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Recovery Plan: tra ipercritici ed entusiasti è possibile una terza via?

di Claudio Maria Maffei

05 MAG - Gentile Direttore,
il Recovery Plan riceve molte più critiche che consensi (almeno in queste pagine), critiche in molti casi condivisibili. D’altra parte politici e alcuni grand commis di Stato nei salotti televisivi vendono il Recovery Plan come frutto maturo di un percorso che ha coinvolto tecnici e politici finalmente in grado di elaborare un progetto in grado di ridare slancio al Paese, sanità compresa.
 
Mi è capitato nelle ultime sere di sentire alcuni di questi importanti personaggi parlare con grande tranquillità della possibilità di risolvere in questa “nuova” stagione i problemi dell’Italsider di Taranto e dell’Alitalia. Figuriamoci se non si possono risolvere  i problemi della nostra sanità che grazie ai suoi professionisti è comunque riuscita in qualche modo a far fronte alla pandemia e a dare una accelerazione al programma vaccinale. Trovo queste posizioni semplicistiche e rassicuranti persino un po’ irritanti.
 
Il PNRR è “fatto” male sotto tanti aspetti ed ha alcuni enormi punti di debolezza, come ad esempio nella scarsa chiarezza (almeno ai miei occhi) su come a fronte degli investimenti strutturali si possano far corrispondere investimenti sulle risorse umane. Tanto più che come è stato segnalato qui è previsto al momento un ritorno in un paio di anni ad un rapporto spesa pubblica per la sanità/PIL quasi al livello pre-Covid.
 
Mi chiedo però se un atteggiamento solo critico sia utile rispetto all’obiettivo di acquisire le risorse indispensabili per la qualificazione del nostro SSN nei tempi previsti. Continuo ad essere convinto che si possa  leggere il PNRR come uno strumento utile  se adattato in corso d’opera. Faccio l’esempio delle Case della Comunità e degli Ospedali di Comunità.
 
Il PNRR fornisce indicazioni tali da farle considerare un pericolo dal dott. Scotti Segretario Nazionale della FIMMG che attribuisce alle Case della Comunità il rischio di allontanare la sanità dai cittadini. Ha buon gioco nel farlo  visto che assurdamente il Recovery Plan dà un  numero a queste Case: 1288. Che non so sa da dove sia originato, ma che  certo fa riflettere sia sulla sua  rigidità che sulla sua “sensatezza”.
 
E quindi il dott. Scotti fa due conti e stima il bacino di utenza medio di queste non compatibile con quelle cure primarie di  prossimità che il Recovery Plan mette al centro della Mission 6 sulla salute. Nella sola Emilia-Romagna le case della salute (che sono in pratica gli equivalenti funzionali delle case della comunità del Recovery Plan) erano nel 2019 120 dalle  42 che erano nel 2011.
 
Solo che poi i critici si fanno prendere la mano e come il prof. Jorio arrivano a sostenere che le Case della Salute “hanno registrato ovunque esiti pressoché fallimentari e certamente non esaltanti in termini di assistenza concretamente erogata.”
 
 Invito tutti noi a rileggere la già citata esperienza della Regione Emilia-Romagnache veniva qui su Qs così presentata: “Meno accessi in codice bianco al Pronto Soccorso e meno ricoveri ospedalieri per le patologie trattabili in ambulatorio. Più assistenza domiciliare al paziente, sia infermieristica che medica. Le Case della salute fanno bene ai cittadini e al sistema sanitario regionale.”
 
Queste invece le conclusioni relativamente ai professionisti coinvolti: “Sono circa 1.900 i medici di Medicina generale che operano nel territorio di riferimento delle Case della Salute, di cui oltre 500 a tempo pieno all’interno delle strutture. Per quanto riguarda i Pediatri di libera scelta, sono 260 a lavorare nel territorio di riferimento, di cui 90 all’interno delle Case della Salute. Queste strutture, inoltre, possono contare su circa 430 infermieri, 190 ostetriche, 60 assistenti sociali, a cui vanno aggiunti molti altri professionisti, come tecnici della riabilitazione, amministrativi, personale sanitario non medico e altro personale sanitario e tecnico.”
 
E’ da esperienze come questa e da quella di altre Regioni che  bisogna ripartire perché quello delle Case della Salute/Comunità con i necessari adattamenti è l’unico possibile modello di approccio approccio alla cronicità, cronicità  che è  “il problema” del territorio oltre ovviamente alla prevenzione. C’è margine, a mio parere, per conciliare questo modello con le criticità poste dal dott. Scotti.
 
Come c’è margine per adattare il modello dell’Ospedale di Comunità a prevalente gestione infermieristica previsto dal Recovery Plan (giustamente apprezzato dalla Presidente della FNOPI Barbara Mangiagalli) alle critiche pure mosse dal dott. Scotti che lamenta che “Non è chiarito ruolo dei medici negli ospedali di comunità che sembrano essere a gestione infermieristica. Ma se c’è problema di area medica come si fa? Ci dovrà essere un medico reperibile o disponibile e su questo il Recovery non fa menzione.”
 
Ha ragione il dott. Scotti: sicuramente c’è l’esigenza di prevedere in almeno alcuni Ospedali di Comunità una funzione di post-acuzie in regime di ricovero ospedaliero come pure si dovrà prevedere una attività di risposta ad alcune urgenze di minore complessità.
 
In sintesi, per rimanere ai due temi toccati delle Case della Comunità e degli Ospedali di Comunità  occorre al più presto avviare i lavori per una revisione selettiva del DM 70/2015 contestuale alla approvazione  di quella sorta di DM 70 dei servizi territoriali previsto nel Recovery Plan. E così andrebbe fatto per tutte le criticità che il PNRR determina o non prende in considerazione: fare gli adattamenti e le integrazioni che servono  in un lavoro paziente e continuo. Perché, mi chiedo, c’è un’altra possibile scelta?
 
Claudio Maria Maffei
Coordinatore scientifico Chronic-On

05 maggio 2021
© Riproduzione riservata

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