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Infermieri e 118. Solo un servizio low cost?

di Michela Baldini

03 NOV - Gentile direttore,
sono un'inguaribile romantica. Mi piace pensare che questi giorni difficili, accesi da colpi di articoli di giornale e badilate stampa siano il prezzo equo da pagare per riaccendere la discussione sul sistema di emergenza territoriale, uno dei migliori nonostante i tanti problemi. Ascoltando i diversi punti di vista possiamo rifocalizzarci su ciò che veramente conta e trovare un'intesa, in barba ad una società fondata sull'ormai permeante concetto del “dividi et impera”.
 
Sono un Medico di Emergenza Territoriale: quello che all'inizio è stato un “lavoro per necessità”, ben presto mi ha appassionato ed è diventato un “lavoro per scelta” tanto da rinunciare ad altre interessanti opportunità che tuttavia mi avrebbero impedito di continuare la formazione come medico di emergenza territoriale, per me uno dei lavori più belli al mondo.
 
Formarsi, questo è un tasto molto dolente: ho potuto frequentare il corso di idoneità all’emergenza territoriale, e anche un secondo corso “avanzato”, ma nonostante questo in Emilia-Romagna l’impressione è che tutta la formazione sia basata più che altro sul pronto soccorso dato che le aziende sanitarie faticano a trovare personale per questo settore. In molti abbiamo dovuto provvedere personalmente a formarci, frequentare corsi, “specializzarci” in questo settore così particolare e ostile. Avrei sperato, e come me tanti colleghi, che le aziende sanitarie si preoccupassero di più di formarci sui farmaci che usiamo in territorio, su tecniche che di fatto sono padroneggiate solamente dagli anestesisti. Ma sembra che qua ci sia uno scontro di società scientifiche, da un lato la SIMEU e dall’altro gli anestesisti: nessuno li ha nemmeno mai coinvolti nei corsi Met e Met avanzato.
 
E ti senti pervasa dalla sensazione che più che altro la tua figura sia stata “utilizzata” non per fare il lavoro che dovresti, ma per coprire i buchi di un’organizzazione del pronto soccorso che fa scappare i medici appena possono. Passano gli anni e sembrano sempre meno le prospettive positive, il continuo tentativo di strapparti dal lavoro che ti sei scelto e dal contratto che hai.
 
Comunque non mi arrendo, è giusto combattere per le cause in cui si crede, e così anche diventando antipatici siamo almeno riusciti ad avere i farmaci e gli strumenti che ancora l'automedica non aveva: la Ketamina è stata introdotta in check list solo da due anni, ancora mancano i curari e presidi per l'intubazione difficile, etCO2 disponibile solo da pochi giorni... in regione tutto va a macchia di leopardo e le attenzioni sono quasi esclusivamente dedicate al Pronto Soccorso.
 
E che dire dei mezzi, quelli medicalizzati non sono poi tanti, un’auto medica a coprire e supportare ambulanze per un territorio sterminato: una città di 220.000 abitanti in 230 km quadrati più tre intere vallate con altri 68.000 abitanti in 1000 km quadrati...
 
Continui interventi in “rendez vous” (il francesismo purtroppo in parte nasconde i rischi che comporta il caricamento in ambulanza di un paziente critico, non stabilizzato, e la folle corsa incontro all'automedica, non ancora dotata di teletrasporto).
 
In questo panorama così complesso, governato dalla logica del risparmio, non mi stupisco che oltre ai protocolli salvavita si vogliano assegnare ai colleghi infermieri altre competenze che nulla hanno a che fare con il sostegno delle funzioni vitali, mi viene da chiedere: le aziende gliele assegnano per valorizzare la professione o semplicemente per avere un servizio low cost?
 
In conclusione una domanda: perché non viene chiaramente detto ai cittadini che l'Italia non è più in grado di assicurare la stessa qualità di cure in tutto il suo territorio? Almeno non dovrò più cercare assurde giustificazioni con i parenti per il mio ritardo di intervento sui loro congiunti.
 
Michela Baldini
Medico Emergenza territoriale

03 novembre 2015
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