I Lea - per definizione a carico del Servizio sanitario nazionale - non sono affatto ampliabili a cura delle Regioni. È quanto deciso dalla Corte Costituzionale con una sua apprezzabile sentenza: la nr. 242 (Red. Buscema), depositata il 1° dicembre appena trascorso.
L’esame della Consulta interessava una legge della Regione Puglia (la nr. 28/2021), istitutiva del servizio di analisi genomica con sequenziamento della regione codificante individuale. In quanto tale ritenuto dalla medesima espletato dal Servizio sanitario regionale pugliese a suo totale carico, purché doverosamente prescritto in presenza di particolari patologie e a tutela di interessi pubblici afferenti alla prevenzione.
Un assunto, quello di accollarlo al servizio sanitario, contestato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri soprattutto perché ritenuto perfezionato in violazione dell’art. 117, comma terzo, relazionato al comma 174 dell’art. 1 della legge finanziaria per il 2005 (L. 311/2004). Ciò in quanto quest’ultimo, in attuazione del principio fondamentale di coordinamento di finanza pubblica, andava ad escludere ogni forma di espansione di prestazioni sanitare a carico di sistemi regionali della salute. In quanto tale, nel caso di specie, anche ampliativo della categoria dei livelli essenziali di assistenza (i Lea) fissati esclusivamente dallo Stato, in attuazione di quanto disposto nel comma secondo del medesimo articolo della Costituzione alla lett. m).
Un divieto che diventa ancora più esplicito per quelle Regioni soggette ai vincoli dei piani di rientro dal disavanzo sanitario, atteso che alle medesime viene segnatamente interdetto ogni incremento di spesa salutare «per motivi non inerenti alla garanzia delle prestazioni essenziali (i Lea) e per spese, dunque, non obbligatorie».
Un principio cristallizzato in tre importanti sentenze delle Consulta: le nn. 36 e 142 del 2021 e la n. 166 del 2020. Va da sé che alle anzidette Regioni in piano di rientro è inibita ogni possibilità di introdurre prestazioni ulteriori riguardanti il settore sociosanitario, al di là di quelle fissate dallo Stato.
Una interdizione di tipo assoluto perché risulterebbe peraltro in aperta violazione dell’art. 81, (come detto) dell’art. 117, comma secondo, lett. m), 81 e (aggiungiamo noi) 97, comma primo, e 119 comma primo.
A prescindere dalla verosimile riconosciuta utilità di un siffatto percorso diagnostico, il Giudice delle leggi ha ancora una volta sancito quanto oramai consolidato. Ovverosia che il ricorso gratuito alle prestazioni, quantunque pregevoli, è consentito solo con l’inclusione delle stesse nell’apposita griglia dei Lea, la cui implementazione è interdetta alle Regioni, che peraltro ad oggi sarebbero ben otto quelle in piano di rientro (Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio, Molise Puglia, Sardegna, Sicilia), di cui due anche commissariate ad acta (Calabria e Molise).
La Consulta in cattedra
Ma è nella chiosa finale della senanza la grande lezione della Corte, meglio la sua tirata di orecchi ad un sistema che non offre e garantisce alla collettività le occasioni di maggiore tutela della salute.
Un rimprovero che ci sta tutto nel senso di sollecitare lo Stato, proprio nel senso di:
a) provvedere ad una modifica sostanziale della disciplina che regola l’aggiornamento dei Lea, atteso che la prevista scansione temporale quinquennale per la modificazione del nomenclatore equivale ad una eternità, considerato il veloce progresso che caratterizza la ricerca, la tecnologia e la scienza medica e quindi l’assistenza sanitaria alle persone;
Un modo per ribadire che la sanità comincia da una corretta, celere e attualizzata definizione dei livelli di assistenza, di cui all’art.1, comma settimo, del vigente d.lgs. 502/1992.
Ettore Jorio
Università della Calabria