Gentile Direttore,
nell’ultimo periodo è consuetudine, per le principali reti televisive nazionali, trasmettere quotidianamente almeno un programma nel quale si parla della “crisi del nostro SSN”. Di volta in volta la notizia viene declinata in modo differente, considerando le plurime sfaccettature della questione.
Vengono sapientemente snocciolati ed esaminati i numeri del personale, i costi, il numero di Pazienti in attesa nei vari pronto soccorso della Penisola e via discorrendo.
Qualche volta, i programmi più virtuosi, propongono anche ipotetiche soluzioni o, ancor più raramente, chiamano in causa la politica.
Tuttavia, mi preme sottolineare come il comun denominatore di tali disamine, alla fine, risulti essere sempre la “mancanza (reale o relativa) di Professionisti Sanitari”.
L’analisi di quest’aspetto, specie negli ultimi giorni, si è arricchita di ulteriori considerazioni, perché, finalmente, i media hanno iniziato ad ammettere che, forse, non si tratta di una vera e propria carenza in valore assoluto ma di una carenza di medici disposti a lavorare nelle strutture pubbliche del nostro servizio sanitario.
I più temerari si sono spinti ancora oltre e hanno cominciato a parlare di “fuga” dei medici e degli infermieri dal SSN.
Ed in effetti, considerando i dati che nel 2022 parlano di circa 100 dimissioni al mese soltanto tra i medici che prestano servizio nei Pronto Soccorso, il termine “fuga” mi sembra realmente quello più appropriato.
Ulteriori sforzi, a questo punto, sarebbero necessari al fine di comprendere le molteplici cause di quest’ultimo fenomeno, onde evitare possibili strumentalizzazioni o eccessive semplificazioni che risulterebbero fuorvianti e assolutamente controproducenti.
Qualcuno ha affermato che il principale problema è da ricercarsi nell’inadeguatezza degli stipendi ma, tale aspetto, seppur importante non può essere considerato come la sola causa di questa “fuga” (verso la libertà?).
D’altronde, a conferma del fatto che “i soldi non sono tutto e non fanno la felicità”, la quasi totalità dei Medici impegnati nel servizio pubblico, hanno abbandonato da anni l’ambizione di girare su automobili lussuose e di fare party sugli yatch dei milionari.
Quasi tutti han capito ed accettato che, nell’attuale scenario socio-economico, un testimonial dei panettoni o un giudice di “ballando con chicchessia”, economicamente, “conta” di più di un Medico che fa un turno di guardia in pronto soccorso il 25 dicembre (Sic!!! Un giorno a caso).
Ecco che - anche alla luce delle recenti notizie sul nuovo CCNL che pare destinato a non impattare in modo significativamente positivo sulle nostre buste paga - potrebbe essere il caso di cominciare a pensare a soluzioni che mirino a migliorare la qualità del lavoro, restituendoci quella necessaria “serenità nelle cure”, di cui tutti noi abbiamo bisogno per svolgere al meglio il nostro lavoro e per garantire a tutti i nostri pazienta la, ancora più necessaria, “sicurezza nelle cure”.
A tal proposito, aspetti fondamentali da considerare dovrebbero essere la “sicurezza sul luogo di lavoro” - ripetutamente tirata in ballo anche in relazione ai ripetuti episodi di violenza (spesso ingiustificata) perpetrata ai danni degli operatori sanitari - e una attenta valutazione e rimodulazione dei profili di responsabilità, specie in ambito penale, del Medico.
In particolare, quest’ultimo aspetto seppur considerato importantissimo da parte di tutti gli addetti ai lavori, è stato sempre trattato come un tabù; una sorta di “vaso di pandora” da tenere accuratamente chiuso e che solo pochi coraggiosi, sporadicamente, hanno tentato di aprire.
Eppure, confrontandoci anche con altri stati Europei, appare evidente una certa discrepanza di trattamento tra noi e i Colleghi di altre nazioni, dove spesso il modello predominante persegue la strada del sistema “no fault”; un meccanismo che implica la rinuncia all'azione legale, che risulta essere la norma nei Paesi Scandinavi e che i nostri vicini Francesi hanno introdotto già dal 2002 su base “opzionale”.
Utile, a tale scopo, potrebbe essere anche quello di dare il giusto peso alla famigerata “gradazioni della colpa” (colpa grave e colpa lieve), in modo di estendere in maniera inequivocabile e “coraggiosa” la causa di esclusione della punibilità a tutti i casi di “colpa lieve”.
Infatti, va ricordato, che oggi, in Italia, l’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa ed oltre a quella grave, anche se l’evento si è verificato per colpa lieve dettata da imprudenza o negligenza o se l’evento si è verificato per colpa lieve dettata da imperizia nelle seguenti due ipotesi:
1) errore rimproverabile nell’esecuzione dell’intervento quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o, in mancanza, dalle buone pratiche clinico-assistenziali;
2) in quella di errore nell’individuazione della tipologia di intervento e delle relative linee guida (definita imperizia in eligendo) che non risultino adeguate al caso concreto.
A scanso di equivoci, occorre sottolineare come la depenalizzazione dell’atto medico non equivalga all’impunità ma, al contrario, essa potrebbe garantire ai Pazienti la certezza di un risarcimento (valutato da apposite commissioni adeguatamente formate e selezionate) in tempi molto più rapidi, proprio come accade in Francia.
Qualsiasi lavoratore - a parte rari casi da ritenersi patologici – non ama sbagliare durante l’esecuzione dei propri compiti, tuttavia l’errore (a qualsiasi livello) è da considerarsi insito nel fare e nel lavorare e pertanto una maggiore attenzione a tali aspetti (specie in ambito sanitario ed anche quale atto di civiltà) dovrebbe essere un obbligo morale della politica e delle Istituzioni, al fine di restituire a tutti gli operatori sanitari quella serenità sopra menzionata e con l’intento di garantire la sopravvivenza (in salute) del nostro cagionevole ma preziosissimo SSN.
Zairo Ferrante