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Se il privato in sanità fa un po’ come gli pare

di Claudio Maria Maffei

24 SET - Gentile Direttore,
esiste in Italia una evidente differenza tra le regole di funzionamento degli ospedali pubblici e quelle delle Case di Cura Private “contrattualizzate”.  Differenza largamente a favore di queste ultime. Il risultato di questa differenza non favorisce né la qualità del servizio, né l’equità del trattamento dei professionisti, ma favorisce quasi solo l’imprenditoria privata ed alcune tipologie di professionisti.
 
Per cui queste regole vanno riviste prima possibile, per evitare che cresca una concorrenza tra pubblico e privato in cui quest’ultimo trova troppi elementi favorenti a discapito della resa complessiva del servizio.
 
Due premesse: a) le considerazioni che seguono valgono per la grande maggioranza delle Regioni e delle strutture private ed esistono pertanto eccezioni di cui tener conto; b) il privato contrattualizzato fornisce un contributo importante ed utile, ma insufficientemente governato.
 
Vediamo adesso le differenze più importanti tra ospedalità pubblica e privata e le loro conseguenze.
 
Prima differenza: il trattamento economico del personale dipendente. I contratti della sanità privata sono vecchi e penalizzanti per i lavoratori. Su Qs compaiono spesso contributi al riguardo e a questi rimando, come quello recente di Fabio Fioranello.
 
Seconda differenza: il trattamento economico dei medici delle strutture private spesso (ripeto: spesso) è molto alto con una logica tutta orientata alla valorizzazione della produzione specie in area chirurgica, che peraltro è quella che di gran lunga “fattura” di più.
 
Moltissimi contratti con i medici sono di natura libero-professionale e prevedono retribuzioni calcolate sulla percentuale del DRG e comunque basate sul valore della produzione. I rischi derivanti da questa politica sono evidentissimi specie se vengono letti in modo collegato alle altre differenze che descriverò tra poco.
 
Questa politica retributiva spinge ad un aumento della produzione e del suo valore con tutti i rischi di inappropriatezza conseguenti (da quelli amministrativi legati alla sovracodifica a quelli di natura clinica come la interpretazione “ampia” delle indicazioni per una certa condizione, vedi l’esempio della patologia prostatica benigna).
 
Questa politica determina spesso repentini e non concordati cambiamenti nel menù delle prestazioni chirurgiche di molte strutture private che aumentano o riducono le linee di produzione con una stagionalità legata alla loro convenienza.
 
Alcuni esempi clamorosi: la chirurgia del piede, che  ha perso di appeal col passaggio al regime diurno (si tenga presente che l’Abruzzo nel 2016 in mobilità passiva ha pagato per questo DRG 2,8 milioni di euro visto l’utilizzo del regime di ricovero ordinario da parte delle strutture eroganti), le iniezioni intravitreali che per anni sono state fatte in regime di ricovero con fatturati inquietanti, la cataratta che oggi ha perso pure lei di appeal per via del trasferimento a livello ambulatoriale, ecc.
 
Ha senso questa volubilità autodeterminata dell’offerta dal punto di vista della sanità pubblica? Poco! Ma se si pagano  i chirurghi a percentuale sulla prestazione che cosa rischia di venirne fuori? Resta inteso che parliamo di rischi e solo di una quota della produzione totale delle Case di Cura, ma questi fenomeni rimangono comunque potenzialmente distorsivi.
 
Terza differenza: le Case di Cura non fanno quasi mai urgenze e scelgono la attività programmata che più conviene loro e su quella investono (vedi sopra e vedi sotto) ottimizzando i costi di produzione e il rapporto costi/ricavi (ma in una ottica di impresa e non di sanità pubblica).
 
Quarta differenza: le Case di Cura grazie ai due fattori precedentemente descritti (trattamenti economici alti  e autoreferenzialità nella scelta della produzione) sono molto attrattive per  i medici pubblici che trovano opportunità che il pubblico loro nega complici a volte le Direzioni Aziendali, diciamo così, poco “accattivanti”. Lo sono sia per i medici dipendenti che scelgono sempre più spesso di dimettersi per andare nel privato che per i medici ex dipendenti pensionati che il pubblico non può (è peccato, Covid-19 a parte) “richiamare”.
 
Quinta differenza: gli ospedali pubblici in virtù del DM 70 del 2015  possono funzionare solo se di dimensioni consistenti e se organizzati in modo da garantire sia l’urgenza che la risposta multidisciplinare. Le Case di Cura no: possono operare, grazie al meccanismo/escamotage  delle reti d’impresa per la comprensione della cui natura si rimanda qui,  anche se piccole e di fatto pauci-specialistiche.
 
Ognuna di queste differenze può essere ridimensionata introducendo regole nuove, sia a livello di autorizzazione e accreditamento, che di accordi regionali e aziendali che mettano vincoli e tetti sia alla produzione che alla selezione e  remunerazione dei professionisti. Gli effetti distorsivi delle non-regole di oggi sono evidenti e non possono essere solo controllati ex-post. Servono regole diverse che riportino un po’ di equilibrio in questa parte del sistema.
 
Niente di clamoroso, ma di buon senso sì. La (ri)scoperta della centralità del pubblico deve essere non ideologica, ma pragmatica e declinata in nuove regole rispettose, ma non timorose, del ruolo del privato.
 
Che, ricordiamoci, è sempre “governativo”, almeno finché gli lasci gli spazi di manovra che gli servono. Gli si possono lasciare, ma un po’ più stretti. Ci staranno benissimo lo stesso, ne sono sicuro.
 
Claudio Maria Maffei
Coordinatore scientifico di Chronic-on


24 settembre 2020
© Riproduzione riservata

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