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Medicina generale. La relazione di Milillo/1. Perchè dico no alla in-sostenibilità del Ssn

di Paolo Da Col

Sono molti i passaggi della relazione del segretario Fimmg non condivisibili a partire dall’in-sostenibilità del Ssn sostenuta da Milillo fino all’enfasi dell’autonomia, reclamata anche in merito alla formazione. Meglio ripartire da ragionamenti diversi, indipendenti, senza conformismi e stereotipi.

15 OTT - Gentile direttore,
vorrei riprendere, spersonalizzando del tutto la vicenda, alcuni temi della relazione del Segretario della Fimmg all’annuale congresso e della correlata nota di commento di Ivan Cavicchi del giorno successivo. Come prima ragione, per richiamare l’attenzione su temi cruciali meritevoli di essere approfonditi; poi perché reputo rilevante quella relazione, per la provenienza (illustra il pensiero di un’ampia rappresentanza di professionisti sempre più chiamati ad essere protagonisti di forte impatto sul nostro SSN) e per la sede in cui è stata presentata (assemblea generale annuale, presenti in sala vertici Istituzionali del SSN). Infine, perché meriti riproporre ragionamenti non conformisti (come quelli di Cavicchi), non allineati all’attuale pensiero unico e agli stereotipi. Relazione e commento mi sembrano espressioni paradigmatiche di ragionamenti che infatti asimmetricamente entrano nella dialettica dei dibattiti di questi tempi, dato che prevalgono ingiustamente sempre le argomentazioni della prima (la relazione) che non della seconda (il commento, cui mi sento più vicino).

Per esigenze di chiarezza e verità, riporto integralmente i due passaggi della relazione, dai quali trarrò spunto per le mie prime riflessioni. Vi si legge: “Purtroppo, data una giusta collocazione agli ideali, se accettiamo un bagno di realtà, dobbiamo prendere atto che non è mai stata realizzata, e tanto meno potrà esserlo in futuro, la sostenibilità di un Servizio Sanitario Nazionale che fornisca tutte le prestazioni di assistenza sanitaria necessarie alla tutela della salute ponendole ad esclusivo carico della fiscalità generale, cui tutti, in teoria, dovrebbero contribuire in proporzione al loro reddito“ Ed immediatamente dopo: “Già oggi il cittadino vede sempre più prestazioni a proprio totale carico e per l’assistenza sanitaria ora erogata dal SSN è necessario prevedere un concreto contributo dell’assistito nel momento in cui usufruisce della prestazione. La sfida non è più evitare questa contribuzione, ma renderla il più equa possibile, rispettando comunque il dettato costituzionale della gratuità agli indigenti”.

Cavicchi confuta con forza questi assunti, e a lui mi unisco senza esitazione, cercando qui di darne un’analisi condotta in ottica e prospettiva politica, da un lato, e tecnica generale e specifica, dall’altro.

In merito alla in-sostenibilità asserita del SSN: dato per assodato, visto il contesto, che questa convinzione sia condivisa tra gli iscritti alla Fimmg, una lettura in chiave politica del testo ne riconosce facilmente i connotati del liberismo. Nell’inciso pare si voglia dare giusta collocazione agli ideali, e ci aspetterebbe quindi di sentire proposte di azioni conseguenti ed interventi coerenti (se sono gli ideali a guidare la partita), per cercare di modificare la realtà che da questi ideali si allontana. Viceversa, viene invocato il realismo, e si invita ad accettare più che a sforzarsi di modificare la realtà, di cui si viene così a subirne la deriva. Il “bagno di realtà” fa annegare gli ideali, ne annulla la forza; i concetti espressi in quelle frasi testimoniano l’esistenza di un pensiero e visione politica propri di teorie liberiste, che nei fatti li negano. Nulla di male, se non fosse che il liberismo mal si concilia con i criteri ispiratori del nostro SSN ed è incompatibile con un sistema di welfare improntato all’ universalismo (pur selettivo) ed al solidarismo (sistema in cui – non va dimenticato - i MMG operano e da cui sono retribuiti).

Ancora, come Cavicchi, mi chiedo quali siano le fonti su cui si poggia l’assunto di questa asserita in-sostenibilità dell’attuale nostro SSN, ipotesi non condivisa da tutta la letteratura scientifica. Tra l’altro, curiosamente Bloomberg (certamente non vicina a logiche contrarie al liberismo, ma anzi sostenitore di esse) pochi giorni fa lo ha posizionato al terzo posto nel mondo, in primis per il rapporto spesa-resa, immagino ora calcolato favorevole a causa della riduzione della spesa grazie ai tagli (di scelta liberista) degli ultimi anni, più che per la resa in termini di salute. Ma non vorrei che questo “successo” generasse l’ambizione, da me per nulla condivisa, di continuare lungo questa strada per raggiungere la testa della classifica, traguardo che ritengo foriero di effetti disastrosi per le persone ed i professionisti.

Vorrei ricordare che il pensiero e l’azione liberista non hanno mai perso occasione per deprimere i sistemi di welfare, facendo passare per scelte tecniche, magari giustificate dal contesto, quelle che invece sono precise scelte politiche, direi ideologiche più che ideali. Per gli appassionati alle classifiche aggiungo che in quella dell’euro health consumer index, forse la più accreditata e affidabile, l’Italia si trova al ventesimo posto, -l’anno scorso al ventunesimo- appena dietro alla Croazia, con 651 punti su 1000: dunque non benissimo.

Nella relazione si constata che è la fiscalità generale a sostenere il SSN, ma si tace sul fenomeno del diffusissimo ed insopportabile fenomeno dell’infedeltà fiscale (strano: molti medici di famiglia, che delle famiglie tutto conoscono, potrebbero raccontarci delle sorprese sugli esenti ticket per reddito menzogneri; delle iniquità correlate). Poiché nella relazioni si lancia anche un nobile accento sulla pace, non mi sembra avrebbe sfigurato l’apertura di una finestra su questo tema, con una sottolineatura sulla possibilità del recupero delle risorse già oggi derivabili da una corretta fedeltà fiscale, che potrebbero essere immesse nel fondo sanitario nazionale e renderlo, per gli attuali livelli di spesa, immediatamente adeguato e sostenibile; e si tratterebbe di risorse quotabili ogni anno, non una tantum ! Spero non sfugga che tutte le fonti accreditano l’evasione fiscale di un valore ben superiore all’intera dotazione del fondo sanitario nazionale.

E’ noto che viene spesso proposto anche di aumentare le compartecipazioni alla spesa degli assisiti: questo metterebbe a rischio il diritto costituzionale alla salute, quando l’ulteriore richiesta di contribuzione grava su chi è malato. L’universalismo deve poggiare sulla proporzionalità dei mezzi, non sullo stato di salute (prelievo fiscale ex ante, mai ex post malattia). I problemi di accesso al SSN insorgono quando non sussistono i criteri di esenzione per reddito (magari di poco o pochissimo sopra-soglia) o per patologia (l’esenzione può non coprire tutte le esigenze di cura). Questa soluzione somma così l’ingiustizia fiscale all’iniquità.

Chi lavora nel welfare, prima di chiunque altro cittadino, dovrebbe pretendere che la fiscalità sia equa, progressiva, mai regressiva - esattamente l’opposto di quanto accade ora. I primi sforzi di un buon governo cui stia a cuore il mantenimento di un welfare efficace dovrebbero essere diretti non ad accanirsi su quanti sono già contribuenti leali, ma a colpire appunto chi si sottrare al fisco. Fino a quando le varie forme di evasione non saranno riportate a livelli accettabili (o,meglio, sconfitte), non accetterò mai lezioni di realismo che giustifichino tagli al welfare ed affermazioni del tipo “non ci sono più soldi”. In sintesi, condivido le critiche di Cavicchi verso le valutazioni superficiali e gli stereotipi, tra cui appunto il più citato: “non si può più dare tutto a tutti”, fastidioso soprattutto per le molte persone con bisogni elevati e di lungo termine, che potrebbero facilmente obiettare che non hanno mai visto né il tutto né tantomeno il tutti.

In questa prospettiva, conformarsi al “bagno di realtà” significa dare poi il via libera non a soluzioni alla sostenibilità del sistema, ma a renderlo meno equo, con la nascita di una sanità di serie A per gli agiati/ricchi ed una di serie B per i meno agiati, che verrebbero penalizzati. A riprova di un tale rischio, giova ricordare gli effetti perversi che già si possono osservare in analogia in altri ambiti di servizi alla persona. Meccanismi selettivi di accesso e uso di servizi pubblici sono già stati “sperimentati” in diversi settori costitutivi di una società che volle anni fa dotarsi di servizi pubblici essenziali per progredire verso le pari opportunità.

Penso, tra quelli oggi sotto pressione per motivi di bilancio, innanzitutto alla scuola, in cui le politiche sono orientate ad aumentare la presenza dell’offerta privata, che va sempre più espandendosi a scapito di quella pubblica, scelta invocata in nome del rispetto della libera scelta e di motivazioni tecniche di miglioramento dell’efficienza e della qualità. Analogamente, all’insegna del “lo Stato non può farcela”, da tempo si è affidata parte della nostra sicurezza e protezione, altro elemento cardine di servizi pubblici, ai vigilantes delle agenzie private, presentate come “integrative” del sistema pubblico, per arrivare - affermano i sostenitori del realismo - là dove “con realismo dobbiamo ammettere è impossibile che oggi, date le enormi esigenze, arrivi lo Stato”.

I problemi conseguenti sono sotto gli occhi di tutti: più costi e spese, meno equità, problemi di convivenza di questi sistemi privati accanto a quelli pubblici, sempre più in sofferenza. Infine, con sgomento assistiamo ad un’evoluzione analoga del peso del censo anche nel campo della giustizia, in cui sempre più lontana è la garanzia di equità di accesso e fruizione della protezione di diritti: spesso solamente con spese legali non alla portata di tutti si riesce ad ottenere giustizia; c’è bisogno di ottimi avvocati per avere adeguate probabilità di difendere i propri diritti, strada del resto percorsa anche da chi vuole sottrarsi a responsabilità ed addirittura disfarsi di colpe.

Il “cambiamento” in sanità è richiesto ed auspicato da tutti, ma “fare-le-riforme” non è di per sé un bene; dipende in che direzione queste vanno, da contenuti e metodi. Non si vuole qui contestare la volontà di “cambiare” o affermare la superiorità di un verso piuttosto che un altro, tuttavia domandiamoci: quale la guida: ideali o ideologie ? gli interessi di chi, la tutela di chi e cosa ? E mi pare suoni davvero stonato che un’importante categoria di professionisti “fornitori di servizi” di sistema pubblico, che dovrebbero interpretare al meglio il mandato di tutelare interessi collettivi oltre che individuali, possano far passare come ineluttabili fenomeni viceversa governabili, indirizzati sempre da precise scelte politiche, che non aspettano altro se non di ricevere supporto, motivazioni e giustificazioni (alibi) dalla “tecnica” e dai “tecnici”.

Proseguo quindi esaminando la relazione sotto un profilo tecnico, di merito generale e specifico.

Colpisce, ove si prospettano soluzioni alla in-sostenibilità del SSN, l’assenza di citazioni delle evidenze che mostrano come siano i sistemi sanitari pubblici, e non quelli privati od assicurativi, ad essere maggiormente cost/effective. Né di quelle per cui in momenti di recessione economica, depressione industriale ed occupazionale (ed anche reattiva nel profilo medico clinico-individuale) facilmente si instaurano circoli viziosi temibilissimi (tragici): aumento delle persone che rinunciano a curarsi; riduzione dei livelli di salute in ampi strati della popolazione e perdita di capacità produttiva del Paese; calo del benessere collettivo ed individuale, e conseguente riduzione della capacità di spesa individuale (NB: l’espansione del liberismo strutturalmente sta inducendo salari sempre più bassi), con calo della speranza/fiducia nel futuro e, inevitabilmente - forse di maggiore interesse per i liberisti - ridotta propensione al consumo, calo della domanda e della produzione. Visto che da alcune parti “tecniche” si usano stereotipi negativi (“non più tutto a tutti”), mi piacerebbe vedere a contrappeso – se non altro sul piano comunicativo - prendere piede altri, a valenza positiva; ad esempio: “la salute è un investimento, non una spesa; non è solo costo, ma risorsa umana, sociale, economico”.

Sempre in prospettiva tecnica, non posso nascondere poi una certa irritazione per l’uso nella relazione del termine “indigenti”. Chi sarebbero questi indigenti ? figure di persone di dickensiana memoria ? forse gli “incapienti” ? forse i poveri di sempre, sperabilmente pochi ? o i sempre più numerosi nuovi poveri che il liberismo sta facendo crescere a dismisura ? O forse coloro che hanno ridotte capacità di spesa per acquistare non beni primari o generi voluttuari, ma, prestazioni sanitarie, costretti dalla impossibilità di ottenerle dal sistema di cura pubblico, nella speranza di potersi mantenere in salute nei tempi e modi “giusti”? E davvero si pensa che i milioni di poveri oggi in Italia riceverebbero ciò che loro serve (spetta, direi anche) con i provvedimenti ipotizzati di stampo liberista ? Mi rallegro che il tema della povertà entri nei ragionamenti di chi si occupa di difesa della salute (è uno dei determinanti sociali della salute).

Meno, se penso che per dare “giusta collocazione agli ideali” (nel caso, ridurre il numero delle persone e famiglie povere) occorre prendere atto che in Italia non sono mai esistite serie e costruttive politiche per contrastare la povertà. E’ provato che per affrontarla non servono retorica e “buonismo”, ma conoscenze tecniche specifiche, uniche che possano generare interventi di provata efficacia o quantomeno evitare quelli di provata inefficacia, di cui se ne cita uno per tutti: il fallimento, preannunciato da chi conosceva la materia, della social card di tremontiana memoria, fonte di spreco insopportabile per i contribuenti e di imperdonabile umiliazione per migliaia di cittadini vulnerabili. Infine, non ritengo fuor di luogo aspettarsi da chi pratica una medicina olistica, come rivendicato dalla medicina di famiglia ex dichiarazioni WONCA, di riceverne testimonianza dall’uso di termini più empatici di “indigenti”, ad esempio: “persone fragili, vulnerabili”.

Ancora, se la convinzione è quella che “per rendere sostenibile il SSN, paghi di più le prestazioni chi più ha, così aumentiamo i ricavi delle ASL”, inviterei ad andare a verificare nei bilanci delle Asl l’entità e la consistenza di tali fonti di entrata: mi si creda, più piccole di quanto si immagini e certamente inferiori rispetto a quelle ottenibili da strumenti più equi ed efficaci. Lo stereotipo di voler ricorrere alle assicurazioni integrative (per i LEA ? o per quel qualcosa di cui è contestabile già il nome “LEA integrativi”?), in una fase in cui la capacità di spesa di milioni di famiglie si è ridotta ed il trend permane calante, appare in-credibile. Forse varrebbe la pena discuterne con chi immagina tali soluzioni, confrontarsi su come sono andate le cose (gli esiti) con il passaggio all’assicurazione obbligatoria per gli autoveicoli, in termini di costi, diritti protetti, benefici ricevuti dagli assicurati (a proposito, apprendiamo dalla stampa che oggi sono milioni i veicoli non assicurati: che ne dicono i sostenitori della causa assicurativa ?).

Sul medesimo tema, la povertà ed il sostegno ai poveri, mi sarebbe piaciuto leggere nella relazione altre proposte perfettamente alla portata della medicina generale; ad esempio, quella di istituire una raccolta dati strutturata negli studi dei MMG, che divengono osservatori permanenti per correlare la povertà allo stato di salute; per condurre il monitoraggio degli outcomes dei bisogni non corrisposti dal SSN; per identificare in modo puntuale “chi resta fuori e patisce danni”. Il MMG, prima sentinella sul territorio, (so che Fimmg aveva partecipato a lodevoli sperimentazioni locali in tal senso) potrebbe meglio di chiunque altro fornire conoscenza di fatti, persone, volti, voci, non solamente di numeri e statistiche. Iniziative che mi sembrano del tutto coerenti con il fatto che questa associazione sindacale si è spesso proclamata interprete o portavoce dei bisogni dei propri assistiti.
Infine, alcune ulteriori osservazioni tecniche di livello specifico.

Da molti anni seguo l’evoluzione della medicina generale e dei MMG; ne riconosco volentieri i meriti, tra i primi penso al ricorso all’informatizzazione, alla sensibilità verso le questioni del governo clinico, ed altri ancora. Parallelamente, continuo tuttavia ad osservare, anche nella relazione di Cagliari: a) l’assenza di una presa di posizione netta a favore di comportamenti professionali ed organizzativi nuovi, più espliciti e diffusi, riferiti anche nella terminologia non più alla medicina “generale” (evoca genericità ingenerose) ma ad una “medicina e ad un medico di famiglia”, che in modo auto-evidente e più intuitivo mostrerebbe il valore della presa in carico, dell’approccio globale, della continuità; b) la costante crescente tendenza e pressione a rivendicarne ruoli e funzioni “autonome”, attributo che - lungi da ogni provocazione - a me sembra corrispondere in realtà a volontà di “autarchia”, frenante (con le dovute eccellenti eccezioni; qui si parla di trend medi) gli interventi “integrati-collaborativi”.

In questo senso mi lasciano del tutto insoddisfatto anche i recenti provvedimenti per le nuove forme di lavoro aggregato-associato, in cui mi sembra si perpetui il medesimo linguaggio e la spinta “autonomistica”, cui si è associata qualche espressione, colta qua e là, di “appetiti primariali” (invero mi sembra smentiti nella relazione, che denuncia logiche organizzative ospedaliere od obsolete). Certo, le responsabilità di questa situazione insoddisfacente vanno equamente ripartiti con la parte pubblica, che spero vivamente cambi radicalmente atteggiamento nella definizione degli Accordi Nazionali, Regionali ed aziendali. Confido si renda più competente per superare incapacità o indecisioni nel trovare le giuste leve del cambiamento per aumentare il senso di appartenenza dei MMG al sistema, il loro inserimento in rete (nei distretti !) e, per me fondamentale, per eliminare definitivamente ogni occasione di comportamenti opportunistici e (mi scuso per il termine sintetico forse un po’ brutale) “mercenari”.

Pur consapevole che di Convegno Sindacale si trattava, mi chiedo quando potremo vedere del tutto superata la ritrosia dei MMG a voler entrare in organizzazioni ampie, per le quali accettano il ruolo guida affidato non “ad uno dei loro”, ma a persone competenti (e se saranno “dei loro”, tanto meglio). Solamente così verranno facilitati progresso e pratiche professionali più adeguate, realizzate risposte più complete alle crescenti domande complesse, articolate nel lungo termine, governo dell’integrazione e della qualità.

L’attesa per me maggiore è in un cambiamento verso sforzi congiunti di ambo le parti per stipulare accordi in cui la medicina di famiglia manifesta credibili nuove volontà di essere parte integrante, rilevante e prioritaria, di sistemi territoriali specifici, con forte identità propria, miranti all’eccellenza; in cui la parte pubblica finalmente riconosce il valore di proprie organizzazioni portanti la primary health care, re-interpretata in Italia nei diversi contesti locali (i distretti), nelle reti di cure primarie, parte del patrimonio delle comunità locali, in grado di esprimere i migliori risultati rispetto alle risorse impiegate. Ed oso ancora di più, esternando la convinzione che i tempi secondo me sono ormai maturi per aprire un dibattito serio, pacato in cui valutare il passaggio a dipendenza diretta dal SSN tutti i MMG, evenienza che colgo sempre più di frequente voluta da molti MMG. Perché non rivalutare serenamente, fuori di ogni dogma, questa opzione, in un arco temporale medio-lungo ? In ogni caso, oggi c’è bisogno di un medico di famiglia molto più inserito nel sistema sanitario.

Non posso esimermi da un’ultima riflessione su un altro passaggio della relazione che mi sembra particolarmente significativo: “ Ogni medico (dipendente o convenzionato che sia) deve rispondere a due contratti quello con il “datore di lavoro” e quello individuale con il cittadino che assume in cura”. Plaudo alla sensibilità di aver introdotto la questione della responsabilità, ma la vedo diversamente e, più esigente, la rilancio. Ritengo infatti che un sistema maturo ed avanzato debba saper creare nella larga maggioranza dei suoi professionisti (tutti !) la consapevolezza che le responsabilità oggi sono ben più ampie, quando si esercita in ambito di sanità pubblica.

Le responsabilità (potrei accettare anche il termine di “contratto”) sono più vaste, articolate; in sintesi sono rivolte certamente al paziente-cittadino, ma simultaneamente e pariteticamente è ineludibile siano dirette anche a) verso i colleghi (con rispetto delle regole di buona pratica clinica); b) verso l’Amministrazione (con rispetto delle regole di buon uso delle risorse) e, in grado non inferiore, c) verso la comunità (con rispetto degli interessi di tutti i cittadini-contribuenti, che sono – accanto alla ASL/Regione – anche committenti-datori di lavoro). Un quartetto di responsabilità che impone maggiore attenzione e sensibilità.

Infine, ritorno sull’enfasi dell’autonomia, reclamata nella relazione anche in merito alla formazione. Ammessa la possibile enfasi sindacale, credo che oggi non sia più accettabile questa idea, che l’autonomia sia rivendicata anche in questo ambito. Occorre trovare invece condivisioni, alleanze, interazioni ed ogni altro elemento collaborativo ed integrativo per realizzare in modo nuovo e diverso la qualificazione professionale di questi medici, decisivi attori del nostro SSN; ma stop ad isolamenti, autoreferenzialità, autarchie. Mi piacerebbe fosse il sindacato ad assumere l’iniziativa di guidare i MMG a chiedere di essere affiancati da altri professionisti qualificati per la loro formazione.

Perché è la formazione il migliore facilitatore del cambiamento, il più accettabile terreno di nuovo incontro e confronto, linea di sviluppo da aprire a tutti i soggetti attivi nelle buone pratiche, cliniche ed organizzative, da estendere anche alla stesura di piani e programmi condivisi, senz’altro rispettando la volontà di protagonismo dei MMG e la richiesta di più autonomia, ammissibile se presenti più solide ed oggettive competenze; situazione che rende legittima e condivisibile anche la richiesta di maggiori livelli di responsabilità (e perché no, di retribuzione).

Per non concludere, invito a ripartire da ragionamenti diversi, indipendenti, senza conformismi e stereotipi. Diversamente da quanto espresso a Cagliari, sono convinto che solamente la riaffermazione di ideali alti e forti può farci sperare in un vero cambiamento in grado di far progredire i servizi sanitari. Chi vuole davvero bene alle persone non può non accorgersi che unicamente la tensione ideale può coniugare efficacia, equità ed efficienza; può generare le nuove energie indispensabili per assicurare il rispetto di diritti primari quali la salute e la libertà.
 
Paolo Da Col (medico, consulente)
 


15 ottobre 2014
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