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L’Italia delle eccellenze. La “Pavia Tecnique” per liberare le arterie polmonari

di Ilaria Ciancaleoni Bartoli

Nel mondo, oltre quello del San Matteo di Pavia, ci sono solo altri 4 centri che praticano la stessa metodologia che consente di abbassare la pressione e di aiutare il ventricolo destro a ritrovare una normale funzionalità. Il vantaggio è anche quello di ampliare ancora di più la percentuale dei pazienti dichiarati operabili fino al 95%. Intervista al professor D’Armini

23 OTT - Liberare le arterie polmonari ostruite e, abbassando la pressione, aiutare il ventricolo destro a ritrovare una normale funzionalità, scongiurando il rischio che il cuore ceda alle continue sollecitazioni dovute all’ipertensione polmonare cronica tromboembolica (IPCTE). In sostanza è questo il ruolo della EAP, acronimo di endoarteriectomia polmonare, una delicata operazione cardiochirurgica che solo pochi centri al mondo sono in grado di effettuare con competenza.
 
Uno di questi centri di eccellenza, tra i primi 5 al mondo insieme a San Diego (California, USA) dove la tecnica originaria è nata, Cambridge (UK), Parigi (Francia) e Bad Nauheim (Germania), si trova in Italia, presso la cardiochirurgia della Fondazione I.R.C.C.S. Policlinico “San Matteo” di Pavia. Ne abbiamo parlato con il professor Andrea Maria D’Armini, direttore della struttura semplice dipartimentale chirurgia trapiantologica cardiopolmonare e dell’ipertensione polmonare della fondazione IRCCS policlinico “San Matteo” di Pavia, uno dei massimi esperti in questo tipo di intervento chirurgico. A lui va ricondotta la nascita di quella che ora tutti chiamano ‘Pavia Tecnique’ – una versione ‘modificata’ dell’intervento tradizionale – e anche l’ideazione e la diffusione di un sistema di follow-up dei pazienti che ricalca quello utilizzato per i trapiantati e che sta permettendo di avere dati sempre più precisi sui risultati nel tempo di questo tipo di intervento.
 
Professore, ci aiuti intanto a capire che tipo di pazienti abbiamo di fronte.
Intanto precisiamo che si tratta di una malattia rara la cui origine, diversamente da altre malattie, ci è nota: l’IPCTE è infatti dovuta all’accumulo, nelle arterie polmonari, di materiale tromboembolico cronico conseguente un’embolia polmonare acuta. È un evento che può capitare a tutte le età ma di cui è possibile non rendersi conto subito. L’embolia polmonare acuta, infatti, quando non è molto estesa, può essere asintomatica: una buona parte di pazienti arriva da noi solo quando una successiva embolia li fa diventare sintomatici. A questo punto troviamo materiale tromboembolico ormai cronico e, mentre l’embolo più recente si può sciogliere con la terapia anticoagulante, quello vecchio può solo essere rimosso chirurgicamente proprio con l’endoarteriectomia polmonare.
Dare un numero preciso di quanti siano questi pazienti è difficile proprio perché ancora oggi molti non arrivano alla diagnosi, o arrivano in ritardo: se volessimo fare una proiezione a partire dai dati del ministero della salute sull’embolia polmonare acuta possiamo stimare che in Italia ci dovrebbero essere tra i 300 e i 1000 nuovi casi l’anno; naturalmente noi ne vediamo molti meno.
 
Per chi arriva alla diagnosi il trattamento, stabilito come prima scelta anche nelle linee guida internazionali, è la chirurgia. Ci può spiegare in che consiste l’intervento?
In estrema sintesi si tratta di andare a ripulire le arterie polmonari dal materiale tromboembolico cronico per consentire una normalizzazione della pressione polmonare. Questi trombi possono essersi accumulati in posti molto diversi, il lavoro che spetta al cardiochirurgo è certosino, anche se oggi le migliori tecnologie diagnostiche ci aiutano a capire con più precisione dove intervenire. L’intervento dura mediamente dalle 7 alle 9 ore, prevede l’utilizzo della circolazione extracorporea ed un considerevole abbassamento della temperatura corporea del paziente. Di fatto il tempo centrale in cui il chirurgo opera la rimozione dei trombi è di circa 4 o 5 ore. Per una rimozione accurata di tutto il materiale che occlude o stenotizza i vari rami delle arterie polmonari anche la circolazione extracorporea deve essere fermata. Si ha quindi un periodo di arresto di circolo che però deve essere limitato e non esteso a tutto il tempo che serve per la pulizia delle arterie polmonari. Bisogna quindi far riprendere la circolazione extracorporea e, dopo un periodo adeguato di riperfusione, fermarla di nuovo e ricominciare la rimozione del materiale tromboembolico. Questo evita che il corpo subisca danni irreversibili durante periodi di arresto di circolo troppo prolungati. La tecnica originale di San Diego prevede, invece, un solo periodo di arresto di circolo per polmone di circa 20-25 minuti ad una temperatura di 18-19 °C. Il tempo totale a disposizione è quindi molto meno.
 
È stato lei a introdurre i cambiamenti con la ‘Pavia Tecnique’, ci dica in che consiste e quali risultati ha portato.
Nel 2000 sono andato a San Diego ad imparare questo intervento e quindi usavo il loro protocollo e la loro tecnica. Ricordo che all’inizio della mia esperienza a Pavia operai un raro e difficile caso di reintervento di endoarteriectomia polmonare, un anziano che non aveva seguito bene la terapia anticoagulante che invece deve essere presa per tutta la vita per evitare recidive. L’operazione andò bene ma il paziente morì 5 giorni dopo per infarto intestinale, segno che l’organismo aveva subito dei danni d’organo irreversibili durante l’intervento. Pensai così che bisognava modificare il protocollo della circolazione extracorporea, dell’ipotermia e degli arresti di circolo. Nel tempo siamo arrivati a fare arresti di circolo più brevi, di circa 7-10 minuti, ad una temperatura più elevata di 24-25 °C. Questo ci consente un numero di arresti di circolo molto più numeroso con un tempo totale a disposizione più lungo ma allo stesso tempo più sicuro perché intervallato da periodi di riperfusione di tutto l’organismo. Ciò vuol dire che abbiamo tempo per concentrarci non solo sul trombo principale ma anche di andare a vedere se ce ne sono altri, e questo ci ha permesso di conoscere meglio come vanno a distribuirsi. Il vantaggio di questa tecnica inoltre è che ci ha permesso di ampliare ancora di più la percentuale dei pazienti dichiarati operabili. Se nel 2004 erano tali il 75% dei pazienti oggi arriviamo ad una operabilità del 95%, tanto che nelle ultime linee guida verrà scritto che per dichiarare un paziente non operabile serve una ‘second opinion’ di un centro esperto.
Anche sulla mortalità dei pazienti si sono fatti enormi passi in avanti: negli anni ’90, quando si era agli inizi, era di circa il 10%, oggi siamo a meno del 5% e in questo il nostro centro è perfettamente in linea con gli altri.
 
Se tutto va bene che vita può sperare di fare il paziente dopo l’intervento? E quando può tornare alla sua vita normale?
Nella sfortuna di avere una malattia grave questi pazienti sono fortunati rispetto ad altri con malattie rare del polmone perché per loro c’è davvero la possibilità di guarigione, che è proprio la chirurgia. Se l’operazione va bene, ed è così nella maggioranza dei casi, possono tornare infatti a condurre una vita perfettamente normale, possono fare sport di tutti i tipi, e, anzi, il movimento è sempre consigliato. L’unica cosa che devono fare è prendere gli anticoagulanti a vita e venire, sempre meno spesso con il passare del tempo, alle visite di controllo. È rarissimo che un paziente debba essere operato una seconda volta e questo in genere avviene perché la terapia anticoagulante non è stata seguita bene. Naturalmente, trattandosi di un grande intervento, il recupero ha i suoi tempi. Noi normalmente teniamo il paziente in ospedale circa 15 giorni. I primi 3 o 4 ripetiamo per sicurezza tutte gli esami strumentali e le visite preoperatorie, poi c’è l’intervento, 2 o 3 giorni di terapia intensiva, una settimana o 10 giorni in reparto. Poi dmandiamo il paziente in una clinica per la riabilitazione della Fondazione Maugeri. Quindi, dopo circa altri 15 giorni, il paziente viene dimesso e torna alla sua vita assolutamente normale.
 
Recentemente l’hanno chiamata in Gran Bretagna a parlare del suo metodo di follow-up, dove sta la novità?
La novità è che noi per primi abbiamo pensato di utilizzare per il paziente sottoposto ad intervento di endoarteriectomia polmonare lo stesso follow-up che si usa per i trapiantati: il nostro è anche un centro trapianti e quindi avevamo dimestichezza. Negli altri paesi non tutti hanno subito accolto questa cosa con favore. Negli USA era impensabile perché le assicurazioni sanitarie non avrebbero coperto i costi, ad altri colleghi europei sembrava eccessivo, poi però gli Inglesi ci hanno seguito nel modello e ora grazie a questo ci troviamo ad avere molti più dati di outcome di un tempo.
 
Ma prima di questa tecnica cosa veniva proposto ai pazienti?
Quando non esisteva questo tipo di intervento chirurgico per questi pazienti le speranze erano poche, l’unica di fatto era il trapianto, che era eseguibile solo entro una certa età e solo se si trovavano gli organi, una cosa piuttosto complessa visto che all’inizio si faceva il trapianto dell’intero blocco cuore-polmoni. Si faceva così perché si era convinti che il ventricolo destro, messo a dura prova dall’ipertensione polmonare, non sarebbe stato in grado di tornare a funzionare normalmente. Però dopo la metà degli anni ’90, quando furono eseguite le primissime endoarteriectomie polmonari, ci si rese conto che il cuore aveva la capacità di recuperare, e si passò dunque al trapianto isolato dei soli due polmoni. Ma pochi potevano accedervi e comunque c’era il rischio di rigetto e di tutte le problematiche che esistono ancora oggi per i trapiantati. L’EAP in poco più di 10 anni ha completamente cambiato le prospettive di queste persone.
 
Ilaria Ciancaleoni Bartoli, in accordo con l’Osservatorio Malattie Rare 

23 ottobre 2013
© Riproduzione riservata

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