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Biotestamento. Una legge da gestire con grande umanità

di Bruno Ravera

14 GEN - Gentile Direttore,
da attento lettore di QS (non mi stancherò mai di congratularmi con lei e i suoi collaboratori e per farlo non ho avuto certo bisogno di leggere il Report del 2017) resto un po’ sconcertato per alcuni interventi relativi alla recente legge sulla DAT.

In premessa. Io condivido il principio ispiratore del New York Times: chiunque interviene in una discussione deve dichiararsi. E io mi dichiaro. Sono un cattolico laico. Prodi direbbe: adulto. Troppi interventi sono stati fatti con spirito “laico” anche se alimentati da ideologie che si ha tutto il diritto di sostenere, a condizione che si rendano esplicite. Prima di entrare nella discussione alcune precisazioni sul significato del termine laico e una premessa: il contrario del laico non è il religioso ma il dogmatico.

Laico viene dal greco laòs che significa popolo. Una prima accezione qualifica il laico come il fedele cristiano ordinario, distinto dai chierici, ma è insito anche nel linguaggio delle professioni. Si parla per esempio di membri laici del Consiglio Superiore della Magistratura per indicare soggetti esperti in materie giuridiche ma che non appartengono all’ordine giudiziario.

Laico è allora un termine che definisce un atteggiamento improntato alla tolleranza, al dialogo e alla libertà. In terzo luogo si usa spesso il termine laico nel senso di non credente. Questa accezione non presuppone necessariamente un’aperta opposizione alla dimensione religiosa, ma solo un atteggiamento, diciamo così di “sospensione agnostica”. In questa prospettiva si parla di laicità dello Stato secondo la nota decisione n.203 del 1989 della Corte Costituzionale che ha incluso la laicità tra i principi supremi della Costituzione repubblicana (decisione adottata, non lo si dimentichi, quando il Presidente della Corte era il cattolico Prof. Francesco Paolo Casavola. Costituzione che riconosce il valore dell’ispirazione religiosa a condizione che le varie religioni “accettino il pluralismo”, cioè senza nessun favoritismo o religione di Stato. Tra parentesi, questa concezione di autentica libertà caratterizza la laicità italiana che comprende tutte le ispirazioni, anche religiose, rispetto a quella francese che le esclude tutte.

Vi è poi l’interpretazione oggi prevalente, che indica coloro che fanno esplicita professione di ateismo e/o anticlericalismo, cioè di chi si contrappone alla religione e che contrasta attivamente l’influenza delle Chiese e delle organizzazioni religiose nella società (il che in una società democratica è perfettamente legittimo).

L’appello alla laicità è necessario per una riflessione bioetica e ciò sia per le teorie etiche estranee a una prospettiva di fede sia per quelle aperte alla trascendenza. La cosiddetta “laicità debole” di Fornero.
E’ laico allora chi sviluppa una riflessione basata su atteggiamenti critici antidogmatici e tolleranti.
E’ laico per il non credente mettere da parte le proprie posizioni personali non religiose (senza ovviamente rinnegarle) per dare ascolto alle ragioni di chi crede.
E’ laico per il credente riconoscere che le ragioni del non credente possono essere significative e meritevoli di considerazioni e approfondimenti.

Se si vuole, un metodo di dialogo e di rispetto reciproco. Allora si può essere laici pur professando una fede religiosa, così si può non esserlo pur professando ateismo e/o anticlericalismo. Se le prospettive secolari sono esposte al pericolo di una deriva relativista, in cui non è possibile tener fermo alcun principio o valore, le prospettive religiose sono esposte al rischio di una deriva fondamentalista (v. dialogo Ratzinger-Habermas del 2003). Ne deriva che nessuno, qualunque sia il proprio orientamento etico, filosofico, politico o religioso possa pretendere che le scelte collettive che debbono presiedere all’organizzazione della società traducano integralmente le proprie convinzioni.

Questo si chiama pluralismo ed è l’essenza delle democrazia. Uno Stato democratico è composto di cittadini impegnati a rispettare le differenti etiche, visioni del mondo e religioni, in un contesto d reciproca inclusione e sincera ospitalità, senza che una pretenda di imporsi sulle altre.

Questa troppo lunga premessa per affermare che a mio giudizio la legge sulle DAT non è perfetta ma è condivisibile nella sua impostazione. Il punto di partenza è che una persona capace di autodeterminarsi ha il diritto di rifiutare il trattamento medico anche se dal rifiuto può derivare la morte. E’ una scelta bioeticamente per lo meno discutibile (secondo me deplorevole), ma giuridicamente è così. E questo vale anche per l’alimentazione e l’idratazione che ad avviso della comunità scientifica internazionale e della Suprema Corte sono un trattamento terapeutico, ma non rappresentano in sé accanimento terapeutico.

In questo caso trova applicazione immediata e diretta l’art.32 della Costituzione. “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Per una persona cosciente il problema quindi non si pone. Ma non sarebbe logico che la stessa persona capace di intendere e di volere, non potesse esprimere la volontà di rifiutare le cure, quando si trovasse in condizioni di incoscienza persistente. Per questo ci vuole una legge, questa legge.
Naturalmente la tutela della vita deve essere “schermata” rispetto ai rischi di strumentalizzazione della volontà della persona, legato per esempio ai riflessi economici che potrebbero trasformare di fatto il diritto di morire in un dovere verso la famiglia (non essere di peso) e alla collettività (vedi omicidio del consenziente e/o istigazione al suicidio).

Si può così dire che la legge risponda al principio del rispetto del pluralismo etico, che non è necessariamente relativista.

Questo non significa ovviamente ignorare o sottovalutare che vi siano posizioni fortemente diverse, ma farle apparire come fronti monolitici contrapposti mi sembra un motivo inutilmente polemico. Basta vedere nel mondo cattolico il parere della consulta bioetica della Fondazione San Fedele dei Padri gesuiti di Milano pubblicato sul numero di settembre 2017 della rivista “Aggiornamenti Sociali”. Basti pensare alle posizioni ripetutamente assunte dal Cardinale Martini sul fine vita e di altri autorevoli esponenti del mondo cattolico.

Non nego ovviamente che si tratta di posizioni numericamente minoritarie. Le ho citate per evidenziare che vi è una dialettica vivace anche in campo cattolico, senza che siano messi in discussione i principi.

Vorrei ancora citare alcune affermazioni, fatte sul quotidiano “Avvenire” (e riportate dal Q.S.) dal Prof. Francesco D’Agostino, Presidente dell’unione giuristi cattolici italiani e Presidente emerito del comitato nazionale di bioetica, fatte a proposito del disegno di legge poi diventato legge sulle DAT proprio in dissenso da chi vede nella legge una deriva eutanasica.

Scrive il Prof. D’Agostino:
“Il disegno di legge non è in alcun modo finalizzato a introdurre in Italia una normativa che legalizzi l’eutanasia. Questo è ciò che invece sostengono alcuni tra i suoi avversari, ma per farlo devono interpretarlo in modo forzato. Onestà vuole che una legge vada valutata per ciò che dice e non per ciò che potrebbe farle dire un interprete subdolo e malevolo”.

Parole forti alle quali fanno da contraltare quelle altrettanto decise dell’appello promosso dal Centro studi Livatino: “La proposta di legge, pur non adoperando mai il termine eutanasia, ha un contenuto nella sostanza eutanasico. Rispetto al testo sul “fine vita” approvato nella sedicesima Legislatura dalla Camera dei Deputati il 12 luglio 2011, del quale è poi mancata l’approvazione definiva da parte del Senato, sono scomparsi il riconoscimento del diritto inviolabile della vita umana, il divieto di qualunque forma di eutanasia, di omicidio del consenziente e di aiuto al suicidio, e ciò pone la p.d.l. in contrasto diretto con quel diritto alla vita che il fondamento di tutti gli altri (art.2 Cost.).

D’Agostino non nega in realtà che ci sia la possibilità di una simile interpretazione, una volta approvata la legge, “ma se ci lasciamo condizionare da questi timori – scrive – finiamo per pietrificare il nostro ordinamento e sostenere (contro ogni ragionevolezza) che è meglio non toccarlo affatto, lasciare le cose come stanno, quasi che il nostro diritto vigente sia perfetto e non abbia assolutamente bisogno di essere ‘rivisto’ (ovviamente secondo giustizia!). Non è così. Un intervento legislativo in tema di fine vita, intelligente e consapevole dello spessore dei problemi, è opportuno, anzi necessario, se non vogliamo chiudere gli occhi pigramente e colpevolmente davanti a una realtà che sta mutando a velocità mostruosa”.

E’ giusto dire che soprattutto in ambienti di cultura radicale c’è chi considera questa legge come il primo passo per la legalizzazione dell’eutanasia. Si spiegano così alcune scomposte reazioni di giubilo enfatizzate dalla stampa, che non trovano però fondamento nel testo. E’ necessaria una vera onestà intellettuale che talvolta manca perché accecati dall’ideologia. Una legge va valutata per quello che dice non per quello che si vorrebbe dicesse. Non vi è dubbio che aver modificato il titolo della legge da dichiarazioni a disposizioni ha legittimato un certo sospetto. Comprendo che si è voluto evitare una eccessiva discrezionalità del medico e si è preferito un termine “vincolante, ma è appropriato? Credo di no. Nella Convenzione di Oviedo 1971 all’art.9 sta scritto: “i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione”. Le due lingue, francese e inglese, adoperano i termini souhaits e wish, dunque non più che ‘desideri’. Così pure l’art. 36 del Codice deontologico dei medici. Ma non è solo questo.

L’articolo 1 comma 6 della legge sulle DAT recita: “il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale. Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme d legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali”.
Nel comma 5 dell’articolo 4: “fermo restando quanto previsto dal comma 6 dell’articolo 1, il medico è tenuto al rispetto delle DAT, le quali possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico stesso, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita. Nel caso di conflitto tra il fiduciario e il medico, si procede ai sensi del comma 5 dell’articolo 3”.

Qualcuno dovrebbe spiegare come si giustifica il termine disposizione che è cogente senza se e senza ma, quando vi sono queste precisazioni. La verità è che il medico non ha la funzione puramente notarile propria di un esecutore testamentario. Lo scopo chiarissimo della legge, com’è stato autorevolmente detto, è evitare la doppia onnipotenza: “quella del medico che può non tenere in alcun conto le volontà e i desideri del malato (come talora purtroppo è accaduto in passato) e l’onnipotenza del malato che vorrebbe ridurre il medico a mero esecutore delle sue volontà e dei suoi desideri.

E’ inevitabile una certa discrezionalità del medico che non significa ambiguità. Perciò ho parlato di onestà intellettuale. E qui emerge un altro problema. L’obiezione di coscienza. Mentre questo istituto è contenuto nella legge 194 ed è sacrosanto, non è comprensibile, almeno per me, rivendicarla per la legge sulle DAT. In che modo e quando si può invocare l’obiezione di coscienza? Aggiungo una riflessione. Insistere su questa richiesta rischia di legittimare a contraris la convinzione di qualche frangia radicale che vede in questa legge il grimaldello per introdurre suttettiziamente l’eutanasia. Ma non è così.

Ritengo però che siano necessarie alcune circolari esplicative per chiarire alcuni punti. Per esempio:
Il comma 3 dell’art.1
“Ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute ed essere informato in modo completo, opportuno, etc.” Bene, ma domando: ha anche il dovere di ricevere le informazioni? Certo che no, tanto è vero che può rifiutare e indicare un familiare o una persona di sua fiducia a ricevere le informazioni ed esprimere il consenso in sua vece. In effetti si sancisce il principio che al malato si possa non dire la verità (e questo contraddice il principio su esposto).

Il comma 8
Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura. Lo dice anche il nostro Codice deontologico. Il paziente “ha diritto ad essere informato in modo completo aggiornato e in forma a lui comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi, etc.” Ma questa è solo una dichiarazione di principio condivisibile, una sorta di dovere burocratico, perché data l’attuale e prevedibilmente persistente carenza di personale, rischia di essere priva di efficacia. Come pure il comma 7 dello stesso articolo: “nella situazione di emergenza o urgenza il medico o l’equipe assicurano le cure necessarie nel rispetto della volontà del paziente ove le sue condizioni cliniche e le circostanze consentono di recuperarle”. Per scrivere questo penso che nessuno dei parlamentari avesse la minima idea di che cosa sia un P.S. o una struttura di terapia intensiva.

Temo fortemente che il testo comporti una serie di ambiguità, che fatalmente daranno spazio al sorgere di contenziosi. E questo vale anche per le condizioni non molto chiare che consentono al medico di non rispettare le DAT. Altri dubbi sorgono sulle cure palliative (legge 38/2010). E’ da augurarsi che la legge possa rappresentare almeno uno stimolo per la diffusione di queste cure che in parecchie Regioni ancora latitano. E questo rimanda al comma 9 che impone una adeguata formazione del personale, compreso il medico di medicina generale che riveste un ruolo essenziale. Una volta si chiamava medico di famiglia; adesso il medico c’è quasi sempre, ma non sempre c’è la famiglia. Questo per accennare al problema drammatico della solitudine del malato soprattutto se in fase terminale, ma lucido. E’ certamente quello che il malato teme di più.

Sono riflessioni che non incidono sulla validità della legge ma richiedono attenta e meditata considerazione.

Vorrei per concludere parlare della mia esperienza di medico (ovviamente solo come testimonianza, senza nessuna pretesa di dare lezioni e senza esibizionismi). La legge sulle DAT era necessaria, ma mi sia consentita una considerazione augurandomi di non essere frainteso. In oltre 60 anni di professione in cui ho avuto in cura (anche come Primario ospedaliero per quasi un trentennio) molte migliaia di persone, non ho mai avvertito la mancanza della legge sul testamento biologico.
 
Con i miei pazienti più gravi giunti al termine della vita mi sono sempre comportato da medico, con umanità. Per essere medico non è indispensabile la carità che ha fatto Santa Madre Teresa di Calcutta ed esaltata da Paolo nel famoso inno della lettera ai Filippesi, ma un senso di umana solidarietà, si. Avevo in reparto colleghi non credenti o almeno non praticanti, che per dedizione agli malati mi davano dei punti. Questo per dire che per trattare con umanità una persona ammalata non è necessario essere credenti (parabola del samaritano come cifra dell’essere medico). Quando non c’era più speranza si concordava con i familiari di non impedire la morte: un aiuto nel morire non a morire. Non si vuole procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Se tutti i medici avessero saputo, voluto o potuto comportarsi così la legge sul testamento biologico sarebbe stata inutile.

Philippe Aries nel 1975 in “Storia della morte in occidente dal Medio Evo ai giorni nostri” descrive il cambiamento del concetto di morte.
“Un tempo era il sesso a costituire un tabù, oggi è la morte. Quasi per pudore non si scrive che un tale è morto ma che è deceduto, è scomparso, ci ha lasciato, si è spento o non è più, e per i credenti che ha concluso la sua vita terrena o è tornato alla casa del Padre”.

La morte è stata rimossa ma purtroppo c’è, anche se è vero l’epigramma di Epicuro.

Dato che sono quasi un novantenne parlo con una certa cognizione di causa. Una volta i bambini nascevano sotto i cavoli ma il nonno moriva in casa circondato dai figli e dai nipoti, anche se piccoli. Oggi i bambini anche piccoli sono già esperti sulle pratiche del sesso e della fecondazione, ma il nonno che se ne va è partito per un lungo viaggio o riposa sotto il quadrifoglio.

Non sono un laudator temporis acti, mi auguro solo che questa legge sia da tutti, credenti e non credenti, gestita con umanità. Le bandiere ultra libertarie (a parole) lasciamole ad altri.
 
Dott. Bruno Ravera
Primario Emerito di Cardiologia 


14 gennaio 2018
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