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Non bastano soldi e macchine a fare l’“industria” sanitaria

di Domenico Francesco Donato

14 APR - Gentile Direttore,
come sempre nella storia di un Paese le grandi crisi sono illuminanti, sul piano umano, perché hanno la capacità di mostrare il volto peggiore e migliore di un popolo, delle donne e degli uomini che lo compongono, sul piano istituzionale, perché rivelano la forza e le debolezze dei suoi apparati, sul piano economico, perché rivelano quanto funziona e ciò che deve essere cambiato radicalmente. Insomma, mutuando il gergo bancario, potremmo dire che le grandi crisi svolgono la funzione di un severissimo stress-test del Sistema nel suo complesso.

Limitando la nostra attenzione al comparto della sanità italiana, in mezzo a molte incertezze, parecchi imbarazzi e tante indecisioni, due cose sicuramente il COVID-19 ci ha mostrato: 1) la sanità, in un Paese che vuole essere all’avanguardia, anche economicamente, è un settore strategico da finanziare massivamente e che non si può impoverire semplicisticamente con lo spirito del ragioniere ottuso (con tutto il rispetto per chi fa di conto); 2) la sanità italiana, ahinoi colpevolmente povera di finanze, è ricca, ricchissima di “capitale umano” grazie alle donne ed agli uomini che ne formano i ranghi.

Volgendosi indietro ai due mesi appena trascorsi, alla deficienza di mezzi, persino in quelle regioni che ritenevamo un faro per l’assistenza sanitaria, all’assenza di direttive chiare, ai ritardi cronici che lasciavano e lasciano tutti i nostri “decision maker” almeno due passi indietro rispetto alla diffusione del contagio, ha fatto da contraltare il coraggio, la generosità, l’abnegazione, il senso del dovere e la professionalità di medici, infermieri e sanitari tutti del Servizio Sanitario Nazionale che, a scapito della loro salute personale e della serenità delle proprie famiglie, hanno sopperito a tutti i gap che il COVID-19, con spietata indifferenza (l’unico pregio del/i virus è che sono immuni dalla piaga del “politicamente corretto”), ci ha sbattuto in faccia.

Allora, non bastano soldi e macchine a fare l’“industria” sanitaria, il capitale umano, rectius le risorse umane, sono il vero momento essenziale e non rinunciabile. Donne e uomini con il camice sono il quid pluris, il valore aggiunto, il motore stesso della sanità italiana, non solo per lo spirito di sacrificio dimostrato in queste drammatiche ore, ma anche e soprattutto, per il grande patrimonio di conoscenza che ogni giorno mettono a disposizione delle cittadine e dei cittadini.

Al pari di grandi gruppi industriali di cui oggi si vogliono tutelare gli assetti nazionali con norme che li schermino da scalate ostili facilitate dal crollo dei valori di borsa, anche medici e sanitari tutti dovrebbero rappresentare per noi tutti una grande risorse strategica da proteggere come un fondamentale interesse del Paese: una vera e propria “golden power” per i nostri operatori sanitari.

Si badi, non è un riferimento alle discutibili iniziative legislative delle ultime ore volte ad esentare da responsabilità, strutture, funzionari amministrativi e manager del Servizio Sanitario pubblico da probabili profluvi di cause dovute alle condizioni di manifesto pericolo in cui, spesso, hanno dovuto lavorare gli operatori durante questa emergenza. Trattasi, con tutta evidenza, della solita iniziativa mirata a proteggere la “cassa” più che di una lungimirante misura per rafforzare la Sanità nel suo insieme.

Se vogliamo trarre insegnamento e vantaggio dalla drammatica crisi in corso, non possiamo considerare solo le contingenze, ma dobbiamo ragionare alzando lo sguardo su orizzonti più ampi e dotati di profondità. E’ ora di valutare seriamente la possibilità che medici ed infermieri del Servizio Sanitario Nazionale vengano protetti al pari di altri “servitori” dello Stato per i quali, riconosciutane la centralità della funzione, è lo Stato stesso che si assume la responsabilità di rispondere per il caso di loro errori.

L’obiettivo - se è vero come è vero che i “lavoratori” della “Sanità” sono una grande risorse strategica del Paese - non può essere solo quello di impedirgli di avviare cause contro le Aziende per le molte, palesi, violazioni delle norme poste a tutela della sicurezza e della salute del lavoratore, bensì, quello di rendere attrattive le loro professioni e soddisfacenti le condizioni per poterle esercitare.

Questo: 1) per non allontanare i giovani dagli studi prodromici e, poi, lamentarci della mancanza di personale in numero sufficiente al fabbisogno; 2) per non vedere brillanti professionisti “trasferire” il know how acquisito ad altri Paesi a scapito del proprio e, poi, lamentarci della “fuga dei cervelli”; 3) per non assistere allo sperpero di enormi risorse finanziarie in ragione dei costi della medicina preventiva”, o “difensiva“ che dir si voglia, e, poi, lamentarci del dissesto che costringe al taglio dei posti letto.

Quante mascherine, DPI, tamponi, postazioni e respiratori di terapie intensiva si sarebbero potuti avere senza gli 11,87 miliardi di euro spesi nel solo 2018 per la così detta medicina preventiva/difensiva?

Ed invece, quanto potrebbe spendere lo Stato italiano se, per ipotesi, si facesse carico, con tutte le accortezze ed i distinguo dettati dal caso concreto, anche solo delle cause civili contro i medici che, per inciso, nel 70% dei casi si chiudono con la reiezione delle domande del paziente?

Abbiamo il dovere, dinanzi alle decine di migliaia di morti di e da COVID-19, dinanzi alla generosità dimostrata da tutto il nostro comparto sanitario, dinanzi ai sacrifici che tutti affronteremo nel corso della recessione economica originata dalla pandemia, porci domande che abbiano un respiro ampio per avviare una seria, urgente e realistica riflessione sulle responsabilità ma, ancor di più, sulle soluzioni, o saremo stati colpevoli due volte: per i nostri errori e per non aver tratto insegnamento da essi.
 
Domenico Francesco Donato
Avvocato della Federazione CISL MEDICI


14 aprile 2020
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