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Medici e infermieri e 118. Una macchina complessa che necessita dell’apporto di tutti

di Roberto Monaco (Omceo Toscana)

01 APR - Gentile Direttore,
ecco il mio modesto contributo alla discussione sul ruolo tra medici e infermieri nel sistema 118 che Quotidiano Sanità sta con correttezza sviscerando in questi giorni. Mi permetto di farlo perché per circa 15 anni ho lavorato nel 118 e per 3 anni ne sono stato il responsabile della Centrale Operativa di Siena. Parlo appositamente di ruoli e non di rapporti tra medici e infermieri perché questi sono sempre ottimi tra chi lavora ogni giorno e ogni notte fianco a fianco.

Chi, negli ultimi tempi, sembra deciso ad invadere competenze e relativi ruoli non sono, a mio parere, i professionisti che lavorano sul campo ma altrettanto stimati professionisti che hanno, come dire, “appeso” il camice al chiodo. Difatti mentre per il medico la carriera dirigenziale non si scinde mai dall’assistenza, oggi questo non avviene nella carriera infermieristica: chi dirige abbandona completamente l’attività assistenziale e si dedica esclusivamente a compiti di governo. Non sto qui a sindacare se questo è sia giusto o meno, non spetta a me, ma così è. D’altra parte siamo di fronte a una giusta crescita professionale dell’infermiere e con questo dobbiamo non farci i conti, ma confrontarci.

Ritengo che un paese civile, che paga le tasse per avere un servizio pubblico, deve pretendere un servizio di eccellenza e questo prevede come attori grandi medici e grandi infermieri che collaborano. Sono meno interessato alle polemiche e sono invece molto interessato ad alzare l’asticella delle misurazioni delle performance perché un buon servizio di emergenza territoriale è un importante indicatore di qualità per la tanto desiderata integrazione ospedale territorio. Per questo, prima ancora di parlare di ruoli e di compiti, andrebbero stabilizzati i tanti precari medici che lavorano da anni, perché un sistema si dice sicuro quando è stabile. La stabilizzazione porterebbe quindi da un lato ad un sistema sicuro per il paziente, dall’altro a gestire correttamente le risorse economiche per la formazione investendo su operatori che fanno parte stabilmente della rete.

Ma soprattutto questa rete è un grande filtro per evitare accessi impropri ai pronto soccorso ed è un veicolo fondamentale per inviare il paziente giusto nel posto giusto. Questo si chiama “appropriatezza” e questo per legge, per competenze e per ruolo può farlo solo un medico. Solo un medico può decidere in accordo con il paziente se questi necessita di cure ospedaliere o può essere trattato a domicilio (nella mia realtà il 43% dei pazienti evita il ricovero in PS), solo un medico può rafforzare il contratto terapeutico con il cittadino per il suo percorso di cura. Solo il medico può, insomma, fare diagnosi e terapia. All’infermiere spetta il “care”, altro fondamentale pilastro per la cura della persona. Il “care” non è in competizione né in conflitto con la diagnosi e la cura, ma si integra con esso in un rapporto di necessaria complementarietà.

Detto questo, non mi scandalizza che esistano protocolli ad esempio sull’arresto cardiaco o sulla ipoglicemia che siano appannaggio della professione infermieristica, perché la diagnosi viene fatta da uno strumento, mi preoccupa invece non fare gestire al medico in prima persona protocolli come ad esempio lo stroke o lo STEMI, dove il tempo e il corretto accesso nel posto giusto ne determinano il risultato immediato e la prognosi.

In Consiglio Nazionale della Federazione nazionale degli Ordini dei medici ho proposto di istituire un tavolo di lavoro che analizzi tutti protocolli esistenti nei variegati panorami regionali con lo scopo di omogenizzare le procedure su tutto il territorio e allo stesso tempo valutare quali siano i protocolli che può applicare l’infermiere da solo. Anche questo a mio avviso è “appropriatezza” e salvaguardia della salute dei cittadini.

Ma un’altra considerazione, gentile Direttore, mi permetta di esprimerla: la sanità e una macchina complessa e non si può tutto ricondurre sempre e comunque al tema dei costi. E’ vero un infermiere costa meno di un medico ma è ampiamente dimostrato che un medico, che ponga una corretta diagnosi e sviluppi un corretta “alleanza terapeutica” con il paziente può evitare accessi impropri in Ps e quindi si possono abbattere in modo ugualmente rilevante i costi.

La riconosciuta crescita culturale della professione infermieristica deve esigere di affermare il proprio spazio accanto al medico, in un rapporto alla pari e mai “contro”, con l’obiettivo comune di costituire un équipe sul territorio da cui emerga la sinergia necessaria al raggiungimento dei migliori obiettivi in termini di appropriatezza e qualità. Non si sbaglia a pensare che se la emergente dirigenza infermieristica ragionasse sulle questioni con gli scarponi immersi sul fronte assistenziale probabilmente scaturirebbero proposte di crescita e modelli organizzativi che si indirizzerebbero ad una reale progressione culturale e professionale. Con questi presupposti si potrebbe davvero lavorare e crescere insieme.

In conclusione ritengo che solo insieme medico e infermiere possano riuscire a far muovere questa grande macchina nella direzione giusta, la direzione che porta verso la tutela delle due professioni, dei rispettivi ruoli, delle specifiche competenze e, soprattutto, dei bisogni di salute delle persone.

Roberto Monaco
Presidente Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri di Siena
Presidente Federazione Toscana Ordine dei Medici


01 aprile 2016
© Riproduzione riservata

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