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PMA, non sottovalutare il ruolo del padre 

di Paola Binetti

16 SET -

Gentile Direttore,
sono passati 20 anni dalla approvazione della legge 40 sulla PMA: “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”. E la domanda che in questi giorni è rimbalzata sui Media può essere sintetizzata con queste poche parole: servono ancora i padri oppure la loro è una funzione meramente riproduttiva? La donna può davvero far da sé per educare un figlio e il figlio può rinunziare alla ricchezza affettiva e valoriale di cui un uomo è espressione viva e concreta? Basta uno spermatozoo, o poco più, per garantire il diritto di un figlio ad avere una famiglia?

Il no della legge 40 a questo interrogativo è chiaramente espresso dall’articolo 5, che viene attualmente messo in discussione, dopo il caso sollevato dalla signora Evita, donna di 40 anni, single, ha chiesto di poter accedere alla PMA in un centro di fecondazione assistita in Toscana. Il Tribunale di Firenze ha sollevato la questione di legittimità costituzionale e la giudice, a cui è stata sottoposta la richiesta, ha rimesso la questione alla Consulta. A suo avviso ci sono sufficienti motivi per dubitare della legittimità dell'articolo 5 della legge 40, che consente l'accesso alle tecniche di fecondazione medicalmente assistita esclusivamente alle coppie di sesso diverso e non alle persone singole.

Dopo 9 anni dall'ultimo intervento la Corte costituzionale tornerà quindi a esprimersi sulla legge 40/2004, in particolare sull'articolo 5, che prevede il divieto di accesso alle tecniche PMA da parte di persone single. Per afferrare il senso dell’articolo 5 della legge 40 occorre ribadire il principio fondamentale che parte dai bisogni del bambino e non da quelli della coppia. Il bambino, ogni bambino, come ha stabilito la Corte dell’AIA, ha diritto ad avere una famiglia, formata da una madre e da un padre, da un uomo e da una donna. E questo è lo status attuale della legge. Non esiste il diritto della coppia ad avere un figlio. È il bambino ad avere il diritto ad avere un padre e una madre; diritto che sussiste anche quando la coppia si separa e occorre individuare le soluzioni più efficaci per continuare a garantire al bambino questo diritto, a meno che non si tratti di un padre violento e pericoloso.

In questa logica il principio di non discriminazione andrebbe applicato alla relazione madre-padre, perché hanno entrambi gli stessi diritti e doveri nei confronti del figlio e non al confronto tra coppie di sesso diverso e persone single, dal momento che il confronto non regge, tante sono le differenze che separano i due sottogruppi. Del resto nella recente battaglia per la tutela dei diritti, ad esempio, si difendono con forza i congedi obbligatori di paternità, per gli evidenti benefici che ne traggono i figli, come confermano anche recenti scoperte delle neuroscienze. La discriminazione, in fatto di congedi, sembra privilegiare le donne, ma in realtà carica ulteriormente sulle loro spalle una serie di obblighi che vanno ad incidere anche sul piano professionale, mentre impediscono alla figura paterna quella intimità relazionale con il figlio, che ne facilita uno sviluppo sereno ed equilibrato.

Non a caso il dibattito politico si vede obbligato a ripensare i congedi di paternità e maternità in chiave genitoriale, perché i figli sono della coppia e perché da questa nuova visione il bambino trae nuovi e più efficaci stimoli per il suo sviluppo. Gli studi di neuroscienze e di psicologia dell’età evolutiva hanno identificato nei primi mille giorni di vita, circa i primi tre anni, la fase più delicata per lo sviluppo dell’empatia, dell’autostima, del controllo delle emozioni, che contribuiscono maggiorente allo sviluppo cognitivo e al comportamento sociale. Un bambino può rimanere orfano per mille ragioni, ma ha avuto pur sempre un padre, ben identificato, che ha contribuito a definire la sua identità, oltre che il suo mantenimento. Altrimenti la donna si troverebbe sola a far fronte a tutti gli oneri della maternità sia sul piano psicologico che su quello materiale.

Nel caso della fecondazione affidata ad una donna single, ciò che si sancisce inevitabilmente però è la irrilevanza della figura paterna, non è vero che la sua presenza è superflua; se il padre è presente e condivide con la madre la responsabilità genitoriale la differenza in famiglia è radicale. Diventare padre sollecita una ridefinizione dell’identità maschile, apre ad un uomo gli ampi spazi della cura, con la sua specifica dimensione di presa in carico interpersonale, offre un’alternativa alle logiche di potere di un patriarcato ormai passato di moda. I divari di genere si riducono e si compensano anche in questo modo, senza dimenticare che un’effettiva parità tra i genitori può rappresentare un ottimo incentivo ad una natalità in crisi come accade in Italia. Per questo auspichiamo che la Corte sia molto prudente nel suo pronunciamento e nello stesso tempo sia il più lungimirante possibile. Desiderare un figlio è cosa e buona e giusta ma per disinnescare la sindrome delle culle vuote occorre risvegliare il desiderio di genitorialità e per questo è necessario che i genitori siano davvero due, una madre e un padre, nella loro specificità di genere.

Paola Binetti



16 settembre 2024
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