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Le cure palliative e la “terapia della dignità”. Uno studio su pazienti terminali non oncologici

di Mario Melazzini e Luca Pani

In Canada è stato coniato un vero e proprio modello empirico per la valutazione del grado di percezione della dignità nei malati che affrontano il fine-vita e sulla base di questo modello è stato sviluppato il Patient Dignity Inventory (PDI), uno strumento di screening delle fonti di disagio che è stato adottato nei modelli di cure palliative in tutto il mondo

15 FEB - “Essere mortale ha a che fare con la lotta per far fronte ai vincoli della nostra biologia, con i limiti stabiliti dai geni, dalle cellule, dalla carne e dalle ossa. La scienza medica ci ha messo a disposizione un grande potere per contrastare questi limiti e il valore potenziale di questo potere è una delle ragioni principali per le quali sono diventato un medico. Ma più e più volte ho assistito al danno che procuriamo in medicina quando non riusciamo a riconoscere che tale potere è di natura finita e lo sarà sempre. Eravamo nel torto rispetto al ciò che costituisce il nostro lavoro in medicina. Pensiamo che il nostro compito sia di garantire la salute e la sopravvivenza. Ma in realtà è più ampio. È consentire il benessere. E il benessere riguarda le ragioni per cui una persona desidera di essere viva. Tali motivi non hanno importanza solo alla fine della vita, o quando arriva la debilitazione, ma lungo tutto il percorso. Ogni volta che una malattia grave o una lesione colpiscono e il corpo o la mente si abbattono, le questioni vitali sono le stesse: Qual è la tua comprensione della situazione e dei suoi potenziali risultati? Quali sono le tue paure e quali sono le tue speranze? Quali sono i compromessi che si è disposti o non disposti a fare? E qual è la linea di condotta che meglio facilita questa comprensione?"1
 
La fine della vita è un passaggio cruciale e allo stesso tempo è una sfida per i sistemi sanitari, uno stimolo a confrontarsi con le ragioni profonde della medicina e con i suoi limiti.
Il senso di dignità del paziente, la sua capacità di sentirsi dignus, meritevole di stima e considerazione, è minata alle fondamenta dalla vulnerabilità e dalla dipendenza imposte dalla malattia. 
 
Il rapporto che si sviluppa con gli operatori sanitari nel fine-vita influenza in maniera significativa la percezione di sé del paziente, forgiandone l’esperienza in senso positivo o negativo, determinando in maniera drastica la qualità dell’assistenza sanitaria ricevuta.
 
Negli ultimi decenni sono stati compiuti progressi significativi dal punto di vista dell’attenzione dedicata alla salvaguardia di una delle dimensioni più importanti dell’essere umano ed è stato sviluppato un nuovo approccio terapeutico, la “terapia della dignità”, il cui obiettivo è il miglioramento dell’esperienza del fine-vita, aiutando il paziente (e i suoi familiari)  a preservare l’identità personale e affermare i propri valori in questa fase.
 
L’autore di questo metodo, lo psichiatra canadese Harvey Max Chochinov, Direttore della Manitoba Palliative Care Reserarch Unit, ha recentemente siglato assieme al suo team di ricerca un lavoro intitolato “Dignity and Distress towards the End of Life across Four Non-Cancer Populations2, pubblicato sulla rivista scientifica internazionale PLOS One.
 
Lo scopo dello studio era l’identificazione di quattro popolazioni di pazienti terminali, affetti da patologie non oncologiche, che potrebbero beneficiare di cure palliative, descrivendo e confrontando la prevalenza e le manifestazioni del disagio legato alla sfera della dignità personale.
 
Tra febbraio 2009 e dicembre 2012, sono stati reclutati ai fini dello studio 404 partecipanti, circa 100 per quattro diverse patologie tra cui la sclerosi laterale amiotrofica (SLA), la malattia polmonare ostruttiva cronica (BPCO), la malattia renale allo stadio terminale  (ESRD) e la fragilità degli anziani.
 
I pazienti affetti da questo tipo di condizioni tendono, rispetto a quelli affetti da patologie oncologiche, a ricevere meno cure palliative, nonostante la sofferenza fisica, psicologica ed esistenziale. 
Chochinov ha coniato un vero e proprio modello empirico per la valutazione del grado di percezione della dignità nei malati che affrontano il fine-vita e sulla base di questo modello è stato sviluppato il Patient Dignity Inventory (PDI),uno strumento di screening delle fonti di disagio che è stato adottato nei modelli di cure palliative in tutto il mondo.
 
Gli autori hanno concluso che la perdita complessiva di dignità non differiva significativamente tra le popolazioni oggetto dello studio e si è mantenuta su livelli paragonabili a quelli riscontrati nei pazienti oncologici. A risultare estremamente eterogenei sono stati invece i patterns associati al disagio connesso alla percezione della dignità. Il numero medio di elementi segnalati come problematici attraverso il PDI variavano in maniera significativa, dai 6.2 dei pazienti affetti da SLA, ai 5,6 nella BPCO, dai 3 degli anziani fragili ai 2,3 dell’ESRD.
 
I pazienti affetti da SLA” riportano Chochinov e colleghi “hanno segnalato un maggior disagio correlato alla dignità come ad esempio il non essere in grado di svolgere dei ruoli, delle attività o delle routine quotidiane importanti; sentirsi come un peso per gli altri, avvertire una perdita di controllo e non sentirsi più utili e preziosi”.
Le conclusioni dello studio ci ricordano che esistono dunque una diversità e dei modelli unici di disagio fisico, psicologico ed esistenziale in ciascuno dei gruppi di pazienti considerati.  
 
Una percentuale di partecipanti variabile tra il 35 e il 58%, a seconda del gruppo di appartenenza, sono deceduti durante lo svolgimento dello studio, lungo un arco di tempo di diversi mesi.
 
Si tratta di una osservazione che riconferma la necessità di integrare precocemente le cure palliative, sviluppare sempre più il modello di simultaneous care, approfondendo la conoscenza della realtà, delle aspettative, dei traumi e delle paure di ogni singolo paziente.
Una sfida che risponde allo scopo ultimo della medicina la cui missione, come recita l’antico adagio francese, è di “guarire talvolta, spesso dar sollievo, sempre consolare3.
 
Mario Melazzini
Presidente Aifa
 
Luca Pani
Direttore generale Aifa
 
Fonte: Editoriale del 15 febbraio 2016 sul sito web dell’Aifa
 
1. Traduzione da Being Mortal: Medicine and What Matters in the End, di Atul Gawande, 2014.
2. http://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0147607
3. http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/12534104


15 febbraio 2016
© Riproduzione riservata

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