Dat e consenso informato. I compiti per noi infermieri
23 FEB -
Gentile Direttore,
non ho potuto partecipare al convegno del 16 febbraio, cui ero stata invitata a parlare dal presidente dell’ordine degli infermieri di Ancona Giuseppino Conti, sullla legge 2019/2017 "Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento", pertanto esprimo qui il mio pensiero nel merito. Ho accolto la legge 219 /2017 come una buona e opportuna legge.
Sostanzialmente la recepisco come ciò che disciplina la forte connessione che doveva e dovrà esistere fra il malato ed il medico nella relazione di cura sempre. Interdipendenza fra medico e malato, prima di idee, vere, false, dubbie, e poi di fatti, qualora si dovesse rendere necessaria “la scelta insieme” di un diverso modo di curare la malattia portata da una persona malata e sofferente.
Questa legge (art. 1 comma 2 e 8; art. 5) liberalizza la relazione dalle restrizioni, dai contenimenti imposti dalla giustapposizione attuale di medici e malati, di questi con tutto il resto dell’ organizzazione, compresi gli infermieri. La giustapposizione non è relazione, è un allineamento senza rapporto dove la restrizione più rilevante, dal punto di vista infermieristico e del malato, e per le tante implicazioni, è proprio quella dell’effetto del restringimento, della limitazione della facoltà di conoscere i diversi livelli di verità esistenti nel fenomeno del vissuto “uomo malato”. Il semplice affiancamento medico -malato porta a dover utilizzare nella situazione di cura, necessariamente ed esclusivamente, “la conoscenza di una sola conoscenza, quella “oggettiva clinica” (Cavicchi, 2004, pagg 223-225).
Quello che invece, in modo particolare, interessa a noi infermieri di questa legge è che in essa l’opinione del malato abbia (anche ex lege) la sua importanza; questa legge giustifica “sufficientemente” l’uso di un sapere diverso, diversamente scientifico, relativo all’ esperienza che il malato fa della malattia e che si pensava non dovesse essere conosciuto. Cosi, Il sapere “relativo” ora conta davvero e può determinare i fatti; può essere analizzato come un sapere oggettivo per curare la malattia quando occorre far crescere la conoscenza esistente su di essa.
L’infermiere nel ruolo di mediatore culturale ha, oggi, nella relazione di cura una funzione importante (art.1 comma 2) in quanto deve operare una competenza, nella comunicazione interpersonale, (art.1 comma 10) precisa, caratterizzata dalla capacità di entrare nelle dinamiche di complessità, nel modello di ragionamento logico in atto fra medico e malato e favorire la logica conclusione di cui non è portatore, ma facilitatore. L’infermiere competente può favorire l’interporsi, fra la premessa del medico e quella del malato, di una nozione chiamata “termine medio” che porta all’unione delle due premesse e quindi “alll’oggettività nella intersoggettività” (Cavicchi, 2004 pag. 223), usando un modello di sillogismo anche di tipo dialettico.
Il pregio di questa legge è proprio quello di disegnare ed autorizzare ”un quadro coerente di tutta la relazione di cura, tendenzialmente conforme al diritto dei principi che sono già diritto vigente” (
QS, Zatti, 7 marzo), consolidato oggi, in maniera definitiva, anche in giurisprudenza.
Questa legge però non ci dice la forma che dovrebbe avere la relazione di cura; ma sapendo già che la norma di per sé non è sufficiente per cambiare le cose e sapendo che ad oggi il consenso informato, di governo decisamente medico e vissuto solo come mera formalità, non ha cambiato il modo di essere malato e neanche il modo di essere medico, dovremmo, noi infermieri, esperti di modalità di conoscenza del malato “altra”, cambiare concretamente il mondo non condiviso della malattia e quindi la forma della relazione. Questa sarebbe una vera competenza avanzata da esercitare (Skill mix orizzontale).
Questa nostra competenza dovrebbe aiutare la comprensione di ciò che “fra i due”, medico-malato, ”si è inteso dire”( Cavicchi, 2004). Per farlo servono servizi e modi di essere interconnessi e non giustapposti.
Per ogni professionista questa legge rappresenta, quindi, una opportunità in quanto ci offre un momento di alta riflessività, attuale e retrospettiva, che ci fa rendere conto di quanto la medicina e le professioni sanitarie siano realmente regressive. L’articolo 2 della Costituzione, e cito solo questo sebbene vi siano tante norme di primo rango da citare, riconosce i diritti fondamentali dell’uomo. Questo riconoscimento richiede a sua volta l’adempimento dei doveri di solidarietà anche sociale, doveri inderogabili, e quindi l’obbligo a non ignorare le istanze del malato e dei suoi diritti.
Pensiamo dunque a quanto siamo in ritardo, a quanto avremmo potuto fare come infermieri, e non abbiamo fatto, per colmare vuoti operativi di garantismo dei diritti vigenti.
Avremmo potuto rendere conto sulle conoscenze acquisite in merito ai vissuti dei malati durante l’assistenza compassionevole; avremmo potuto offrire report di indagini di ricerca qualitativa sui vissuti di malattia, o report su narrazioni ascoltate e categorizzate; avremmo potuto con quelle ricerche fare appelli intellettuali sulla dissonanza cognitiva ed organizzativa esistente fra i modelli esplicativi di salute e di malattia dei malati curati e le nostre organizzazioni. Avremmo potuto denunciare prima, di più e meglio, carenze organizzative, organiche o di competenze, acquisibili mediante opportune valutazioni di bisogno formativo.
Tutto il mondo fuori cambia e noi siamo ancora qui, fermi, come se il mondo non esistesse e come se il nostro mondo interiore e quello del malato non soffrissero per questa staticità, silenzio ed inefficacia.
L’infermiere usava conoscere il malato in modo diverso dal medico, avendo anche altri scopi rispetto a quelli medici, oggi non più. Perché?
L’Infermiere deve tornare a descrivere, oggi anche in forme intellettuali, il comportamento dell’uomo malato ed il contesto in cui vive; deve iniziare ad usare un linguaggio che gli permetta di rappresentare figure e situazioni come appaiono nella realtà. L’infermiere ha il dovere di tornare ad essere severamente realista enunciando “l’immagine manifesta” (Sellars, a cura di C.Marletti, 2013), finale ed intermedia del malato, con il suo patrimonio di intenzioni, credenze, significati. Gli infermieri devono far sapere al mondo esterno come i malati ancora oggi muoiono in certi ospedali, nonostante la legge 38/2010.
Per essere propositivi dico che una buona idea per far cambiare le cose - nelle cose anche la relazione con il malato - potrebbe essere quella di organizzare la funzione di accoglienza dentro la cornice di ospitalità. Questa è una idea che ci permetterebbe di alzare il grado di relazionalità del sistema dei servizi, perché “ricevere un cittadino malato come un cliente è diverso che accoglierlo come un ospite” (Cavicchi, 2010). “Gli infermieri dovrebbero emancipare il pensiero dell’ accoglienza dalla sua banalizzazione umanizzante e organizzare dei “metaservizi per l’accoglienza ospitale, a basso costo ed a alta funzionalità dove agire competenze di sanità pubblica e di tipo transculturale, trasversali a tutti gli altri servizi” ( M.Gostinelli, 2010).
Questa sarebbe la vera sfida per l’infermieristica perché l’attuale prassi entrerebbe in contraddizione con il sistema interno che accoglie un genere di malato considerato, in termini di modernità, come persona capace di relazioni e portatore di una sua complessità e poi curato invece come sola sostanza vivente e portatore della sola complessità oggettiva, quella della malattia. Gli infermieri potrebbero cosi, con un’innocente idea, autorevolmente, operare una competenza relazionale specifica fin dalla fase preliminare (prima che il malato si ammali), nella fase liminare, all’’ingresso del malato in ospedale, nella clinica osservazionale e nella fase post liminare (dimissione, morte ), dell’intero processo di cura”. Niente del malato verrebbe perduto in termini di “conoscenza altra” che verrebbe cosi consegnata al medico per una clinica più relazionale.
La clausola di invarianza finanziaria nell’art 7 della legge certamente ci lascia a lungo in espirazione, toccherà anche a noi infermieri dimostrare che anche con poco più di quanto abbiamo ora si possono fare molte altre cose per rendere i servizi, tutti ,e non solo quelli dedicati al fine vita, più relazionali e meno impersonali.
Marcella Gostinelli
Infermiera
Esperta in Sanità pubblica
Master in assistenza transculturale
23 febbraio 2018
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