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Alcune perplessità sulla scuola di specializzazione in Cure palliative

di Marco Ceresa

13 LUG - Gentile Direttore,
la creazione della Scuola di Specializzazione in Cure Palliative (CP) sembra ormai cosa fatta con l'approvazione pochi giorni fa, di un “emendamento al Decreto Rilancio”, ma credo importante proporre alcune riflessioni. Va precisato che questa evoluzione non era fra i dettami della legge 38/2010, che prevedeva esplicitamente ed ha poi istituito, i Master di 2° livello in CP come formazione specialistica.  
 
Non ci si può fermare agli entusiasmi di una novità che appare buona, essendo buona cosa ogni attenzione posta dal mondo politico alla sofferenza e al dolore, sintomi che meritano considerazione e trattamenti adeguati in ogni fase di malattia e non solo alla sua fine.
 
Anche nella tragicità del COVID, non si trattava di poter operare meglio solo per coloro che purtroppo non ce l'hanno fatta, ma anche per tutti gli altri, coinvolti in un percorso di cura spesso doloroso che avrebbe potuto essere più alleviato se vi fosse stata presenza adeguata di CP ospedaliere.
 
Credo che (per evitare il rischio di creare cattedrali nel deserto) sarà doveroso attuare una adeguata previsione del fabbisogno di CP e della capacità formativa numerica della creanda scuola di specialità, poiché il percorso di specializzazione è lungo e numericamente limitato.
Proprio l'emergenza COVID ha dimostrato la necessità di programmazione sanitaria oculata ed anche di flessibilità nella professione medica in aderenza alle esigenze emergenti.
  
Io mi domando e con me molti cultori delle CP,  
se possiamo essere davvero sicuri che questa scelta, nel caso di stretta univocità del percorso formativo specialistico, aumenterà adeguatamente il numero dei palliativisti (vista la carenza di medici, stimata nei prossimi anni in oltre 40000 unità),
oppure invece possa rischiare di diminuirlo, essendo per molti il desiderio di operare in CP una decisione della maturità professionale, che potrebbe non risultare più possibile.
 
Il dedicarsi alle CP deve essere scelta libera, non può rischiare magari di divenire ripiego per un neo-laureato solo perché non trova posto nella specialità desiderata; scelte forzate in un ambito così delicato rischierebbero di non produrre buoni palliativisti e di provocare gravi problemi di burn-out di medici che poi non potrebbero comunque cambiare settore essendo di fatto ormai univoca la specialità posseduta (anche la SIAARTI menzione il rischio di “compassion fatigue” con necessità di rotazione dei ruoli che in questo caso potrebbe essere impossibile).
 
Per evitare la possibile futura carenza di medici operanti in CP, potrebbe essere auspicabile che, anche dopo l'eventuale istituzione della nuova specializzazione, venisse mantenuta la possibilità di divenire palliativisti per medici di specialità diverse, non solo per equipollenze teoriche, ma mantenendo in atto e magari rendendolo professionalizzante il MASTER di Alta Formazione e Qualificazione in CP (formazione analoga a quella di avanzati paesi europei, es Germania) istituito per DM in applicazione della legge 38, quindi nel rispetto del percorso normativo sinora seguito e dei medici ottemperanti ad esso, i quali da molti anni operano sul campo avendo creato in concreto le CP in Italia.
 
Le CP sono un sapere condiviso generato da specialità diverse (anche chirurgiche), come dimostrato dalla nota eterogeneità dei medici divenuti palliativisti avendo ad un certo punto deciso di dedicarsi ad assistere sino alla fine i propri malati.
 
Occorrerebbe favorire tutti i percorsi formativi idonei per ottenere un adeguato numero palliativisti (Lombardia stimava carenza del 30% ed il dato italiano sarà peggiore), infatti sono già stati necessari due provvedimenti normativi per sanare la posizione di medici operanti da oltre 3 anni in CP (27.12.13 e 28.12.18).
 
Credo che fra le priorità per lo sviluppo delle CP vi sarebbe anzitutto l’applicazione degli atti normativi già in essere, in primis i LEA per garantire davvero ubiquitariamente la cura della sofferenza, in ambito territoriale (art 21-23 oltre a CP domiciliari, visite domiciliari per pz resi disabili dal soffrire con difficoltà a giungere in ambulatorio), residenziale (art 31 Hospice, ma anche consulenze nelle RSA) ed in ogni ospedale (art 38 comma 2, necessitante di decreti applicativi che garantiscano CP e Terapia del Dolore ospedaliere largamente carenti).
 
Va evidenziato che l’avanzare delle cure per le gravi malattie (es in ambito oncologico), ha condotto a cronicizzazioni anche caratterizzate da lunghe sofferenze.
 
Ciò deve portare a CP più estese, applicate precocemente, con sempre maggiore sinergia (od unità di servizi per economia di scala), con la Terapia del Dolore, per garantire davvero, anche con tecniche invasive se indicate, la miglior qualità di vita in tutto il percorso di cura che può protrarsi per molti anni.
 
L’auspicio è che vengano ascoltate le proposte e le esigenze di chi opera sul campo.
 
Marco Ceresa  
Medico operante in Cure Palliative e Terapia del Dolore 

13 luglio 2020
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