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Infermieri. Prima di tutto siamo essere umani

di Elisa Ardori

03 MAR - Gentile direttore,
cosa vuol dire al giorno d’oggi essere autentici in quello che facciamo, nella quotidianità che passiamo con i colleghi, con gli ospiti, con le famiglie di questi. Quando guardiamo negli occhi una persona, qualunque essa sia, malata, sana, collega o superiore ed esprimiamo un concetto, un pensiero, un sentimento, siamo davvero autentici oppure ci facciamo inglobare e nascondere da quella nebulosa area di omertà che riempie i luoghi di lavoro, le case e i posti di dominio pubblico?

Perché non possiamo essere autentici in quello che pensiamo ma tutto deve essere passato al setaccio di parole fatte o frasi scontate? Basti pensare quante volte ci ritroviamo a dire ai nostri pazienti le frasi del tipo: “abbia pazienza”, “stia tranquilla”, “vedrà che andrà tutto bene”. Ma come facciamo ad affermare ciò, utilizzando un potere di posizione e di divisa rispetto al paziente che inerte con occhi speranzosi e colmi di richiesta d’aiuto si convince da quanto noi gli abbiamo detto, se noi stessi non possiamo sapere come proseguirà l’attimo successivo a quello che stiamo vivendo. Siamo rinchiusi in un limbo fatto di routine e di quotidianità che tanto ci piace perché non ci fa riflettere sul presente, sul momento che viviamo, non ci fa percepire il contorno a noi stessi.

Come sarebbe bello un mondo dove ognuno di noi Professionista, e persona in primis, potesse sentirsi libero di esprimersi come lui stesso vuole e si sente di fare, sempre nel rispetto e nella conformità che ci definisce Professionista, ma con la coerenza tra mente e anima. Un mondo lineare dove davvero le entità più limpide senza falsi costruzioni emergerebbero, dove l’autenticità farebbe da padrone e dove i cattivi sotterfugi sarebbero messi in luce proprio da noi Professionisti beniamini di un modus operandi lineare e aperto. Siamo concentrati sulla clinica, sul dover e il saper far bene, ma così facendo non ci accorgiamo che ci stiamo allontanando da quello che più ci dovrebbe affascinare: l’intelletto.

Qualsiasi macchina può essere ben preparata ed efficiente, sostituibile ad un umano, andremmo ad abbattere così, un’elevata percentuale di possibilità di errore dovute a una sfera non palpabile ma immensa nell’amore e nella sua complessità, che racchiusa in una parola si chiama: anima. Un Professionista non è composto da tanti pezzi di puzzle come una macchina, all’interno non ci sono ingranaggi, ma una vastità di sfaccettature che saranno solo e soltanto proprie. Quella persona, quel Professionista è così perché solo lui ha nel su io quelle meravigliose sfumature.

Pongo queste riflessione a tutti i colleghi che si trovano ogni giorno a dare risposte che non vorrebbero dare ma che sentono dentro di sé quella gran voglia di urlare al mondo intero che per loro questo non è essere infermieri; invito tutti i colleghi che fra i denti o fra “colleghi-amici” si confidano davvero quello che pensano del mondo lavorativo, delle realtà che vivano con così tanta sofferenza, umiliazione e frustrazione che in attimi di vita difficili mettono addirittura in dubbio la scelta di studi fatta. Non dobbiamo accettare che altri ci usino o utilizzino la nostra Professione senza averci chiesto se siamo d’accordo, che cosa vogliamo che sia l’Infermiere del Futuro? Cosa vogliamo essere nel mondo della Sanità di domani?

Uniamo la mente e l’anima e con l’equilibrio ottenuto proiettiamoci verso l’obiettivo e non facciamo sì che altri ci pongano orizzonti; la vista è limitata, gli occhi interiori non presentano limiti.

Elisa Ardori
Infermiera Libera Professionista
Studio Auxilium
Consulente Fondazione Turati


03 marzo 2015
© Riproduzione riservata

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