Circa 1.250 casi a settimana, quasi 180 al giorno: ogni anno oltre 65mila italiani, spesso giovani, sono vittime di un’embolia polmonare. È la terza emergenza cardiovascolare più frequente, dopo l’infarto miocardico e l’ictus, e in un caso su 5 è fatale entro appena 3 mesi dall’evento. La mortalità è diminuita negli ultimi anni grazie agli avanzamenti della terapia, ma nel nostro Paese le tecniche più all’avanguardia non sono disponibili ovunque: accanto alla trombolisi, ovvero l’uso di farmaci specifici per ‘sciogliere’ il trombo che occlude il vaso polmonare provocando l’embolia, oggi si può rimuovere il coagulo di sangue con la trombectomia percutanea, un intervento mininvasivo che aiuta a risolvere i casi più seri e ad alto rischio ma che soltanto il 2% dei centri di emodinamica italiani è in grado di offrire.
Lo denunciano gli esperti della Società Italiana di Cardiologia Interventistica (GISE), sottolineando la necessità di creare una rete di centri e percorsi di cura adeguati a rispondere alle esigenze dei pazienti, per intervenire con la modalità migliore per ciascuno e anche tempestivamente, perché come nel caso dell’infarto del miocardio ogni minuto può fare la differenza.
“La tromboembolia polmonare si verifica quando un coagulo di sangue che si forma nel circolo venoso periferico arriva a occludere un vaso polmonare – spiega Giovanni Esposito, presidente Gise e direttore della Uoc di Cardiologia, Emodinamica e UTIC dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II di Napoli –. Le condizioni che facilitano la comparsa di trombi sono i traumi, le fratture, l’immobilizzazione, la gravidanza, il cancro e le persone più colpite sono tipicamente i giovani e le donne. I sintomi includono difficoltà di respiro, dolore toracico, battito cardiaco accelerato e si può arrivare a un’instabilità cardiaca che richiede immediato intervento. I pazienti vanno in Pronto Soccorso e spesso il percorso diagnostico è lento, mentre come nel caso dell’infarto acuto del miocardio ogni minuto conta: un intervento tempestivo è fondamentale perché può scongiurare le conseguenze più serie della tromboembolia polmonare, che arrivano fino al decesso”.
Una possibilità di cura è la trombolisi, che serve a sciogliere il trombo liberando il vaso ostruito; tuttavia in Italia circa 1.200 pazienti all’anno ad alto rischio possono andare incontro a pericolose emorragie con questo tipo di approccio e non si possono sottoporre a trombolisi. In alternativa il trombo può essere rimosso chirurgicamente, con un intervento che tuttavia è complesso e pochi centri sono in grado di eseguire. La possibilità più all’avanguardia, che combina efficacia e sicurezza, è oggi la trombectomia per via percutanea: come nel caso dell’interventistica cardiologica si accede al circolo tramite catetere attraverso vasi periferici, per arrivare nella sede del trombo ed eliminarlo meccanicamente.
“I possibili candidati sono i pazienti a rischio intermedio-alto, stimati in almeno 10.000 all’anno nel nostro Paese, e i circa 1.200 casi con controindicazioni alla trombolisi: in queste situazioni l’approccio transcatetere si è dimostrato efficace e se si interviene tempestivamente la mortalità può essere ridotta – sottolinea Esposito – Per garantire l’accesso dei pazienti a questo tipo di procedure però devono essere superati ostacoli di ordine clinico e organizzativo. Serve infatti creare percorsi diagnostico-terapeutici specifici per la tromboembolia polmonare, la cui terapia richiede un approccio multidisciplinare vista la possibilità di intervenire con farmaci, chirurgia o con una procedura interventistica; soprattutto, serve realizzare una rete di centri che siano in grado di erogare tutte le terapie possibili per poter gestire ogni caso nel modo migliore. Oggi, solo il 2% dei centri di emodinamica italiani può offrire il trattamento transcatetere della tromboembolia polmonare: è fondamentale, invece, che ve ne sia almeno uno in ogni Regione”.