Gentile direttore,
è di alcune settimane fa la notizia di maltrattamenti e violenze all’interno di un centro di riabilitazione di Roma. Dieci operatori sono stati posti agli arresti domiciliari in misura cautelare. Dopo il clamore e l’indignazione iniziale, non se ne parla già più. Fino al prossimo evento, pronti di nuovo all’indignazione e alla condanna.
Purtroppo, però, non è la prima volta che leggiamo notizie di questo tipo, di violenze, di soprusi di ogni tipo nei confronti di persone rinchiuse in strutture dove ci si dovrebbe prendere cura di loro, ed invece accade altro. Strutture per disabili, per persone con sofferenza mentale, per anziani, ma anche carceri e centri per migranti, fino agli asili per bambini.
Strutture destinate a persone che hanno minori capacità e possibilità di autorappresentarsi, fragili, spesso in situazione di oggettivo disagio, di marginalità.
Ovviamente, la magistratura deve fare il proprio lavoro, ed i reati accertati puniti. Ma non ha senso, ancora una volta, chiedere pene e sanzioni severe, pene esemplari, se non per mettere in pace la coscienza di tutti.
Oggi più che mai, nel centenario della nascita di Franco Basaglia, colui che ebbe il coraggio di dire “E mi no firmo”, che ha avuto il coraggio di denunciare la violenza dell’istituzione totale, dove non ci sono più persone, ma cose, che è riuscito a far chiudere i manicomi, dobbiamo davvero tornare a porci delle domande, a riannodare i fili di quel pensiero, in un mondo e in una società in cui le disuguaglianze aumentano, le fragilità aumentano, e le persone sono sempre più sole.
Dobbiamo avere il coraggio di ripensare la residenzialità, guidati dalla rivoluzione basagliana, di denunciare il fatto che certi luoghi sono istituzioni totali, proprio come lo erano i manicomi, impermeabili all’esterno, che vanno pertanto aperti, resi trasparenti, attraversabili, messi in relazione con il territorio.
Indubbiamente ci sono situazioni in cui le persone hanno necessità di trovare risposte, cure adeguate, che non possono essere garantite a domicilio, ma devono essere luoghi aperti al territorio, trasparenti, attraversabili, che mettono al centro la persona ed i suoi bisogni, fuori da logiche di risparmio e di mercato, in profonda connessione con il territorio e con la società in cui si trovano.
Non serve reclamare controlli a tappeto, videosorveglianza, pene esemplari per chi mette in atto quei comportamenti: serve un cambio di passo, come fu nel 1978. Non dobbiamo escludere, ma includere, non soluzioni che servono solo a nascondere la realtà di un disagio che non si vuole altrimenti affrontare. Solo in questo modo potranno essere garantiti i diritti di tutti: di coloro che hanno necessità di essere presi in cura, e degli operatori, che non sono e non devono essere custodi.
Per queste ragioni, a partire da episodi come questi, oltre che da quanto si sta muovendo a livello governativo, penso al disegno di legge 1179/2024, che di fatto rispolvera la logica manicomiale, contro il quale va sostenuto convintamente l’appello “Fermare una tragica nostalgia di manicomio, e reagire” promosso dal Coordinamento nazionale per la Salute mentale già firmato da decine di Associazioni e centinaia di importanti personalità, ritengo indispensabile una forte mobilitazione della società civile, e una sollecitazione alla politica, perché si torni a parlare con forza, e a denunciare, ogni istituzione totale, ogni risposta che esclude. Dobbiamo con determinazione rilanciare il tema del territorio, dei servizi di prossimità, territoriali, dell’integrazione sociosanitaria, e del budget di salute.
È nel territorio che si deve trovare una risposta di sistema ai bisogni individuali delle persone attraverso una precisa responsabilità pubblica.
Per questo, oltre ad un profondo ripensamento della presa in carico di anziani, persone con disabilità, soggetti fragili, vanno chiusi i CPR, e ripensato il carcere davvero come extrema ratio, promuovendo vere misure alternative e strutture diverse dove espiare una pena pienamente aderente al dettato costituzionale.
C’è, oggi più che mai, l’esigenza di un momento di confronto condiviso a livello nazionale, fra tutti i soggetti che da sempre si occupano di diritti e salute delle persone. La conferenza nazionale salute mentale, autoconvocata per il 22 e 23 novembre prossimo, che coinvolgerà decine di associazioni e centinaia di persone e operatori, potrà e dovrà essere un momento di riflessione e proposta su questi temi.
Daniela Barbaresi