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Sindrome DSA. Non si può semplificare una problematica complessa

di Eleonora Franzini Tibaldeo

19 LUG - Gentile Direttore,
Vorrei poter aggiungere una mia osservazione in merito alla lettera scritta dalla Prof.ssa Margherita Pellegrino pubblicata su Quotidiano Sanità in data 10 Luglio. Cara Prof.ssa Pellegrino prima di iscrivermi alla Facoltà di medicina, ho insegnato per otto anni sostegno nelle scuole secondarie, ed essendo quindi una sua “collega”, non posso che condividere con lei molte sue affermazioni e osservazioni.

Una diagnosi di DSA o ADHD, laddove vi è un errore di diagnosi di rischio di tali patologie, non può che segnare la vita ad un bambino. Tempo fa organizzai un convegno ad Alba proprio su tale tematica, con l’intento di creare un dialogo tra genitori, insegnanti e medici, di seguito vorrei riportare le parole che la dr.ssa Marina Patrini, direttore del servizio di neuropsichiatria infantile dell’Asl-CN2, rilasciò durante un’intervista, in vista appunto della suddetta serata: “La stessa diagnosi non sempre risulta semplice e ancora oggi non risultano test specifici. Spesso ci si deve basare su osservazioni cliniche, raccolta d’informazioni da parte dei genitori, insegnanti ecc.", e questo non può che creare un certo senso di insicurezza e smarrimento. Un’indagine condotta dall’Ido (Istituto di Ortofonologia) nel 2011 aveva evidenziato che nel 23% di bambini diagnosticati come a rischio di disturbi specifici di apprendimento (DSA), vi erano in realtà bambini con difficoltà di tipo minore, definibili come secondarie o a basso rendimento scolastico, una precisazione che abbassava dunque la percentuale dei bambini a rischio, del 4% (QS 16 Dicembre 2011). Pertanto non possiamo dimenticare che la stessa diagnosi risulta difficoltosa e spesso azzardata o sommaria.

Cara Prof.ssa Pellegrino, giustamente lei parla di risolvere il tutto attraverso la didattica, ma quante volte invece, parlando con insegnanti o pediatri, risulti che gli stessi genitori siano spesso in difficoltà e pertanto deleghino totalmente la responsabilità educativa alla scuola o alle istituzioni? Quante volte il Dr. Nico Sciolla della Fimp Piemonte, per esempio, ha sottolineato, nei suoi numerosi interventi, l’importanza del coinvolgimento delle figure genitoriali in tale senso? Se il problema fosse unicamente nella didattica, semplicemente si potrebbe migliorare la didattica e tutto sarebbe meglio, ma siamo sicuri che sia sufficiente e fattibile? (la realtà purtroppo, e lo si evince dalle testate giornalistiche e dai media, la scuola, come ogni altro ambito istituzionale, è di fronte ad una profonda crisi finanziaria, pertanto si sente sempre più parlare di classi pollaio, di blocco delle assunzioni, di precariato e di una non adeguata formazione degli insegnanti).

Quanti medici invece sostengono che un’alimentazione ricca di zuccheri semplici e grassi idrogenati ma povera di fibre e vitamine, sia la causa di un accentuato metabolismo e che, oltre a creare potenziali problematiche in età adulta, possa influire negativamente sulla concentrazione e sull’attenzione del bambino?
E ancora, il giornalista Luca Poma, coordinatore nazionale dell’organizzazione “Giù le mani dai bambini”, ha più volte reso noto che infezioni delle alte vie aeree, non diagnosticate, si traducano in una carenza di attenzione e ipercinesia del bambino.
E quindi?

Quindi potrei umilmente affermare che, come più volte il prof Cavicchi ha sottolineato, essendo la problematica complessa, ed è giusto che lo sia visto che si parla di una realtà complessa, non si può semplicemente semplificare e banalizzare individuando l’origine del male e attribuendogli tutta la responsabilità, perché vorrebbe dire negare la realtà in quanto tale. Semplificare non farebbe altro che complessificare, cioè rendere ancora più difficile e intricata la situazione. Adottare un atteggiamento riduzionista, con tutto ciò che ne consegue, determinerebbe un allontanamento dai bisogni del bambino, si delegherebbero le responsabilità degli attori alle istituzioni o ad una diagnosi, o ad altre cause, senza ovviamente rispondere a tali bisogni espressi o meno.

Può un farmaco o una diagnosi o una didattica specifica realmente aiutare? In parte sì, teniamo presente che esistono dei bambini che effettivamente mostrano delle anomalie a livello neuronale, ma gli altri invece? Quanta importanza diamo invece ai determinanti di salute: Il bambino ha la possibilità di giocare immerso nella natura? Fa attività fisica regolare? Segue un’alimentazione adeguata alla sua età? Quante ore dorme?

Pare quindi che per i bambini affetti realmente da un disturbo di tipo recettoriale o neuro-trasmettitoriale (un 4%?) la soluzione migliore sia l’utilizzo del farmaco, ma non solo! Il Dr. Benedetto Vitiello, psichiatra a Bethesda, in seguito ad uno studio da lui condotto negli Stati Uniti, aveva notato che spesso una terapia farmacologica associata ad una terapia comportamentale, davano ottimi risultati (e aggiungerei con una didattica adeguata).
Ma, ripeto, quanti sono realmente i bambini affetti da tale problema?
 
Eleonora Franzini Tibaldeo

19 luglio 2014
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