Opportunità e rischi delle strutture sanitarie temporanee per il Covid
di Claudio Maffei
26 MAG -
Gentile Direttore,
è appena uscita una importante riflessione sull’uso di quelle che in Italia vengono chiamate strutture sanitarie temporanee, è questo almeno il termine usato anche nel
Decreto Cura Italia di aprile. La riflessione è comparsa nel
numero del 22 maggio di NEJM Catalyst e riguarda l’utilizzo fatto in questi mesi delle strutture sanitarie alternative (Alternative Care Sites, ACS) negli Stati Uniti e nel Regno Unito.
Dal momento che queste strutture sono state ampiamente utilizzate anche in Italia ed alcune stanno addirittura avviando adesso la loro attività (vedi il Fiera Hospital di Civitanova Marche con 84 posti letto equamente divisi tra intensivi e semi-intensivi) vale la pena di tenere conto di quanto emerge dall’analisi del NEJM Catalyst dove vengono descritte alcune lezioni che vengono dalle prime esperienze di ACS. Sulla base di queste vengono formulate alcune raccomandazioni che a mio parere valgono perfettamente anche per la realtà italiana:
1. Mettere in rapporto i bisogni locali con le potenzialità e le capacità di queste strutture. La cooperazione tra le istituzioni e un processo decisionale con una prospettiva ad ampio spettro sono prerequisiti essenziali per scegliere una struttura temporanea (o alternativa che dir si voglia) in modo da essere sicuri che essa sia coerente con i bisogni della comunità e da riportare il sistema sanitario al normale funzionamento nel momento in cui la struttura non servisse più.
2. Creare una relazione tra la “nuova” struttura e la rete strutturale degli ospedali. Gli specialisti in terapia intensiva debbono essere sicuri di poter trasferire in sicurezza i pazienti alla ACS e di trovare qui assistenza di alta qualità. Gli operatori candidati ad andarci a lavorare dovrebbero essere sicuri di trovare a loro volta nella struttura le condizioni per lavorare in sicurezza.
3. Definire esplicitamente la missione della struttura ed i criteri di ammissione. La chiarezza della missione va bilanciata con la flessibilità necessaria ad adattarsi alle nuove situazioni epidemiologiche e alle nuove conoscenze sulla malattia.
4. Fare attenzione al (e monitorare il) clima politico locale. Strutture così sono una sorta di assicurazione. Una struttura vuota, pronta per accogliere i pazienti e ben dotata di personale sono un segno di adeguata preparazione alla emergenza e un viatico per gli altri interventi di contenimento della malattia. La consapevolezza di poter contare su una struttura “di riserva” può aiutare gli ospedali a incrementare la loro attività sicuri della possibilità di un “piano B”. La collocazione di questa struttura nella rete sin dall’inizio della sua pianificazione può aiutare a non doverlo considerare poi una cattedrale nel deserto.
5. Gestire il “momento del passaggio del testimone”. Il team che crea la struttura e quello che ci lavora di solito sono diversi. E’ fondamentale che ognuno dei due sappia quando la responsabilità si trasferisce dall’uno all’altro. Questo trasferimento può essere aiutato da un sistema di monitoraggio della performance attraverso un sistema di indicatori che monitori gli aspetti organizzativi e di qualità dell’assistenza.
6. Incorporare queste strutture nella pianificazione continua. Le strutture temporanee quando coerenti con i bisogni locali, realizzate in modo razionale e flessibile, e accettate in base al principio “meglio non usarle e averle che non averle e averne bisogno” possono essere una componente significativa del piano di risposta alle emergenze. Le organizzazioni dovrebbero se del caso avere sufficienti riserve di risorse per inserire le strutture temporanee nelle future emergenze.
Penso che sia il caso di fare analoghe valutazioni sulle esperienze fatte in Italia per evitare alcuni degli insuccessi che si sono registrati in questi mesi. Da ultimo riprendo la parte del documento sulle ACS centrate sulle terapie intensive. Ne viene fatta una critica esplicita perché non garantiscono la necessaria multidisciplinarietà, hanno costi elevati, richiedono equipes di personale altamente specializzato e abituato a lavorare assieme che è difficile da trovare e che non può essere tolto sguarnendole dalle terapie intensive già esistenti. Una volta si sarebbe detto: “come volevasi dimostrare”.
Claudio Maffei
Coordinatore scientifico di Chronic-on
26 maggio 2020
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