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Elogio della medicina difensiva

di Franco Cosmi

26 APR -

Gentile Direttore,
anche per la salute, e forse soprattutto per la salute, il bisogno di certezze e sicurezza è infinito ma si accompagna a risorse scarse. È un bisogno del paziente assalito dalla preoccupazione e dall’ansia per i suoi disturbi, è un bisogno del Servizio Sanitario Nazionale con i LEA per la tutela della salute dei propri cittadini, è un bisogno del medico per la sua pratica e per la tutela della propria professionalità. Ciascuno di questi attori ha interesse al livello più elevato di certezza e sicurezza. Tutto questo si scontra con le risorse scarse del paziente, del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e del medico.

Il paziente si fa forte dei diritti costituzionali e il SSN della tela burocratica della medicina amministrata. La responsabilità (il cosiddetto fiammifero acceso) rimane nelle mani del medico, che, naturalmente cerca di applicare le proprie conoscenze e competenze nel migliore dei modi. È proprio lui però, insieme agli altri professionisti della sanità che viene assalito, denigrato, minacciato, vituperato, denunciato, indagato, a volte menato. E allora che fa: come ogni buon soldato cerca di difendersi con le armi che ha. Richiede esami, manda dallo specialista, cerca di rassicurare il meno possibile il paziente per non incorrere nel sospetto di superficialità, cerca di rimpallare il problema, cerca di mantenersi buono l’amministratore, in un prestazionificio inconcludente a spirale senza fine. Perché condannarlo visto che dovrebbe essere un amico del paziente, un confessore, ma è diventato uno che bisogna controllare, consigliare, indirizzare, diffidare?

Nella diffidenza non ci può essere fiducia ma solo buone e corrette prestazioni anche senza condivisione. Naturalmente quasi tutti cerchiamo di non identificarci in questo stereotipo e le anime belle dicono che non è così. In effetti non è sempre così. Una buona relazione medico-paziente fondata sulla intelligenza e sulla fiducia di entrambi gli attori può evitare l’esasperazione di una medicina che si vorrebbe certa e sicura “con tutti i macchinari che si hanno oggi a disposizione”. Con tutte le promesse fatte abbiamo perso la cultura della probabilità, dell’imparare a rischiare nel prendere le decisioni giuste, a rassegnarsi quando necessario.

Spettacolarizzare la malattia, parlare di sconfiggerla, è l’atteggiamento in qualche modo insolente, sia pur involontario, di chi vuole diventare protagonista anche nella sofferenza. È anche in qualche modo irriguardoso verso chi non ce la fa, perché l’attaccamento alla vita non è una gara dove qualcuno vince e qualcuno perde. Si sente dire soprattutto da persone dello spettacolo ma anche da comuni cittadini con la comunicazione facile: “ho sconfitto il cancro”. Non si capisce quale battaglia hanno combattuto, se c’era da combatterla, con quali mezzi.

È una terminologia fastidiosa perché personalizza un problema che è personale per la sofferenza non per la risoluzione ed innesca speranze ed illusioni che fanno male al sistema sanitario e alla relazione medico-paziente. La malattia non si sconfigge, si cura con i provvedimenti migliori disponibili da offrire a tutti, che aumentano la probabilità di guarigione secondo un meccanismo casuale. Chi guarisce è quindi da considerarsi più fortunato nella lotteria della vita rispetto a chi non è guarito pur essendosi sottoposto alle stesse cure. Sconfiggere la malattia è un concetto ideologico che non appartiene alla scienza. Anche di una terapia efficace è impossibile predire chi usufruirà dell’effetto terapeutico in termini di miglioramento sintomatologico e di sopravvivenza, chi solo dell’effetto farmacologico e anatomico e chi avrà effetti collaterali anche gravi. Chi non ce la fa e non vuole essere da meno degli altri, deve accusare qualcuno e quelli più a portata di mano sono i medici e gli altri operatori sanitari in prima linea. Non sempre questi sono immuni da responsabilità come è fisiologico in tutte le professioni, ma non è fisiologico l’accanimento contro di loro.

Nel mio pensare, quando c’è un problema non bisogna solo denunciarlo ma anche cercare la soluzione. Quella metafisica sarebbe la dotazione del medico della sfera di cristallo, come pretenderebbe qualche politico, amministratore e magistrato. Qualcuno spera nell’intelligenza artificiale. Le aspettative messianiche generalmente sono destinate a fallire o a creare problemi ancora più grandi. Quella più realistica è la realizzazione di una vera centralità della relazione medico-paziente, liberata da tutte le pastoie burocratiche e dagli impropri orpelli amministrativi, in un processo decisionale condiviso in cui la declamazione “Nessuna decisione su di me senza di me”, diventi realtà con un paziente realmente informato e cosciente dei concetti di rischio, probabilità, casualità e sostenibilità. Senza conoscenza non ci può essere condivisione ma solo consenso o dissenso in base alle proprie credenze e reciproca diffidenza.

Senza sforzo conoscitivo la condivisione è sterile. Con il medico amministrato a prestazione ed il paziente cliente informato, si va, o si rimane, verso una medicina di mercato in cui vale la nota regola della domanda-offerta-prezzo che, nel caso della salute, non garantisce le migliori cure basate sull’evidenza ma semplicemente quelle derivanti dalla credenza del medico, dello scienziato, del paziente, da certezze inventate o da mode di vuota banalità. È esclusivamente nella relazione medico-paziente, condividendo responsabilmente le scelte, che bisogna decidere quale è il livello di rigore scientifico, evidenza, probabilità, sicurezza e rischio disposti o non disposti ad accettare ed i relativi costi a carico della collettività e del paziente.

Sarà necessario intendere il concetto di relazione come “atto condiviso non giudicabile” e la prestazione come “atto tecnico giudicabile”.

Altrimenti varrà il provocatorio elogio della medicina difensiva.

Franco Cosmi

Cardiologo



26 aprile 2023
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