Gentile Direttore,
l’incontro organizzato la settimana scorsa dalla Fnomceo a Roma sulla “Questione medica” è stato indubbiamente un evento di grande rilevanza che ha permesso un confronto diretto tra i sindacati dei medici e la parte politica rappresentata ai suoi massimi livelli dal ministro della Salute Speranza e dal presidente della Conferenza delle Regioni e delle Provincie Autonome Massimo Fedigra.
Non sono molte in effetti le occasioni in cui la politica si mette in ascolto in modo così attento e disponibile e questo ha permesso ai molti rappresentati sindacali presenti di porre al ministro questioni scottanti di cui ci si augura una risposta pronta dalla politica: formazione, sicurezza del lavoro, carenza di medici, parità di genere, omogeneità di contratto tra pubblico e privato, ampliamento dei LEA in odontoiatria…e molti altri indicati nei 20 punti del Manifesto pubblicato dalla Fnomceo e firmato dalle organizzazioni sindacali presenti, come base per un progetto di rinnovamento della politica sanitaria nazionale grazie alle risorse che il PNRR sta ponendo a disposizione .
Le questioni trattate sono state tutte della massima importanza ma a mio avviso la “questione medica “ ha avuto un ruolo marginale nel dibattito.
E’ stato presentato un sondaggio che dimostra che molti medici anche in giovane età vorrebbero lasciare la professione. I dati sono inquietanti: 25% dei medici tra i 25 e 34 anni e il 31% di quelli tra i 35 e i 44 anni se potessero lascerebbero la professione. La pandemia ha sicuramente acuito la situazione ma il problema era esistente anche prima.
Fare il medico non è più una professione ambita, di prestigio e ben retribuita. Oggi chi fa il medico rischia nella maggior parte dei casi di non avere un minimo di vita privata sia se lavora in ospedale sia nel territorio, con stipendi analoghi o addirittura più bassi di molti altri professionisti a cui comunque è consentito di vivere affetti, amicizie, tempo libero.
Ma quello che sta distruggendo la professione è soprattutto un carico burocratico senza precedenti che la pandemia ha reso insostenibile e che anziché diminuire continua a crescere in modo inesorabile e che sta comprimendo sempre più l’attività clinica.
Abbiamo perso ogni autonomia decisionale perché altri decidono il nostro agire, lavoriamo secondo i dettami della politica e dell’economia: siamo medici amministrati, che hanno perso le loro caratteristiche identitarie.
Anelli ha concluso il suo intervento dicendo che “I medici non sono sostituibili! Le loro competenze e abilità, frutto di lunghissimi a anni di studio e formazione, devono essere valorizzate e non banalizzate!“
Ma questo non basta ribadirlo!
Gli Stati Generali promossi nel 2018 sono stati una grossa occasione per ridefinire il medico e la medicina. Il cammino allora iniziato è stato bloccato dall’avvento della pandemia ma la conferenza della Fnomceo di questi giorni ha solo ripreso di striscio le tematiche di fondo della questione medica.
Sono certamente necessari maggiori investimenti per il personale sanitario e delle politiche sanitarie che tengano conto dei vari punti annunciati nel manifesto ma la questione di fondo rimane la necessità:
Serve un “cambio di passo” diceva Anelli all’apertura degli Stati generali e nella prefazione alle sue Cento tesi scritte per l’occasione il prof. Cavicchi precisava che “si è deciso di fare gli Stati generali perché si tratta di mettere in campo una nuova idea di medicina e di medico”.
Ecco a distanza di 4 anni e dopo due anni di lavoro e una pandemia, io questa nuova idea di medico e di medicina ancora non la vedo e la questione medica appare ancora aperta e irrisolta.
La conferenza di giovedì scorso al Teatro Argentina è stato un ottimo evento per porre questioni sindacali alla politica ma non ha risposto alle domande più profonde sul senso dell’essere medici oggi, sul futuro della nostra professione, sulla nostra identità di medici.
Ornella Mancin