrebbero essere la barriera più importante all’immunizzazione” della popolazione, come sottolinea Jonathan Quick della Duke University in North Carolina.

Bisogna tener presente che molti dei progetti discussi, come quello di CureVac, sono stati finanziati dall’organizzazione multinazionale Coalition for Epidemic Preparedness Initiatives (Cepi), sorta all’indomani dell’epidemia di Ebola che si è diffusa in tutta l'Africa occidentale dal 2014 al 2016. L’organizzazione, nata nel 2017, della quale fanno parte Norvegia, Regno Unito, Germania, Giappone, Canada, Etiopia, Australia, Belgio, Danimarca e Finlandia, nonché la Bill e Melinda Gates Foundation e la fondazione Wellcome Trust, si occupa proprio di finanziare la ricerca sui vaccini, dopo l’esemplare caso dell’ebola che ha dimostrato come lo sviluppo di  vaccini salvavita per le malattie che colpiscono le persone a basso reddito, indipendentemente dal numero di morti, non viene incentivato.
 
Tutti gli accordi di finanziamento dell’organizzazione includono disposizioni per la parità di accesso per assicurare che i vaccini siano disponibili alle popolazioni quando e dove sono necessari per porre fine o ridurre un’epidemia. Molti giornali, tra cui The Guardian, sottolineano che sono stati in buona parte gli sforzi del Cepi, oltre al sequenziamento rapido del coronavirus da parte della Cina, a consentire di lavorare così rapidamente alla messa a punto di un vaccino.

Emergono quindi una tendenza alla cooperazione e alla collaborazione internazionale e un atteggiamento protettivo, di monopolizzazione di tecnologie e risorse chiave. Come se produrre un vaccino contro un virus nuovo, che conosciamo solo da pochi mesi, non fosse una sfida già abbastanza complessa. Ovviamente occorrono finanziamenti e approvazioni, abbiamo visto in parte l’implicazione di interessi politici, ma al di là di questo ci sono difficoltà puramente scientifiche. Prima di tutto conosciamo poco l’immunità innescata dal coronavirus.
 
Non sappiamo, quanto tempo dopo l’infezione vengono prodotti gli anticorpi, quanto sono protettivi rispetto a infezioni future, né per quanto tempo. D’altra parte, ciò che tentano di fare le diverse case farmaceutiche, attraverso approcci diversi, quindi con proteine, frammenti di Dna, frammenti di Rna e vettori virali, è di introdurre nell’organismo un elemento del virus che possa insegnare al sistema immunitario a cosa somigli il coronavirus e ad allenarlo a combatterlo.
 
Bisogna però scoprire quale, tra tutte le strategie in corso, permetta di sviluppare l’innesco adatto per stimolare il sistema immunitario in modo efficace. Gli studi clinici precedenti all’approvazione di un vaccino si svolgono in tre fasi. Nella prima il prodotto viene testato su alcune decine di volontari sani per verificarne la sicurezza e monitorare gli effetti collaterali, la seconda coinvolge centinaia di persone, la terza migliaia. E non tutti i candidati che vengono testati superano tutte queste prove. A maggior ragione se si provano strategie nuove come i virus a Rna o a Dna.

Bisogna procedere quindi con molta cautela nello sviluppo, nonostante la fretta dei diversi paesi che vogliono assicurarsi il primato nello sviluppo di un vaccino.

Camilla de Fazio

25 marzo 2020
© Riproduzione riservata

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