Comma 566. Codice deontologico occasione persa. Confronto parlamentare viziato da pressioni
di Salvo Calì
05 MAG -
Gentile Direttore,
l’arte di complicare le cose semplici è tipicamente italiana: i medici sono medici, gli infermieri sono infermieri, sono due professioni distinte e nobili, con corsi di studi e processi formativi diversi, con competenze differenti. Eppure, da qualche mese assistiamo a un continuo, e spesso sterile, dibattito sui confini e le caratteristiche dell’atto medico, a causa di un comma, il 566, inserito nella legge di stabilità. La responsabilità? Certamente della politica, magari, a pensar male, anche delle contiguità e confusione di ruoli tra cariche ordinistiche e istituzionali: non si comprende, infatti, perché introdurre surrettiziamente in un provvedimento di carattere finanziario un articoletto confuso ed estraneo alla materia e, in quanto tale, dannoso anche per chi laicamente vuole discutere di riorganizzazione dei servizi sanitari e di razionalizzazione di ruoli e responsabilità nel governo e gestione della sanità.
Una premessa è necessaria, bisogna sgomberare il campo da un equivoco, che si legge costantemente tra le righe dei sostenitori del comma 566 e, più in generale, dal fronte infermieristico e dalle preoccupate alzate di scudi di quello medico: questa non può diventare una guerra di potere, il redde rationem tra diversi camici bianchi. Se i medici considerano gli infermieri come dei “tappabuchi” o come dei meri assistenti, sbagliano. Allo stesso modo, se gli infermieri credono di essere sovrapponibili ai medici, sono ugualmente su una strada senza uscita. È evidente che in termini contrattuali, economici, di potere e di prestigio, per alcuni, a livello sindacale e ordinistico, questa sembra essere un’occasione ghiotta, mentre per altri è una fonte di grandi paure, ma qui sono in gioco il buon funzionamento dell’offerta di prestazioni di salute appropriate e di qualità per i cittadini.
Ma guardando il merito della questione e riprendendo quanto lucidamente esposto in quattro diversi interventi dal professor
Ivan Cavicchi, si può utilizzare uno dei titoli dei suoi pezzi che riflettono perfettamente la base per una serena e produttiva discussione sull’atto medico: “Medici e infermieri. L’accordo possibile. Agli uni il governo clinico e agli altri la gestione della cura”. Da qui dobbiamo partire, non per ridurre le competenze di questa o quella professione sanitaria, né ridimensionare quelle degli infermieri, ma per inquadrare, all’interno di un’organizzazione complessa come è quella della sanità, ruoli diversi, ma complementari. È, infatti, già in atto, un'enorme trasformazione della nostra società, tutti concordiamo su un'evidenza epidemiologica: è mutata la domanda di salute, la popolazione anziana è in crescita esponenziale e con essa l'impatto delle cronicità e delle malattie invalidanti, un altro fattore è l'aumento della povertà e, quindi, il riemergere di vecchie patologie, a causa della crisi economica e dei flussi migratori. Mentre si sono dilatati lo spazio e il tempo assistenziale, contestualmente si sono contratti lo spazio e il tempo della clinica. Oggi la tecnologia e la concentrazione strumentale in luoghi di elezione consentono l’astrazione concettuale della clinica, cioè della diagnosi e della terapia, in tempi reali, contrariamente a quanto avveniva ancora qualche lustro fa.
La consapevolezza di questi cambiamenti assume un significato, esaltando indiscutibilmente gli aspetti gestionali dei problemi assistenziali, che riconoscono il primum movens nella clinica e ad essa circolarmente ritornano. Non vi è quindi centralità del medico o dell’infermiere. La centralità è del paziente e della sua malattia, che specularmente individua nel medico e nella clinica il riferimento iniziale della cura per dispiegarsi in un percorso assistenziale gestito sinergicamente da infermiere e medico, al quale ultimo si ritorna quando la malattia e clinica lo richiede per gli aggiustamenti clinici del caso. Su questi cambiamenti, è urgente immaginare diversi percorsi assistenziali, di presa in carico del paziente, che devono essere governati, implementando quanto già avviene oggi, con il chiaro aumento delle competenze del settore infermieristico, ma non creando confusioni di ruoli con la "clinica".
Per tutte queste ragioni, non si può non constatare come la recente revisione del codice deontologico della Fnomceo sia stata un’occasione persa, che il confronto politico in Parlamento sia viziato dalle pressioni improprie di ordini e sindacati, come dimostra la vicenda del comma 566. Non solo, che è evidente quanto sia importante non cadere nelle scorciatoie di alcune regioni, che spinte dalla necessità di ridurre le spese, sposano, in talune situazioni, vedi emergenza-urgenza territoriale, la de-medicalizzazione dei servizi a favore dell’uso esclusivo di infermieri.
Infine, è opportuno, anzi necessario, un momento serio di confronto interprofessionale, perché è vero che serve un grande patto nazionale per la “buonasanità” in Italia. Le guerre di posizione non servono a nessuno, meno che mai ai nostri pazienti.
Salvo Calì
Presidente nazionale Sindacato dei Medici Italiani
05 maggio 2015
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