Telemedicina. L’importanza di coinvolgere i pazienti
di Teresa Petrangolini
08 FEB -
Gentile Direttore,
la pandemia COVID 19 ha in qualche modo “sdoganato” la telemedicina, tema di cui si parlava – e poco praticava – da circa vent’anni e che oggi è diventata questione quanto mai attuale, soprattutto considerati i cospicui finanziamenti previsti nel PNRR. Ma che cosa ne pensano i pazienti, vale a dire i destinatari di queste nuove modalità di cura, fondate sull’uso del digitale? A guardare le associazioni che li rappresentano il consenso sembra essere ampio.
Una indagine su
“La sanità del futuro I messaggi delle associazioni di pazienti per l’epoca Covid-19”,condotta dal Patient Advocacy Lab (PAL) dell’Ata Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari (ALTEMS) dell’Università Cattolica, ci dice che sono le associazioni stesse a indicare l’uso della telemedicina (dal teleconsulto alla televisita, dalla telecollaborazione alla telerefertazione) come una delle priorità di un servizio sanitario rinnovato, che fa tesoro della lezione della pandemia e guarda al futuro verso cure più vicine al cittadino.
A fronte però di qualche regola e qualche distinguo a garanzia dei pazienti. Per esempio, un gruppo di 26 organizzazioni nazionali impegnate nel campo dell’AIDS si è interrogato su quali fossero per loro i criteri condivisibili per l’applicazione della telemedicina nel campo dell’HIV e ha stilato un
elenco di standard da rispettare. Tra questi la richiesta che la televisita parta dopo la terza visita in presenza o che l’operatore che chiama sia sempre lo stesso.
Poi ci sono associazioni che si impegnano esse stesse a promuovere progetti di telemedicina come nel campo delle malattie rare, delle malattie reumatiche, delle patologie neurodegenerative. Siamo quindi sulla buona strada.
Se esiste questa disponibilità, gli ostacoli da superare per rendere la telemedicina più “userfriendly” non sono pochi. I risultati di una
survey su 128 aziende sanitarie condotta dall’Osservatorio ALTEMS sulla telemedicina operativa ci parlano di difficoltà e scarso coinvolgimento dei pazienti nella pratica di tale metodica: poca informazione dedicata a loro e difficoltà nell’uso dei sistemi e dei dispositivi, in una situazione in cui un ruolo rilevante lo esercitano i caregiver (48%), che forse dovrebbe essere uno dei soggetti da “attrarre” maggiormente.
La stessa indagine poi rileva che solo nel 18% dei casi sono state coinvolte le associazioni dei pazienti relative alla patologia trattata. “Inoltre - citando direttamente l’indagine -, solo il 28% delle soluzioni descritte prevede la disponibilità di una App per il paziente, e solo nell’11% dei casi questa App ha anche funzionalità di formazione e informazione sull’accesso al servizio. Questo rappresenta senz’altro un fattore di difficoltà per il paziente, considerato che lo smartphone costituisce lo strumento più utilizzato (oltre il 70%) dai pazienti stessi”.
In conclusione, siamo sicuramente di fronte a una strada percorribile, addirittura auspicata, ma che non diventerà tale se non si rispettano alcune regole di base. Sicuramente quelle indicate dalle linee guida nazionali, ma anche quelle suggerite dalle associazioni dei pazienti. Soprattutto non diventerà una strada praticata se le aziende sanitarie non capiranno che, oltre a migliorare la propria organizzazione interna, sono chiamate a coinvolgere i pazienti mettendoli nelle condizioni di conoscere, capire e auspicare l’uso della telemedicina, dando loro gli strumenti più consoni, rispettando le loro esigenze. Potrebbe sembrare una frase fatta, ma la battaglia per l’uso della telemedicina o si vince tutti insieme o non si vince. Fortunatamente le premesse ci dicono che si tratta di un obiettivo raggiungibile.
Teresa Petrangolini
Direttore del Patient Advocacy Lab – ALTEMS, Università Cattolica del Sacro Cuore
08 febbraio 2022
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