Telemedicina? Anche no
di Pietro Cavalli
19 APR -
Gentile Direttore,
assieme ad un interessante articolo sulla faradizzazione nel trattamento dell’alcolismo, il numero di
Lancet del 29 novembre 1879 riporta quello che è probabilmente il primo caso al mondo di “telemedicina”. Si trattava di una consultazione medica a distanza effettuata per mezzo del telefono, dispositivo all’avanguardia della tecnologia dell’epoca e brevettato da Bell solo tre anni prima.
Non siamo a conoscenza degli sviluppi e dei risultati relativi a questa prima ed importante applicazione della “ telemedicina” (in questo caso, trattandosi di medicina telefonica, il termine appare forse più intuitivo rispetto ad oggi), possibilmente legata alla diffusione del nuovo apparecchio di comunicazione a distanza. Sappiamo invece che, almeno dall’introduzione del telefono duplex da parte della Stipel (poi confluita nella SIP), la pratica della medicina a distanza non sembra avere conseguito clamorosi successi, almeno nel nostro Paese.
Diverso è il caso di situazioni geografiche differenti e caratterizzate da grandi spazi con nuclei di popolazioni isolate (Australia, Brasile, Argentina, Africa…) che invece, pur contando sulla indispensabile consultazione medica da remoto, vedono comunque garantita la presenza al domicilio da parte di medici e personale sanitario, talora attrezzati con mezzi aerei per garantire l’assistenza al domicilio del paziente (es. Flying Doctors) in un’organizzazione sanitaria pensata, sperimentata, condivisa e comunque necessaria.
In zone invece ad elevata densità abitativa e con una corrispondente ed estesa diffusione di professionisti sanitari (difficile, in certi contesti, non imbattersi in almeno un medico e/o un infermiere su ogni pianerottolo di condominio) e quindi una capillare diffusione sul territorio di studi medici, ospedali, RSA, cliniche, ambulatori, conoscenti ed amici esperti di assistenza sanitaria, l’esigenza della medicina da remoto è stata forse molto meno sentita dalla popolazione.
Stiamo vivendo tuttavia momenti particolari, ancora immersi in una pandemia dove i contatti interpersonali vengono scoraggiati e nella quale le gravi limitazioni sociali imposte dalla contingenza sembrano risolvibili solamente con gli interventi a distanza. L’immaginario e forse l’interesse specifico di qualcuno vede allora il ricorso alla medicina da remoto o “telemedicina” come la panacea di tutti i problemi , grazie all’abolizione del contatto fisico con il paziente ed all’efficacia delle nuove tecnologie informatiche realizzabile con un affollamento di elettrodi, webcam, connessioni wifi e banda larga al domicilio ed al capezzale dei nostri anziani.
Un pensiero preoccupante e che nei fatti si dimostra assai debole, quasi come proporre di ricorrere alla didattica a distanza (“telescuola”) in modo definitivo: non solo per superare gli attuali momenti critici dell’universo scolastico, ma per risolverne le enormi complessità ed i numerosi problemi.
In realtà, così come per molti aspetti del nostro vivere sociale, per affrontare le grandi criticità della medicina attuale occorrerebbero un approccio un po’ più articolato e magari un progetto complessivo. Anche perché, ritornando alla pandemia, laddove il contatto fisico tra il medico ed il paziente è stato mantenuto, i risultati degli interventi sanitari tradizionali sembrano avere conseguito eccellenti risultati.
Non ci stiamo riferendo solamente a Wuhan ed alle “USCA cinesi”, ma anche ad esperienze italiane, la più nota delle quali è probabilmente quella di Luigi Cavanna, medico a Piacenza. Un approccio clinico condiviso da numerosi altri medici del territorio che, pur utilizzando le tecnologie oggi disponibili, esercitano la loro professione ripescando dalla memoria e mettendo in pratica un tipo di medicina che, secondo i proclami della “telemedicina”, dovrebbe essere destinata a scomparire.
Eppure la presenza fisica del medico al domicilio del malato si è tradotta in risultati lusinghieri: pochissimi pazienti ricoverati in ospedale, praticamente nessun decesso. Potrebbe allora risultare molto interessante confrontare i risultati di una medicina esercitata da un medico al letto del malato con quella delegata alla ICT (Information and Communication Technology), perlomeno riguardante i pazienti covid.
Anche perché, per chi se lo fosse dimenticato, la medicina oggi è basata su prove di efficacia, non su dichiarazioni senza contradditorio.
E’ pur vero che ormai la medicina non è più una forma particolare di conoscenza e quindi la sanno fare tutti: ingegneri, cattedratici di materie improponibili, politici, giornalisti, vicini di casa, chat e Whatsapp.
Anche di “telemedicina” ne parlano tutti e, come sempre, restano del tutto esclusi dal discorso i medici, quelli che con la medicina ed i pazienti si debbono confrontare quotidianamente. Così come in ogni altro aspetto dell’organizzazione dell’assistenza sanitaria, del resto. Quo usque tandem?
A fronte degli innegabili vantaggi dello sviluppo della “telemedicina” quali la riduzione delle le emissioni di gas serra, il recupero di numerosi stalli di parcheggio, il crollo dei tamponamenti automobilistici ed altri incidenti stradali, la valorizzazione di video-streaming e video chiamate, la possibilità di condivisione di momenti unici nella vita di una persona, la garanzia di facili guadagni impliciti nell’accusa di malpractice sanitaria dopo rigorosa revisione della registrazione della prestazione, il ri-fiorire di software house regionali, l’incremento di provvigioni bancarie su pagamenti online, il possibile risparmio sulla spese sanitarie regionali da destinare ad altri e forse meno nobili obiettivi, i dati sensibili sempre più accessibili, resta però una questione di fondo: serve o non serve davvero la telemedicina?
Ci perdoneranno gli ingegneri, i politici, gli economisti, i vicini di casa ed i seguaci delle chat su Whatsapp e Facebook, ma vorremmo informarli che in genere qualsiasi nuova proposta in campo medico è soggetta a quella che si chiama sperimentazione e che vede un confronto tra la pratica corrente e qualsiasi nuova proposta, sia essa terapeutica che assistenziale che organizzativa.
Vorremmo sommessamente comunicare che, a differenza di quello che la gente si immagina, ogni modifica, ogni suggerimento, ogni deviazione dalla normale pratica medica ed assistenziale deve (o almeno dovrebbe) essere sottoposta a verifica prima di pensare a modificare il paradigma corrente. La medicina non è schizzinosa e, se una nuova proposta ne migliora i risultati , allora quella proposta diventa, magari non subito, normale pratica medica.
Tuttavia il punto centrale e non negoziabile è proprio la verifica dei risultati di una sperimentazione e la loro successiva discussione.
Giova inoltre ricordare che ogni approccio sperimentale prevede un disegno/progetto specifico, l’individuazione di un campione, l’impostazione basata su criteri stringenti e lo svolgimento da effettuare non già sulla totalità della popolazione, bensì solamente su di una sua parte, definita rappresentativa.
E’ pertanto sbagliato e potenzialmente rischioso pensare di apportare qualsiasi modifica alla pratica clinica corrente senza avere prima valutato gli effetti, le conseguenze, l’accettabilità, i possibili rischi di un nuovo modello, non solo organizzativo.
Mi perdonino i medici per queste banali considerazioni,
je suis dèsolè direbbe un mio collega d’Oltralpe, ma forse è necessario ricordare a chi parla di medicina senza saperne nulla che
e che . A maggior ragione quando non si tratta solo di filosofia, ma di una materia, la medicina, che ha a che fare con la nostra salute.
Invece ormai la medicina sembra diventata un argomento da Bar dello Sportivo e anche le attuali proposte relative alla “telemedicina” sembrano andare in questa direzione. Un po’ come se si decidesse di mettersi a comporre un romanzo senza aver prima imparato a leggere e a scrivere, studiato la grammatica, l’ortografia e la sintassi e magari aver letto qualcosa di più della pur nobilissima Gazzetta dello Sport.
Ma, al di là di questa amarissime considerazioni, esiste ad oggi una verifica dei risultati ottenibili dalla “telemedicina” (termine tanto generico quanto abusato)?
A fronte di dichiarazioni solenni quanto impegnative relative alla prossima introduzione della “telemedicina” nella pratica medica e nell’assistenza sanitaria, giova sottolineare che tali affermazioni risultano al momento del tutto prive di alcuna verifica sperimentale che ne possa sostenere la validità.
Esistono invece nella letteratura medico-scientifica almeno 10 revisioni sistematiche della Cochrane Library che aiutano a comprendere gli effetti reali della “telemedicina” utilizzata in varie forme di assistenza sanitaria (healthcare). I risultati della Cochrane Library concordano con molti altri dati di letteratura e confermano che non esiste, al momento, alcuna evidenza che possa sostenere un chiaro effetto positivo della telemedicina. Non esiste inoltre, a tutt’oggi, alcuna valutazione di costo-beneficio della telemedicina e neppure dei suoi effetti sull’organizzazione sanitaria né su possibili conseguenze favorevoli/sfavorevoli sulla salute dei pazienti. Manca infine qualsiasi evidenza su quali tipi di “telemedicina” siano efficaci, su quali pazienti ed in quali contesti.
Pertanto, se da un lato saremmo di fronte ad una situazione ideale per sottoporre alcuni aspetti della “telemedicina” a verifica sperimentale, dall’altro invece dovremmo aver imparato quantomeno a diffidare su una “medicina” basata non sull’evidenza, bensì sulle affermazioni e sui questionari di rilevazione.
Pietro Cavalli
Medico
19 aprile 2021
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