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Consenso informato e Dat. Una legge che non convince

11 DIC - Gentile Direttore,
a meno di clamorose sorprese dell’ultimo minuto, la legge che tutti oramai indicano nella norma sul biotestamento (d.d.l. recante ‘Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento’) sarà definitivamente approvata dal Senato. Alla fine di una stanca legislatura, l’agenda politica ha così riposizionato al centro del dibattito pubblico il pallone delle questioni sensibili; anche se ciò che sarà tra qualche giorno approvato non ha nulla a che vedere con le tragiche vicende umane (per tutte quella del dj Fabo) riguardanti persone gravemente  ammalate che si sono recate in Svizzera per porre fine alla loro sofferenza (con il suicidio assistito).
 
Pur senza correre il rischio di reiterare la mia posizione critica riguardo ai contenuti del d.d.l. giunto al traguardo d’arrivo vorrei qui provare ad analizzarne gli snodi critici con l’obiettivo di mettere a confronto la lettera, a volte rigida, della norma con la complessità ed il valore della persona e con la dignità umana ritenendola un valore trasversale e comune al pluralismo etico ed ai nostri diversi modi del sentire.
 
Consenso e traslazione del suo senso
L’art. 1 del d.d.l. conferma il principio personalistico della nostra Costituzione (ripreso dalla Carta fondamentale dei diritti dell’Unione europea) e, con esso, la libertà di cura (art. 32): libertà non compressa da interessi ad essa estranei, a parte le limitatissime riserve di legge pur (ri)vitalizzate dal recente obbligo vaccinale che ha spaccato in due il Paese.
 
L’esercizio di questa libertà pretende, naturalmente, il diritto di conoscere e di essere informati: un diritto ampio, che interessa anche i minori e le persone con disabilità intellettiva, mentale e cognitiva ferma restando la libertà della persona di non sapere e di delegare a terzi l’informazione confermata sia dal Codice di deontologia medica (art. 33) che dalla Convenzione di Oviedo (art. 10) non ancora giunta a completa ratifica, nonostante il nostro Parlamento ne abbia avviato il completo recepimento nel lontano 2001.
 
L’esigibilità di questa libertà richiede, naturalmente, tempi e luoghi dedicati non sempre sincroni con l’efficientismo performante della sanità italiana, con i vincoli di budget insiti nell’aziendalizzazione della medesima e con i sistemi premianti ancora basati sulle perverse logiche selettive dei DRG.
 
Perché se è condivisibile l’idea che la comunicazione è un tempo e, molto spesso, anche un luogo straordinario di cura (art. 1, comma 8) in cui si devono pur incontrare le molte autonomie, le diverse responsabilità e le distinte umanità del care, occorre rinsaldare la convinzione  che la persona pretende pieno rispetto, non potendo essere certo ridotta la sua manifestazione di volontà ad un atto burocratico-formale. Come rischia di avvenire se è vero - come è vero - che la nuova legge prevede che questa manifestazione di volontà debba essere sempre raccolta per iscritto e, addirittura, videoregistrata (art. 1, comma 4).
 
Questo modo di procedere, associato alla previsione che il consenso così documentato esonera il medico da qualsiasi addebito di colpa sia penale che civile (art. 1, comma 6), burocratizzerà pericolosamente il care tradendo, alla fine, le sue finalità ed i suoi stessi obiettivi: che restano quelli di costruire, con impegno e costanza, una sana e robusta alleanza prioritariamente umana le cui fondamenta portanti sono il riconoscimento ed il rispetto reciproco, la paritaria considerazione e la lealtà comunicativa, la quale pretende di condividere il certo e l’incerto senza diventare un alibi destinato a precostituire una o più cause di giustificazione per non avere guai.
 
Il consenso non è così, a mio modestissimo giudizio, la raccolta di una firma olografa su un foglio di carta prestampato in cui sono e saranno di regola amplificati i rischi e gli eventi avversi per allargare il diametro dell’ombrello protettivo dell’irresponsabilità giuridica ma la conclusione – mai ipostatica - di un processo coerente e dinamico che, attraverso la comunicazione, si propone davvero di costruire un’alleanza fiduciaria resa dinamica dall’incontro di autentiche umanità.
 
Con quella sana reciprocità più volte rivendicata da Ivan Cavicchi anche sulle pagine di questo Quotidiano che non si esaurisce certo in un modulo firmato (inserito in Cartella clinica o nel fascicolo sanitario elettronico) od in una videoregistrazione ma che si storicizza nel processo comunicativo e nella sua graduale e progressiva costruzione di significato.
 
Per non ridurre l’etica a legalità e salvaguardare le umanità del care e perché il reiterare questa traiettoria altro non significa che riconfermare l’esistenza di quell’ampia crisi fiduciaria che esiste tra la medicina e la società, ridando vigore agli aspetti burocratici della prima senza impegnare in alcuna maniera le organizzazioni se non nell’acquisto di quei sistemi che dovranno videoregistrare il rifiuto della persona per pacifiche esigenze di garanzia dei professionisti.
 
Nutrizione e idratazione per via artificiale
È sicuramente da condividere l’idea che la nutrizione e l’alimentazione artificiali sono misure terapeutiche e non misure di sostegno di base, che anche questi trattamenti sono legittimi solo con il consenso della persona e nel caso in cui essi non trasfigurano nell’accanimento o nella futilità terapeutica (art. 2, comma 2), che il consenso può sempre essere revocato dalla persona con la possibilità di chiedere l’interruzione di trattamenti medici già iniziati, che il rifiuto non deve mai essere causa o motivo di abbandono, che al malato devono essere comunque garantite le cure palliative (anche spirituali ed umane) necessarie alla dignità del morire (art. 1, comma 5) e che il paziente non può mai pretendere ed esigere dal medico trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali (art. 1, comma 6).
 
Perché, come ha detto recentemente Papa Francesco in due importanti discorsi pubblici, una cosa è impedire la morte, un’altra è accettarla, essendo le possibili opzioni offerte oggi dalla tecnica al servizio dell’uomo con la conseguenza che esse non possono mai tracimare nell’accanimento.
 
Paradossale è, invece, l’idea che la legittimità del consenso sia da subordinare alla maggiore età della persona ed alla sua capacità di agire (art. 1, comma 5). Non solo perché, a livello internazionale, il minore ha da molti decenni ottenuto il suo pieno riconoscimento giuridico (così la Convenzione ONU sui diritti del fanciullo) ma soprattutto perchè la capacità di agire (art. 2 c.c.) è una categoria giuridica che discrimina le persone (soprattutto, quelle affette da una infermità di mente ed i molti malati psicogeriatrici) degradandoli ad individui privati della possibilità di esercitare quei diritti e quelle libertà che sviluppano e storicizzano ogni personalità.
 
Perché anche questi malati sono persone in senso pieno, perché si devono combattere gli stigmi ed i pregiudizi ageistici purtroppo ancora prodotti dai disturbi psichiatrici e perché l’esperienza clinica insegna che, in non rari casi, anche le persone giudizialmente incapaci sono comunque in grado di assumere decisioni morali che devono essere rispettate, a patto di non voler violare la loro identità e la loro stessa dignità.
 
Banalizzare la complessità della competence (o della decision making capacity) e confonderla con la capacità di agire porterà il medico ad agire comportamenti professionali in prospettiva burocratica-difensiva per sfruttare l’ombrello protettivo della irresponsabilità sia penale che civile  è, così, un errore imperdonabile anche sul piano politico-antropologico ed è pacifico attendersi un superlavoro da parte dei Colleghi psichiatri forensi che saranno spesso chiamati in corsia per valutare la capacità di intendere e di volere di tutte quelle persone che esprimeranno il loro dissenso alla cura.
 
Diffondendo stereotipi molto pericolosi i quali cancelleranno tutti gli sforzi fin qui fatti dai molti di noi che hanno educato la classe professionale a considerare la demenza ed ogni altro disturbo della sfera psichica come disturbi dal carattere fenotipico altamente instabile ed il vizio di mente un artefatto giuridico che non tiene conto dell’evolutività dei tanti disturbi psichici (anche di quelli più gravi).
 
Con l’obiettivo di combattere quegli automatismi che, in ambito psicogeriatrico, sono la spia di uno stile professionale inadeguato o il tentativo infantile di banalizzare la complessità avendo ogni ammalato ha una sua identità biografica che deve essere salvaguardata, rispettata e soprattutto promossa.
 
La questione del consenso nei minori
L’art. 3 del d.d.l. affronta la questione dei minori e degli incapaci delineando il ruolo di chi esercita la responsabilità genitoriale, del tutore, del curatore e dell’amministratore di sostegno che dovevano essere meglio e più opportunamente declinati: dovendo queste figure di rappresentanza giuridica perseguire sempre il best interest della persona e non potendo esse innescare conflitti opponendosi a trattamenti proposti nell’interesse di salute della persona come ricorda il Codice di deontologia medica (art. 32) o pretendendo terapie inappropriate.
 
Interessi che devono essere onorati dal medico con la conseguenza che l’idea di coinvolgere, in caso di contrasto, il giudice tutelare (art. 3, comma 5) non è né convincente né ragionevole. Non solo perché i tempi della giurisdizione non sono sempre compatibili con gli interessi di salute della persona ma per altre evidentissime ragioni: perché la giurisdizione è sottoposta ad una sua difficile gerarchia interna con i diversi gradi di giudizio, perché il Giudice non sarà certo in grado di dirimere da solo le querelle tra le parti e perché questa scelta mette in discussione il ruolo di garanzia che il medico assume in ogni relazione di cura.
 
Subordinare l’autonomia professionale del medico alla giurisdizione ordinaria è, così, ammettere l’esistenza della subordinazione del sapere scientifico la cui indipendenza è pur tutelata dalla nostra Carta costituzionale, fermo restando che il richiamo alle sole buone pratiche clinico-assistenziali riportato nel comma 6 dell’art. 1 del d.d.l. stride con le previsioni contenute nella recentissima legge Gelli-Bianco sulla responsabilità professionale.
 
La volontà della persona espressa in forma anticipata
Gli artt. 4 e 5 del d.d.l. trattano, separatamente, del diritto della persona a formalizzare la sua volontà anticipata riguardo a future opzioni di cura (DAT) e della sua pianificazione anticipata.
 
Pur condividendo questa impostazione generale, la mia forte preoccupazione ricade su alcune scelte linguistiche usate dal legislatore dell’urgenza e su altre questioni più di sostanza. Fermo restando che l’art. 4 avrebbe dovuto parlare di direttive e non già di disposizioni anticipate di trattamento, non convincono le modalità della loro raccolta che il comma 6 indica nell’atto pubblico o nella scrittura privata prevedendo, in questa seconda ipotesi, che esse debbano essere consegnate personalmente dal disponente all’ufficio dello stato civile del comune di residenza o presso le strutture sanitarie.
 
Preoccupa non tanto la previsione che le DAT debbano essere redatte per iscritto dalla persona che le deve naturalmente sottoscrivere e datare olograficamente ma questo doppio canale procedurale che privilegerà sicuramente gli studi notarili, con un controllo esterno sostanzialmente etero-guidato da persone tecnicamente incompetenti e con un grande assente: il medico di fiducia della persona, sia esso il medico di famiglia che lo specialista.
 
Non certo per medicalizzare una scelta di vita dal carattere sostanzialmente personale quando per dare ad essa contenuti chiari, precisi e non opinabili se si vuole dare poi ad essi piena e concreta esigibilità. Anche perché la sussidiarietà non solo sul versante tecnico ma soprattutto su quello umano in questo particolare momento della vita di ogni persona deve affrontare responsabilmente i dubbi, detendere le paure ed affrontare le ansie prodotte spesso dal non sapere e dall’ignoto.
 
Se è da condividere l’idea che la persona, in questo documento, possa (anzi debba) indicare il suo fiduciario senza particolari formalismi burocratici scegliendolo preferibilmente nella sua rete familiare o amicale ciò che invece preoccupa è la mancanza di chiarezza sul suo ruolo pubblico; che doveva essere meglio precisato come ha fatto il Code francese per non creare confusioni o imbarazzi con le altre figure di rappresentanza giuridica. Incomprensibile è, invece, la scelta che, quando non nominato, sia il Giudice tutelare ad individuarlo con la possibilità di investire di tale mandato anche l’amministratore di sostegno.
 
La legge, a mio modo di vedere, avrebbe dovuto prevedere l’esigenza di incoraggiare sempre la persona ad individuare sempre il suo fiduciario riconoscendo a questa figura non già il ruolo di vigilare sull’operato medico ma di dar voce alla medesima quand’essa non sarà più in grado di farlo essendo a piena conoscenza dei suoi valori, dei suoi principi, della sua identità e della sua stessa umanità.
 
La funzione e l’importanza strategica del fiduciario scemano così ad un livello subordinato, ribadendo che la capacità di agire (traslata, nel comma 1 dell’art. 4, nella capacità di intendere e di volere)  richiesta sia al depositario della disposizione anticipata che al fiduciario, è un gravissimo errore concettuale che discrimina ancora una volta le persone.
 
Non convince poi l’idea che il medico sia tenuto solo parzialmente al rispetto delle DAT potendole disattendere in tutto o in parte, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla situazione clinica attuale del paziente ovvero nell’ipotesi in cui sussistano terapie non disponibili o non prevedibili all’atto della loro redazione capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento della condizione clinica della persona (art. 4, comma 5).
 
Esistendo altri strumenti che possono contrastare queste possibilità, tra cui il loro periodico rinnovo e, come già evidenziato, la loro redazione con il supporto di un medico che è il solo professionista in grado di indicare quale è realmente la condizione clinica della persona che garantisce il loro effetto e di dar conto alla medesima dello stato e del progresso delle conoscenze.
 
Quanto poi all’ulteriore ricorso al Giudice tutelare, nell’ipotesi di contrasto tra il parere del medico e quello del fiduciario, non è certo la giurisdizione il luogo ideale per la soluzione di conflitti che devono essere risolti all’interno del perimetro del care, quando necessario raccogliendo una second opinion come previsto da altre legislazioni europeeaffidandola ad esperti qualificati ed indipendenti, se ad esso si vuole riconoscere quella maturità che sembra essere ammessa in altre parti dell’articolato.
 
L’advance care planning
L’art. 5 affronta, poi, il tema della pianificazione condivisa della cura che risulta essere uno snodo assolutamente prioritario come confermano tutte le più solide esperienze internazionali, anche per gli effetti della transizione epidemiologica e dell’incremento dell’attesa di vita.
 
Esso prevede che la persona affetta da una patologia cronica e invalidante o con prognosi infausta (comma 1), informata sull’evoluzione della stessa (comma 2), possa esprimere la sua volontà riguardo a trattamenti medici realisticamente attuabili, possa esprimere i propri intendimenti per il futuro compresa l’eventuale indicazione di un fiduciario (comma 3) e che essi possano essere periodicamente aggiornati in relazione al progressivo evolversi della malattia su richiesta del paziente o su suggerimento del medico (comma 4).
 
Nel condividere questa impostazione generale non è però comprensibile il disallineamento procedurale rispetto alla formalizzazione della volontà anticipata della persona non essendo previsto, in quest’ambito, nessun controllo etero-guidato a parte l’ennesimo forzato rinvio alla giurisdizione nell’ipotesi di contrasto tra il medico ed il fiduciario (comma 5). Fermo restando che la funzione di quest’ultimo deve essere meglio declinata proprio per disinnescare quei contrasti che emergono sempre quando esiste un’incertezza o un vuoto sugli assetti di ruolo assunti dai protagonisti di ogni relazione.
 
Un altro pesantissimo fardello della crisi economica: la clausola di invarianza finanziaria
L’art. 7 contiene un’altra clausola di invarianza finanziaria abrogando l’esigenza di costituire una banca dati sulle DAT emersa nel testo approvato in Commissione.
 
Senza la quale resta da capire come le persone ed i professionisti potranno avvalersi delle decisioni prese in anticipo dalla persona a meno che, in un’epoca di sostanziale dematerializzazione cartacea, non si voglia affidare alla stessa il compito di portare sempre con sé una copia del documento redatto in conformità alla legge e non si pretenda che il medico, ad es. prima di rianimare o di intubare in urgenza la persona, frughi spasmodicamente il suo portafoglio alla ricerca di non si sa bene di che cosa. Subordinare i diritti della persona a clausole di invarianza finanziaria non testimonia la maturità della nostra democrazia e rinforza l’idea di un progressivo definanziamento pubblico del Servizio sanitario nazionale che continuo a considera un bene pubblico da difendere e proteggere.
 
Cambierà positivamente questa norma il care rendendolo più umano come auspicato da più parti o, ancora, una volta si poteva fare di più e meglio?
 
Non sono convinto che le ricadute pratiche di questa nuova legge saranno positive. Vedo, invece, un’ulteriore spinta statale a giuridificare la cura, a standardizzarla anche sul piano delle relazioni etiche, a non detendere le zone critiche, a renderla più burocratica e, così, molto meno umana.
 
Anche perché nulla si dice riguardo all’esigenza di responsabilizzare le amministrazioni pubbliche ed i management aziendali che continuano a premere sull’efficientamento performante (prestazionale) di un sistema pubblico che fa sempre più fatica nel presidio responsabile dei bisogni di salute di una popolazione sempre più fragile ed anziana; ed in cui il fattore tempo non è un’opportunità ma un vincolo.
 
Nulla si prospetta, ancora, riguardo all’esigenza di intervenire su quella crisi fiduciaria che esiste tra la medicina e la società se non spostando sulla giurisdizione la soluzione dei molti conflitti che sicuramente ci saranno a meno che i nuovi principi della nuova legge non siano tradotti nelle bestpractice e nelle guidelines approvare ed implementate ai sensi di legge.
 
Nulla si auspica, infine, riguardo al ruolo di sussidiarietà che il medico deve avere nel sostenere la persona che decide di depositare la sua volontà riguardo a possibili opzioni di cura soprattutto per renderla comprensibile e, quindi, esigibile.
 
Vuoti e chiaro-scuri allarmanti che, ancora una volta, testimoniano la distanza dal comune sentire nonostante, ancora una volta, si sia voluta seguire la strada di una medicina statalizzata anche sul versante delle relazioni umane et etiche lungo il ripido pendio già disegnato dalla legge sulla responsabilità professionale.
 
Sarà il mossiere della quotidianità e la maturità degli attori principali del care capace di fugare i miei dubbi pessimistici?
Lo spero vivamente ma non ne sono però convinto.
 
Fabio Cembrani
Direttore medico U.O. di Medicina legale, Azienda provinciale per i Servizi sanitari di Trento
 
PS. In allegato il documento dell’Associazione italiana di Psicogeriatria sul ddl che consiglio vivamente di leggere

11 dicembre 2017
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