Gentile Direttore,
spiace che la collega Mancin abbia interpretato la mia lettera del 22 giugno come un de profundis per la medicina generale. In realtà era solo il tentativo di descrivere i meccanismi socioculturali che possono rendere conto di alcuni comportamenti e del malessere della categoria: “fisiologica” differenziazione tecno-scientifica, induzione della domanda e tendenze difensive, rendite autoreferenziali e concorrenza interprofessionale, dinamiche amministrative “perverse” e privatizzazione strisciante, attese irrealistiche e pervasiva medicalizzazione etc. Le contraddizioni del sistema convergano sui due servizi a stretto contatto con la società sui quali hanno un impatto specifico: il PS e la medicina generale.
Sarebbe facile interpretare la crisi in chiave complottista, per una sorta di congiura ai danni del “povero” generalista, capro espiatorio delle disfunzioni sistemiche ed oggetto di una strategia volta alla sua liquidazione; lo spettro del “fallimento” della MG si aggira da 20 anni e si è riacutizzato in corso di pandemia con la campagna di delegittimazione mediatica per regolare i conti con un presunto corporativismo libero-professionale. La M.G. non è stata in grado di compensare la subordinazione culturale, aggravata dalla sudditanza sindacale verso una controparte priva di strumenti per percepire e valutare la radicalità della crisi, fino a dare per scontato un lustro di caos e disagio per la gente.
Le tendenze sopra schematizzate generano paradossi e contraddizioni, che si annidano pure nelle proverbiali soluzioni semplici per una crisi maledettamente complessa. Vediamone un paio, perché senza una solida teoria causale del problema e del cambiamento non se ne esce.
Al diffuso clima emotivo di scoramento e demotivazione fanno da contrappeso le indagini demoscopiche che attestano sorprendentemente il gradimento della M.G, come ad esempio quella condotta recentemente dall’istituto Piepoli sulla fiducia verso il MMG. Le diffuse proteste della gente per i disagi dovuti ad un ricambio generazionale mal gestito confermano che il radicamento è frutto delle peculiarità socio relazionali e della visione unitaria delle cure primarie. Come accade che una debole identità professionale venga riconosciuta e legittimata socialmente? Insomma il MMG è il più amato dagli italiani ma paga emotivamente il successo sociale con un prezzo personale per il suo ruolo di parafulmine sistemico. Un bel rompicapo che la ricerca sociologica potrebbe forse sciogliere.
E’ grazie all’orientamento olistico alla persona, non in chiave new-age o alternativa ma di stampo neo-ippocratico, che nonostante tutto il generalista regge la soverchiante concorrenza della tecno-medicina. Tuttavia la terapia della crisi identitaria ripropone, in modo un po’ paradossali, la soluzione specialistica, che imbocca due strade. Da un lato ci si rifugia nella via di fuga individuale dello special interest, per recuperare credibilità e autorevolezza; il “piccolo specialista” se non altro ha il pregio della spendibilità pratica.
Dall’altro si alimentano le attese palingenetiche verso un’etichetta ontologica, come quella di “specialista in MG”, che confida nella virtù di un ossimoro; davvero qualcuno è convinto che il futuro “specialista in generalità” recupererà l’identità e autorevolezza, reggendo la concorrenza di una differenziazione tecno-scientifica frammentata in sub-sub-specialità? Davvero la combinazione dei determinanti socio-culturali ed epistemici della crisi verrà d’incanto superata da una sibillina targa di “specialista generalista”, ovvero senza un oggetto specifico?
Sono solo alcuni dei nodi da sciogliere per uscire dallo stallo attuale. Si sa che ogni passaggio epocale, ogni crisi è gravida di rischi regressivi ma anche di opportunità di cambiamento e rigenerazione. La mia proposta? Far leva sulla dimensione comunitaria per coniugare l’intervento di popolazione con la centralità olistica della persona; la cornice culturale e identitaria è quella della definizione Wonca, del sapere pratico, situato e riflessivo che, in riferimento alla “medicina impareggiabile” del Prof. Cavicchi, potremmo definire neo-ippocratico. Fino ad ora la ricetta è stata applicata qua e là con scarsa convinzione, per i limiti di un sindacato poco propositivo e per un deficit di strumenti organizzativi adeguati, a parte i pregiudizi della controparte.
L’occasione seppur tardiva arriva dal recepimento delle AFT, potenziale nucleo sociale fondante la Comunità di Pratica (CdP) dei medici del territorio che, in sinergia con gli interventi di popolazione nelle Case di Comunità, può innescare l’evoluzione verso un professionalismo organizzativo rivolto alla gestione della cronicità. Ad esempio il recente documento PON GOV sulla cronicità contiene diversi riferimenti al ruolo chiave della CdP, ma esclusivamente in relazione al gruppo di lavoro che ha elaborato le tesi in esso contenute; è un primo segnale anche se purtroppo nessuno è stato sfiorato dall’idea che senza la coltivazione delle AFT come CdP l’ambizioso programma è destinato ad arenarsi, al pari della Presa in carico lombarda.
Per un progetto simile servirebbe “un fisico bestiale” e mi rendo perfettamente conto, citando Edgar Morin, che “la missione si fa sempre più impossibile, ma la rinuncia alla missione è diventata ancor più impossibile”.
Dott. Giuseppe Belleri