Legge 180. Quaranta anni da festeggiare?
03 MAG -
Gentile Direttore,
sono già cominciati a circolare gli articoli e già si svolgono i primi convegni che celebrano i quaranta anni della legge 180. Una legge che fa del 1978 – oltre che l’anno della morte dell’onorevole Moro – anche l’anno di nascita di alcune leggi fondamentali per il nostro Paese come quella dell’istituzione del Servizio sanitario nazionale.
E’ innegabile che entrambe le leggi hanno determinato profondi cambiamenti nel nostro Paese e in quelli, numerosi, che ad esse si sono ispirati.
Tuttavia, in questa nostra riflessione, occorre fare dei distinguo che nascono da situazioni conosciute direttamente e non.
I risultati della legge 833/78 sono innegabili.
Il sistema universalistico di offerta di salute diffusa ha portato l’Italia in vetta alle statistiche mondiali per l’aumento dell’aspettativa di vita, per la riduzione drastica delle morti per parto, ecc. Quarant’anni di un sistema che - pure con differenze importanti tra Nord e Sud nella sua organizzazione e funzionamento - ha comunque una presenza evidente e conosciuta a tutti i cittadini sul territorio. Non solo, pur nella differenza di nome/organizzazione che negli anni le strutture sanitarie hanno assunto (USL, ASL, Aziende Uniche, ecc.), tutti abbiamo presente dove dobbiamo recarci per la nostra salute.
Lo stesso processo non è avvenuto per la legge 180/78. E, inoltre, attorno a questa legge si è creato una sorta di mito dell’intoccabilità pur nella sua evidente mancata applicazione sul territorio.
Se ho una grossa ferita aperta so dove devo andare per avere assistenza e, nel caso, sono le stesse strutture sanitarie che mi raggiungono. Se il problema è di natura mentale tutta questa conoscenza e intervento scompaiono. Perché?
Innanzitutto, siamo tutti diventati delle persone che possono avere degli atteggiamenti non identificabili con la follia o il disagio mentale neanche quando questi arrivano a danneggiare la collettività, neanche quando questi tratti di …alternatività alla “normalità” mettono i familiari in una condizione di sequestrati in casa. Perché, giustamente, vengono prima di tutto i diritti dell’interessato.
E i diritti dei familiari?
Quando capisci che un tuo caro ha un problema nel relazionarsi con il mondo che lo circonda (generando una serie di problemi, anche drammatici, per sé e per i suoi cari) non trovi nessuno deputato alla “certificazione” di questo evidente stato di malattia e alle cure che ne dovrebbero derivare.
Il medico di base – che non vede questa persona nel suo studio da dieci anni – ti dice che non può entrare nella “sua” privacy! Non solo: è “colpa tua” se non hai chiamato il 118 quando c’è stata una crisi aggressiva perché, in questo modo, tu non hai “consentito” di attivare il possibile Trattamento Sanitario Obbligatorio-TSO. Un po’ come dire che devi scatenare prima una tragedia e cogliere l’attimo perché qualcuno ti prenda sul serio.
Lo psicologo che hai incontrato presso il Centro di salute mentale della ASL e al quale racconti gli ultimi eventi e situazioni più che problematiche ti dice che anche lui non può fare niente. Al massimo può “rafforzare” i familiari che stanno – ovviamente – accusando i primi effetti di uno stato depressivo, frutto di questa situazione incontrollata. Come dire che arrivo con un taglio e il medico, invece di curarmi, mi dice di sistemare meglio i coltelli.
Il medico competente che visita questa persona sul posto di lavoro si limita alla routine della misurazione della glicemia ma non ha il minimo “sospetto” sul fatto che il dipendente che sta visitando è in seria difficoltà (anche se trasandato, sporco, sconclusionato).
Nel frattempo questa persona, evidentemente malata mentalmente, continua a muoversi, a lavorare, ad avere una “vita normale” costellata da una serie di eventi che si producono proprio per il suo estraniarsi. Dal continuo rischio dell’essere preda di soggetti senza scrupoli, al non curarsi di se stessa degli aspetti di salute, economici, tributari, ecc.
Tutti pensano/dicono “è matta” ma nessuno pensa che sia opportuno intervenire perché non è suo compito? Perché è un “diritto” aggirarsi per il mondo in evidente stato confusionale in barba ad ogni concetto di dignità umana? Perché è assolutamente necessario avere la compliance del – a quel punto soltanto – paziente? Perché?
Perché abbiamo riabilitato, in qualche modo, la figura del “matto”, ci siamo abituati a vederne per strada con le loro buste piene di stracci, buttati in un angolo con le coperte, sporchi, ubriachi, urlanti per la via. Tutto questo è diventato normale. Molti dicono: “Abbiamo tolto lo stigma”. Non è vero.
Si è realizzata una operazione di carattere culturale che ci ha abituato a vedere i “matti” in giro e non più confinati in brutti e sporchi manicomi ma poco o nulla (in alcune regioni) è stato fatto per sostenerli e, soprattutto, per sostenere e dare sollievo alle famiglie che quotidianamente condividono i loro momenti difficili e le conseguenze di questi. Con il risultato che prima il malato mentale veniva rinchiuso in luoghi più simili a prigioni che a luoghi di cura e ora, invece, sono a totale carico dei familiari che, nel fungere da controllori, diventano essi stessi reclusi.
Sappiamo che nella medicina “tradizionale” è tutto codificato. Temi certi per il decorso delle malattie, tempi brevi di ricovero, tempi brevi per le operazioni, medicine di cui tutti sanno tutto, medici che hanno grande visibilità sui giornali e in TV perché usano il metodo “y” piuttosto che quello ”x” e via dicendo.
Nelle malattie della psiche, invece, non c’è nulla di codificato a cominciare dall’interlocutore (psicologo o psicanalista? o neurologo?). A volte capita che ci si ritrovi in una sorta di riti voodoo in cui c’è uno che parla e ti costringe a parlare dei fatti tuoi facendo finta di capire cosa hai con una clessidra davanti perché tutto è cadenzato dal tempo. E’ come se uno ti operasse a cuore aperto e dopo un’ora interrompesse l’operazione rimandandoti alla settimana dopo perché ha un altro paziente/cliente in lista.
Se un malato “tradizionale” deve entrare in ospedale per una cura, sa quello a cui verrà sottoposto, per quanto tempo e sa sicuramente che uscirà dall’ospedale in tempi brevi (perché è tutto codificato e la degenza costa al sistema).
Un malato che entrasse in ospedale per motivi psichici (quale che sia la gravità) non sa in che mani finirà, cosa gli verrà dato e soprattutto quando ne uscirà.
E’ colpa dei medici? Probabilmente i primi a non raccapezzarsi sono proprio i medici che con la psiche lavorano.
In un tempo in cui le diagnosi si fanno tramite strumenti sofisticatissimi e costosissimi con i quali il corpo umano viene segmentato e ricostruito in 3D alla ricerca della più piccola anomalia fisica, i medici sono una sorta di meccanici della Ferrari che capiscono come funziona la macchina dall’analisi dei sensori.
Ma tutto questo sappiamo che con la psiche non si può fare.
Possiamo però dire che dovrebbero esistere medici che siano in grado di fare una diagnosi ben precisa, parlando, ascoltando, valutando e studiando senza preoccuparsi del tempo che dedicano al paziente. E dove li trovi?
Quand’anche hai convinto una persona oggettivamente malata a curarsi recandosi al primo Centro di salute mentale, scopri che i medici (psicologi e psichiatri) sono sotto organico, hanno una folla di pazienti in carico e il primo appuntamento è dopo un mese. Giusto il tempo di ripensarci e perdersi il possibile paziente. Senza contare che a volte il problema potrebbe avere origine da altre cause e il tempo trascorso senza intervenire trasforma tutto in una ulteriore tragedia.
E’ vero, esistono alcune situazioni idiliache di assistenza o di soluzioni come le case-famiglia ma si tratta di quelle cosidette “buone pratiche” di cui è lastricata la nostra società in attesa che avvenga il miracolo che trasformi la buona pratica in standard obbligatorio per tutti.
Nel frattempo accade che le situazioni di disagio si moltiplicano in maniera esponenziale perché si ammalano interi nuclei familiari. Senza contare che periodicamente le situazioni degenerano in maniera drammatica (provate a digitare su web “dramma della follia” …). E a quel punto tutti quelli che sapevano si chiedono, troppo tardi, perché nessuno è intervenuto?
In conclusione, mi piacerebbe sapere cosa c’è da festeggiare di questi quaranta anni e perché in quaranta anni non c’è stato modo di rendere più “applicabile” e diffusa una legge non solo per poter dire con malcelato orgoglio che è stato “tolto lo stigma” ma anche per curare e per sostenere le famiglie che si fanno carico quotidianamente di un problema che rende la vita di queste un continuo susseguirsi di eventi incontrollati e incontrollabili.
Un familiare - Roma
03 maggio 2018
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