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Niente risarcimento al paziente se l'infezione (Hcv) può essere stata contratta prima dell'intervento


La Cassazione (ordinanza 21929/2019) ha respinto il ricorso di una paziente che sosteneva di aver contratto l'Hcv durante un intervento di artoprotesi in cui non erano però state effettuate trasfusioni e per il quale non aveva prove che dimostrassero il nesso causale. L'ORDINANZA. 

03 SET - Se il nesso causale (il criterio del “più probabile che non”) è del tutto incerto, nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica la domanda deve essere rigettata.

A dimostrare l’esistenza del nesso causale deve essere il  paziente dimostrare l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata causa del danno.

In questo caso la Cassazione (ordinanza 21929/2919) ha respinto l’accusa a un medico (e quindi il conseguente risarcimento) di aver provocato il contagio da virus Hcv durante l’intervento chirurgico senza trasfusione. Una ipotesi valutata possibile a meno del 10% tenendo conto delle precedenti occasioni nelle quali l’ammalato ha potuto contrarre l’infezione.

Il fatto.
Una donna ha portato in causa un medico asserendo di essere stata contagiata con Hcv durante un intervento di artoprotesi al ginocchio destro, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni.

Nel costituirsi nel giudizio di primo grado, contestò che potesse ravvisarsi qualsiasi profilo di responsabilità professionale nella condotta dei sanitari, possibilità già negata da Tribunale perché la paziente aveva denunciato la malattia oltre un anno dopo la sua dimissione e in occasione dell'intervento non era stata effettuata alcuna trasfusione, Nè i sanitari dell'Istituto avevano l’obbligo di effettuare l'analisi dei marcatori virali, non rientrando gli stessi in alcun protocollo prescritto da norme o direttive internazionali, per cui è avanzata l’ipotesi che la paziente fosse già affetta dalla malattia al momento del ricovero. Anche perché tutto il materiale utilizzato in sala operatoria era sterile in quanto trattato in autoclave.
 
L’ordinanza
La Cassazione, nel confermare la decisione di primo grado, ha ribadito che non è In contestazione tra le parti che alcuna trasfusione di sangue fu effettuata alla ricorrente in occasione del ricovero.

E ha affermato che il principio di vicinanza alla prova o di riferibilità non può essere invocato per ribaltare sull'avversario l'onere probatorio, “qualora, come nella specie, le circostanze oggetto di prova, per le stesse caratteristiche della situazione presa in esame, rientrano nella piena conoscibilità ed accessibilità di entrambe le parti, tali da consentire senza particolari difficoltà alla parte di provare i propri requisiti soggettivi”.

Ha inoltre rilevato che “la relazione collegiale . .. dà compiutamente conto anche delle conclusioni raggiunte in merito al più probabile no che sì che l'infezione in discorso sia stata contratta al momento del ricovero oggetto della causa, posto che prima dell'intervento alla la signora aveva subito almeno 6 interventi/procedure invasive a rischio di trasmettere l'HCV e considerando statisticamente equivalente per ciascuna occasione la probabilità di essere quella infettante la probabilità di un contagio antecedente è pari a 100/7x6=85,71%, mentre quella di un contagio avvenuto in occasione dell'intervento al ginocchio risulta pari a 100/7x1 =14,29%, aggiungendo che essendo la circolazione dei virus epatici più alta in occasione dei precedenti interventi subiti che non negli anni 2000 (l'intervento è del 2004) ed essendo la signora stata esposta ad altri ben noti fattori di rischio di contrarre virus epatici, la residua probabilità che l'attrice abbia ricevuto l'HCV dall'intervento chirurgico in discussione può essere attendibilmente considerata inferiore al 10%” .

La Cassazione ricorda che “in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell'onere probatorio l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologica mente rilevante”.
 
Questo principio, si legge ancora nell’ordinanza, è stato affermato “a fronte di una situazione in cui l'inadempimento "qualificato", allegato dall'attore (ossia l'effettuazione di un'emotrasfusione) era tale da comportare di per sé, in assenza di fattori alternativi "più probabili", nel caso singolo di specie, la presunzione della derivazione del contagio dalla condotta. La prova della prestazione sanitaria conteneva già, in questa chiave di analisi, quella del nesso causale, sicché non poteva che spettare al convenuto l'onere di fornire una prova idonea a superare tale presunzione secondo il criterio generale”.

Quindi la Cassazione ha rigettato il ricorso, condannando la ricorrente al pagamento delle spese
 

 

03 settembre 2019
© Riproduzione riservata

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