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Come evitare uno “tsunami” giudiziario post Covid

di Olindo Cazzolla

05 MAG - Gentile Direttore,
da settimane ci si sta arrovellando al fine di trovare una preventiva soluzione legale al problema delle responsabilità a carico delle strutture sanitarie e sociosanitarie, pubbliche e private, nonché degli esercenti le professioni sanitarie, tutti coinvolti nella pandemia.
 
Dobbiamo partire da un dato oggettivo: i deceduti sono stati medici, infermieri e pazienti. Pertanto i loro familiari hanno il sacrosanto diritto di veder accertate eventuali responsabilità, di ogni tipo, sulla base della Costituzione, più esattamente dell’ art. 24, comma 1, il quale prevede che  “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi” e dell’ art. 27, comma 1, il quale stabilisce che “La responsabilità penale è personale”.
 
Il rischio è che si assista a un’ondata di procedimenti penali, civili e amministrativi, nei confronti di ASL, Aziende Ospedaliere e medici, dagli esiti imprevedibili dal punto di vista economico.
 
Premesso che ai medici ed infermieri deceduti dovrebbe essere attribuito lo “status” di “vittime del dovere”, con la conseguente applicazione ai loro familiari dei benefici previsti, occorre precisare che per il “Coronavirus”, attualmente, non esistono raccomandazioni previste da linee guida definite e pubblicate, né buone pratiche clinico-assistenziali.
 
Senza avere alcuna velleità didattica, ritengo opportuno ricordare anche il significato di “colpa grave”: trattasi dell’errore inescusabile, ovvero della mancata applicazione delle cognizioni generali e fondamentali attinenti alle professioni sanitarie.
 
Limitare la responsabilità degli esercenti le professioni sanitarie, invocando l’applicazione dell’art. 2236 c.c. (Responsabilità del prestatore d’opera), a mio avviso è doveroso; infatti il suo dettame, ovvero “Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’ opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”, ben si attaglia al “Coronavirus”, ancora oggetto di studio e di contrastanti trattamenti terapeutici.
 
Per le strutture sanitarie e sociosanitarie, pubbliche e private, è più difficile sostenere la tesi di cui sopra, anche perché in molti casi si è assistito alla palese violazione del D.Lgs. n. 81/08 (Testo Unico sulla Salute e Sicurezza sul Lavoro ), più precisamente dell’art. 18 (Obblighi del datore di lavoro e del dirigente), comma 1, lett. D), che prescrive che  “Il datore di lavoro, che esercita le attività di cui all’ articolo 3, e i dirigenti, devono […] fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale […]”.
 
Non possiamo dimenticare che medici ed infermieri sono stati mandati allo sbaraglio senza mascherine, guanti, occhiali o visiere, camici monouso.
 
Onestamente trovare un punto di sintesi e di equilibrio è difficilissimo, anche perché corre l’obbligo di rammentare quanto previsto dalla Legge 8 marzo 2017 n. 24 (cosiddetta Legge Gelli-Bianco), che all’ art. 7  (Responsabilità civile della struttura e dell’ esercente la professione sanitaria), comma 5, statuisce che “Le disposizioni del presente articolo costituiscono norme imperative ai sensi del codice civile”; ciò significa che le disposizioni dell’ art. 7 costituiscono norme inderogabili ai sensi del codice civile, ovvero devono sempre essere osservate e sono poste a tutela di un interesse generale.
 
L’unica soluzione concretamente attuabile risiede nell’istituzione – da parte dello Stato – di un apposito Fondo, destinato a risarcire i danni lamentati dai familiari dei deceduti e da coloro che hanno contratto il virus, altrimenti temo che ci sarà un vero e proprio “tsunami giudiziario” che travolgerà tutto e tutti.
  
Avv. Olindo Cazzolla
Penalista, consulente legale della Società Italiana Infermieri dell' Emergenza Territoriale (S.I.I.E.T)


05 maggio 2020
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