Gentile Direttore,
le dichiarazioni rilasciate dal ministro Bernini il 12 gennaio al Corriere della Sera hanno scatenato una ridda di interventi da parte di diversi Presidenti di Regioni. Tutti , senza distinzione di colore politico, all’insegna del vecchio mantra della abolizione del numero chiuso. Che poi tanto chiuso non è, se nel 2022 ha messo a disposizione 14.740 posti, al netto delle iscrizioni in Università private e straniere, che rappresentano, per chi ha risorse economiche, la "porta di servizio”, aumentando le disparità sociali e minando gli obiettivi di programmazione.
Siamo di fronte ad una ricerca di capri espiatori e a soluzioni futuristiche, semplici quanto sbagliate, che attaccano il numero chiuso come “tappo vero e proprio alla programmazione delle nuove assunzioni sanitarie”, che credevamo costituito dal tetto alla spesa, per nascondere il proprio fallimento politico nella tutela della salute dei cittadini.
Al coro che chiede di aumentare gli iscritti si è unito anche il Ministro Schillaci. Ma tant’è. La coazione a ripetere parole d’ordine con scarsa conoscenza della realtà ha la meglio nel ping pong tra responsabilità e demagogia. Oggi, però, anche la politica si fa con i dati e su questi occorre ragionare, come l’Anaao fa dal 2010 producendo una ricca bibliografia.
Per quanto riguarda i criteri di accesso, essi vanno, certo, modificati, senza escludere dal tavolo i sindacati dei medici ospedalieri e cercando di evitare ricorsi amministrativi a tribunali che hanno già dimostrato una elevata propensione ad accoglierli.
Quanto alla abolizione del numero chiuso, alias programmato, i sostenitori del modello francese di selezione al secondo anno ignorano che in Francia, in media, soltanto il 20% degli studenti che si iscrivono ad accesso libero al primo anno riesce ad ottenere l'accesso al secondo. Il restante 80% si ritrova ad aver sprecato tempo ed energie,potendo decidere di ritentare l'anno successivo oppure indirizzarsi verso altre facoltà.
Ma perché, ciclicamente, torna questa idea di abolire il numero chiuso a Medicina? A pensar male, si sa, si fa peccato, ma spesso si indovina. Al netto di intenti demagogici, un maggior ingresso di studenti nelle aule universitarie determina un maggior introito per le casse (tasse di iscrizione) e per i vari indotti paralleli (testi universitari, corsi di preparazione agli esami).
Inoltre, la pletora di laureati è funzionale all’emergere di una generazione di medici a più basso profilo formativo, da impiegare nel sistema sanitario con uno inquadramento ed uno stipendio inferiore a quelli attuali e con mansioni dedicate e tabellate, come i paramedici d’urgenza americani o gli ecosonografisti francesi.
Così da risparmiare sui costi del personale e garantire un SSN al ribasso. Non a caso, le due principali associazioni europee che si interessano di formazione medica, EJD (European Junior Doctors’ Association) e UEMS ( European Union of Medical Specialists), convengono sul fatto che l’apertura libera dell’accesso a Medicina non può garantire un adeguato livello formativo degli studenti, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto pratico, dove tra l’altro in Italia siamo già carenti.
Venendo ai dati, nel 2022 si sono presentati al test di ammissione a Medicina oltre 65.000 studenti. Ammettendo tutti, chi risolverà il problema di trovare aule con i necessari supporti tecnologici per questa marea di giovani? O si pensa di utilizzare i cinema come negli anni 70? Già con i numeri attuali si parla (vedi Il Secolo XIX di Genova) di aule non capienti, turni e lezioni sul pavimento. E strutture, universitarie e non, dotate del giusto case mix per garantire anche il tirocinio professionalizzante? Rimediando anche alla attuale carenza del personale docente di ruolo necessario per insegnare ad un numero elevatissimo di studenti.
Ogni qualvolta si parla di carenza di medici si alimenta il gioco degli equivoci tra “medici” e “medici specialisti”, gli unici che possono lavorare nel e per il Ssn. In Italia mancano medici , rimbomba su tutti i media la notizia.
Notizia monca perché in Italia mancano medici sì ma medici specialisti, soprattutto in alcune branche. Il numero di medici, intesi come laureati in medicina e chirurgia, è in linea con quello degli altri paesi sviluppati (4 per 1.000 abitanti), se non superiore alla media europea, mentre mancano i medici specialisti perché per anni non sono stati finanziati in maniera adeguata i contratti di specializzazione, creando il famigerato imbuto formativo. Che è il prodotto della differenza tra il numero dei laureati e quello dei contratti di formazione specialistica disponibili, che solo negli ultimi 4 anni si è ridotta con il finanziamento di 52.006 contratti.
Il dato che dovrebbe allarmare non è la carenza di medici laureati quanto la loro drammatica e ingravescente disaffezione per alcune scuole di specializzazione visto che il 18% dei posti non viene coperto, con picchi preoccupanti per patologia clinica, microbiologia, medicina di emergenza urgenza (dati Anaao Giovani), e il tasso di abbandono raggiunge l’8,9% (dati ALS).
La disaffezione abbraccia l’intero sistema di cure pubblico e, certo, non si risolve aprendo la facoltà di medicina a decine di migliaia di studenti, in una riedizione della pletora medica che produce sbocchi lavorativi solo nel privato e in quel sottobosco di cooperative che oggi impera,senza regole e senza controllo, anche negli ospedali .
L’attuale carenza di “medici specialisti”, e non di “medici”, deriva dagli errori commessi nel decennio passato ma è giusto cominciare a chiedersi se gli attuali ingressi al Corso di Laurea siano congrui rispetto alle esigenze future del SSN. Gli studenti iscritti nell’anno accademico 2022/2023 saranno pronti per il mondo del lavoro specialistico solo nel 2033, dopo un lungo e duro percorso di studio e formazione che, al netto degli abbandoni, ne porterà alla agognata meta circa 13.000.
Quindi, ne formeremo almeno 130.000 nei prossimi dieci anni. Periodo in cui, però, il fabbisogno di specialisti nel SSN per garantire il turnover sarà quasi dimezzato, anche se si dovrà tenere conto dell’attuale sottodimensionamento delle dotazioni organiche, delle nuove esigenze emerse con la pandemia, delle fughe (3.000 nel 2019) indotte dal peggioramento delle condizioni di lavoro negli ospedali pubblici. Ponendo attenzione ad evitare il costituirsi di un imbuto lavorativo.
Il rischio mortale che corre la sanità pubblica è costituito dalla mancanza di specialisti ora, e non tra 10 anni. Nel periodo 2023-2027 sono stimate, tra pensionamenti e fughe, circa 35.000 uscite dal SSN, a fronte delle quali avremo una possibilità di sostituzione capace solo di mantenere lo status quo, cioè un contesto organizzativo palesemente carente, come evidenziato dalle criticità organizzative emerse durante l’epidemia e dalle liste d’attesa. Come sanno le stesse Regioni, che chiedono al Governo “soluzioni prontamente attuabili ed idonee ad affrontare nell’immediato la carenza di personale sanitario”.
L’incremento degli iscritti a Medicina e Chirurgia è un provvedimento sbagliato e temporalmente sfasato rispetto alla grave criticità attuale, oltre che foriero di spesa per la necessità di aumentare parallelamente gli investimenti nella formazione post laurea per assicurare che per ogni laureato sia disponibile un contratto di formazione specialistica o una borsa di medicina generale.
Occorre, invece, sulla falsariga di quanto già fanno i corsisti in MG, anticipare la età di ingresso al mondo del lavoro dei medici specializzandi degli ultimi due anni, con un contratto a tempo determinato a scopo formativo, secondo i criteri approvati dalla Conferenza Stato Regioni, in tutta la rete ospedaliera con opportuni incentivi per gli ospedali periferici. E riscrivere la normativa concorsuale per la dirigenza, datata 1997, abolire il tetto di spesa alle assunzioni e, soprattutto, migliorare, attraverso i CCNL, le condizioni di lavoro e i livelli retributivi dei medici in servizio per arginare la loro fuga dal SSN.
Servono investimenti sulle risorse umane se è reale la preoccupazione per la disaffezione o “crisi di vocazione” del personale del Servizio Sanitario Nazionale, e non solo nei settori legati alla emergenza. Non abbiamo più molto tempo, e sicuramente non un decennio, per disinnescare la bomba professionale, generazionale e sociale innescata dal flop della programmazione ministeriale, dal fallimento del sistema formativo abbarbicato al monopolio universitario, dal definanziamento progressivo della sanità pubblica con il corollario della falcidia di posti letto, pre-requisito di una determinazione al ribasso del personale. Se non si vuole lasciare affondare il servizio sanitario, pubblico e nazionale.
Le assicurazioni aspettano il passaggio del cadavere sulle rive del fiume.
Pierino Di Silverio