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Forum QS. Scrive il Corriere della Sera: “Il medico è solo tra supertecnologie e tagli”. Che ne pensate?


Medici “soli nelle corsie ospedaliere a decidere quando negare cure troppo costose” e che si trovano a “decidere del destino dei loro malati abbandonati dal vuoto di una politica che riduce le risorse ma non dice cosa fare”. Questo il grido d'allarme di Sergio Harari, apparso lo scorso 17 maggio sul Corriere della Sera. Abbiamo chiesto un commento a: Maurizio Benato (Fnomceo), Nino Cartabellotta (Gimbe), Ivan Cavicchi (Sociologo), Massimo Cozza (Cgil Medici), Roberto Lala (Sumai), Giuseppe Mele (Fimp), Carlo Nozzoli (Fadoi) e Costantino Troise (Anaao Assomed).
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20 MAG - "La solitudine del medico tra supertecnologie e tagli”. Questo il titolo di un intervento pubblicato sul Corriere della Sera del 17 maggio scorso, di Sergio Harari, direttore dell’Uo di Pneumologia del San Giuseppe di Milano. Ecco cosa ne pensano Maurizio Benato (Fnomceo), Ivan Cavicchi (Sociologo), Massimo Cozza (Cgil Medici), Roberto Lala (Sumai), Carlo Nozzoli (Fadoi), Roberto Lala (Sumai), Giuseppe Mele (Fimp), Costantino Troise (Anaao Assomed).
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Maurizio Benato, vicepresidente Fnomceo
Si scarica sui medici la contrapposizione tra economia e domanda di salute
C’è una divaricazione tra i fini della medicina e i fini della sanità: la sanità deve necessariamente rispondere anche alle logiche economiche, tanto più in questa situazione di crisi, mentre la medicina contemporaneamente vede aumentare l’offerta di innovazione, tecnologia, oltre che una generale crescita nella domanda di salute da parte dei cittadini. Queste due logiche, in parte contrapposte, si ‘scaricano’ sul medico, mettendolo sotto pressione fino quasi a delegittimarne il ruolo. Da una parte, infatti, deve sottostare al sistema sanitario, che è il suo ambiente di lavoro, ma dall’altra deve tutelare l’alleanza terapeutica con il paziente, che è il suo ‘strumento’ più prezioso. Per affrontare questa realtà critica si debbono sviluppare, anche nei percorsi di formazione dei  nuovi medici, strumenti di conoscenza umanistici, che permettano al medico di superare una visione puramente ‘tecnica’ e gli consentano di comprendere anche i contesti culturali in cui si trovano i pazienti.
 
Nino Cartabellotta, presidente Fondazione Gimbe
Governo finanziario batte Governo Clinico 2-0
Senza dati di appropriatezza i tagli indiscriminati sono inevitabili

L’articolo di Sergio Harari, sollevando temibili criticità che rischiano di compromettere la sostenibilità del sistema sanitario e la credibilità della professione medica, richiama uno studio di David Eddy (JAMA 1993;270:520-26), secondo cui l’aumento della spesa sanitaria dipende da quattro variabili:
•    L’aumento della vita media delle popolazioni
•    L’inflazione generale
•    L’inflazione dei costi sanitari
•    Il volume di prestazioni e servizi sanitari erogati
Di fatto, le prime tre variabili sono fuori dal controllo del sistema sanitario, che può limitarsi a “contenere” esclusivamente il volume di servizi e prestazioni sanitarie erogate. Tale contenimento, tuttavia, continua ad essere non evidence-based, ma guidato da logiche esclusivamente finanziarie che mettono sempre più in crisi le scelte dei professionisti e le aspettative dei pazienti. Oggi infatti, la gestione delle innovazioni tecnologiche riguarda un numero estremamente limitato di interventi sanitari dal costo molto elevato (PET, farmaci biologici, etc), mentre secondo Eddy  l’introduzione/rimozione di qualsiasi innovazione  deve essere gestita molta cautela dal sistema sanitario, soprattutto se la sua applicazione riguarda una malattia molto comune.
Tuttavia, se da un lato “la scure della Finanziaria” si abbatte indiscriminatamente sulla sanità, il mondo professionale non riesce a fornire risposte concrete per l’attuazione del governo clinico. Infatti, se i numeri forniti dai sistemi informativi sono indiscutibili (spesa farmaceutica, liste di attesa, giornate di degenza, etc), pochissime aziende sanitarie dispongono di dati di appropriatezza in grado di documentare che tali costi conseguono a prestazioni sanitarie prescritte ed erogate “al paziente giusto, nel momento giusto, nel posto giusto e per la giusta durata”. In altri termini, il sistema sanitario sa bene quanto spende e per cosa spende, ma i professionisti non riescono a documentare se la spesa generata dalle loro prescrizioni è appropriata.
In assenza di queste informazioni, in un sistema di risorse finite è assolutamente inevitabile che invece del governo clinico, sia il governo finanziario a decidere quali innovazioni introdurre e quali negare ai pazienti.
 
Ivan Cavicchi, docente di sociologia dell’organizzazione sanitaria e di filosofia della medicina presso la Facoltà di medicina dell’Università Tor Vergata di Roma. Laurea ad honorem in medicina
E’ vero il medico è solo. Come noi, pochi, ultimi riformisti della sanità
 “Solitudine”del medico certo, i marxisti l’avrebbero chiamata “alienazione”, gli esistenzialisti “spaesamento”, personalmente sono anni che, nei miei libri, mi ostino a chiamarla “questione medica”. Una questione non corporativa ma politica che la politica di destra e di sinistra non ha mai capito o che ha preferito ignorare a corto di idee, e che comprende: il contenzioso legale, la medicina difensivistica, la perdita di autonomia clinica, la delegittimazione sociale, l’assoggettamento ad un pensiero unico bilanciofrenico, una formazione universitaria smaccatamente anacronistica, il conflitto interprofessionale  con gli infermieri, ma anche l’intra moenia, cioè lo scambio tra bassi salari e libera professione. E ancora,  un sindacalismo medico debole, disarmato di fronte alle complessità del cambiamento, società medico-scientifiche, che dire frammentate è dire poco, e che non hanno ancora capito che in ballo c’è il futuro non solo della professione ma anche il “genere” di medicina, un’ordinistica che, oltre  rutilanti convegni,  non riesce a mettere insieme una piattaforma degna dei tempi per fare della professione medica uno “snodo cruciale” per una evoluzione del sistema.
L’incompatibilità tendenziale tra diritti e risorse che si è manifestata già a partire dagli anni ‘80 ormai è diventata apertamente un conflitto rispetto al quale  il dottor Harari, come tutti i suoi colleghi, si trova esattamente nel mezzo, a prenderle sia dalla società civile che dai suoi datori di lavoro. Il dottor Harari, e centinaia di migliaia di colleghi, in questi anni sono stati le controparti delle politiche di compatibilità, i destinatari delle misure di razionalizzazione, gli oggetti  delle logiche dell’accreditamento, i fruitori ignari di un proceduralismo  il cui ideale era quello di ridurre i medici a “lavatrici”. Cioè con comportamenti professionali  programmabili  attraverso evidenze statistiche, regole, criteri, standard, indicatori ai quali bisognava cecamente obbedire. Forse il dottor Harari o forse no, è  anche quel medico che in altre circostanze  ho definito “osservante”, nel senso che i suoi incentivi dipendono dal rispetto rigoroso degli obiettivi aziendali, che come si sa, nulla hanno a che fare con qualcosa che sia diverso da un bilancio.
“Cosa succederà alla sanità di domani?” si chiede il dottor Harari. Io rispondo “niente di più e niente di diverso da quello  che sta già succedendo”. Il titolo di  un mio libro di qualche anno fa denunciava il problema della “privatizzazione silenziosa della sanità”, oggi  è sotto gli occhi di tutti che la razionalizzazione della spesa è diventata razionamento, le Regioni ormai sono in balia dei patti di rientro, che loro stesse hanno sottoscritto e dopo essersi  ingozzate di poteri con la riforma del Titolo quinto della Costituzione sbilanciando un delicato modello di governo, oggi tradiscono la loro incapacità riformatrice, l’unica cosa che sanno fare è tagliare via qualcosa da qualcosa, quelli che una volta erano i difensori della sanità pubblica oggi sono alla ricerca del “secondo pilastro”, cioè dell’assistenza integrativa, gli stessi che una volta gridavano contro i ticket e che oggi  ci spiegano che  “l’out of pocket” , cioè la spesa privata che deriva dalla non copertura dei diritti dovuti, può essere canalizzata verso nuove forme di mutualismo. Insomma ...benvenuti nel “post-welfarismo”.
Una cosa devo tuttavia confutare al dott. Harari del quale condivido per intero la denuncia. Non è vero che che non si può “continuare a garantire tutto a tutti”, tipica espressione di coloro  che in questi anni, a partire dal libro bianco del ministro Sacconi, sognano paradossalmente un’America che la stessa America  vuole superare. E’ relativamente vero se continuiamo a  “conservare”  un sistema sostanzialmente invariante preoccupati solo di farlo costare il meno possibile. Un sistema che nei modelli non cambia mai, (ho trovato acuta l’osservazione sui modelli Toyota applicati all’ospedale), che non investe nel rinnovamento delle  professioni e che usa l’Ecm come  il “manuale delle giovani marmotte”, che fraintende l’azienda come qualcosa di avulso dalla salute pubblica, che continua ad offrire anche nei tagli vecchie modalità di servizio, vecchie pratiche assistenziali, che pensa all’offerta come ad una variabile indipendente dalla domanda, che non produce salute come risorsa naturale per la crescita della ricchezza nazionale ecc. Gestire a risparmio lo status quo  oggi  non è più conveniente per nessuno per tante ragioni professionali, finanziarie, etiche, sociali ma per cambiare lo status quo ci vuole un pensiero riformatore. E questo non c’è o almeno i fautori di un neoriformismo come me sono molto pochi, cioè drammaticamente minoritari, e  vivono la stessa solitudine del dottor Harari. “Il problema è strutturale?”, bene ...allora le parole chiave sono “riforma”, “ripensamento”, “ricontestualizzazione”. Oggi  la sfida del postwelfarismo è trasformare un sistema di limiti (finanziari, organizzativi, professionali, deontologici, ecc.) in  possibilità, ad ogni livello, questo però vuol dire un altro “genere” di medico, di ospedale, di medicina, di organizzazione sanitaria, di spesa, di malato ecc. Ma soprattutto un altro genere di politica sanitaria. Cioè ” cambiamento".


Massimo Cozza, segretario nazionale Fp Cgil Medici
La professione è sempre più svalutata

La situazione per il medico è indubbiamente difficile. Ci sono sempre meno risorse, chi va in pensione non viene sostituito e c’è sempre una maggiore richiesta dei cittadini verso il servizio pubblico proprio in virtù di una generale minore disponibilità economica. Il vero allarme è che per esempio il medico ospedaliero è sempre meno in grado di seguire il paziente. I turni sono sempre più frequenti e sono diventati una sorta di catena di montaggio e ciò fa perdere qualità nel rapporto umano e nella qualità del ricovero. Tempi di lavoro più lunghi, ferie non godute che crescono, aumento degli straordinari, che vengono pagati sempre meno, blocco della contrattazione, questi fattori non fanno altro che aumentare lo stress e il senso di solitudine del medico e più in generale dei professionisti lavorano in sanità. Indici che dovrebbero creare allarme anche nei pazienti, anche perché è dimostrato che quando il medico non riposa l’incidenza degli errori sanitari aumenta. Ma questa svalutazione generale della professione non è altro che il frutto della deriva aziendalista che ha intrapreso la sanità, soprattutto in questi ultimi anni, basti pensare alle esternalizzazioni e allo sviluppo della precarietà che sono convenienti economicamente sul momento ma non lo sono se pensiamo al futuro, perché c’è bisogno di équipe formate, integrate e stabili nel tempo che possano garantire la qualità delle prestazioni. È chiaro che così non si può andare avanti, non si può guardare alla medicina solo ed esclusivamente come lo sviluppo delle tecnologie dimenticandosi del fattore umano. È necessario riaprire i tavoli di contrattazione della dipendenza e delle convenzioni per costruire una rete sanitaria integrata che sia in grado di affrontare le sfide del futuro. E poi è necessario varare una vera riforma del governo clinico perché il testo attuale è esattamente l’opposto di quello che noi avevamo chiesto.

Roberto Lala, segretario nazionale Sumai-Assoprof
Se continua così non potremo fare tutti i giorni miracoli
In questi ultimi anni di crisi economica stiamo assistendo ad un’erosione della professione medica che non ha precedenti. Ma le difficoltà che viviamo oggi a causa della limitata disponibilità di risorse sono anche il frutto di una politica autoreferenziale che ha scelto la strada dell’aziendalizzazione della sanità senza coinvolgere a sufficienza in questo cammino una delle componenti essenziali: i medici, appunto. Medici che oggi come sostiene Harari si sentono sempre più spesso lasciati soli dal ‘sistema’ e caricati di nuovi oneri, che in molti casi esulano dalle competenze professionali. Se a questo sommiamo i famosi tagli alle risorse, il blocco del turnover, le liste d’attesa infinite e la crescente domanda di salute di una popolazione che invecchia il quadro è chiaro, o forse sarebbe meglio dire scurissimo. A questi fattori poi si aggiunge una crescita vertiginosa del contenzioso medico che sta seriamente minando la sacralità del rapporto di fiducia medico-paziente e che spesso induce il camice bianco ad adottare pratiche di medicina difensiva che non fanno altro che innalzare l’asticella dell’inefficienza. Per quanto riguarda il territorio poi la situazione è ancora molto difficile. Fino a pochi anni fa esso era totalmente abbandonato a sé. Non è che oggi vada poi tanto meglio ma fortunatamente anche la politica ha capito che l’unica soluzione in grado di garantire il mantenimento del nostro sistema sanitario universalistico risiede proprio nello sviluppo e la valorizzazione del territorio. I medici lo hanno capito e stanno cercando in tutti i modi di veicolare attivamente questo cammino. La sfida è di indubbia difficoltà e si potrà vincere solo attraverso l’unitarietà della categoria. Non nego, però, che se continuano a tagliarci i fondi non potremo fare tutti i giorni i miracoli, siamo al limite.

Giuseppe Mele, presidente Fimp
È la conseguenza di una politica basata solo sui tagli

La sensazione di solitudine del medico, le sue difficoltà a muoversi all’interno del sistema e a rapportarsi con il paziente sono il risultato di una politica di contenimento della spesa basata sui tagli. Siano consapevoli della necessità di tenere sotto controllo i conti, anche perché il tendenziale di crescita di spesa è destinato a protrarsi sia per l’aumento dell’età media della popolazione che per l’innovazione tecnologica e i cambiamenti della cultura sociale, che ha portato a una richiesta maggiore di prestazioni e a un innalzamento dei livelli di prestazione richiesti. Il problema è che la risposta politica ha questa situazione è stata esclusivamente quella dei tagli. A questo si è sicuramente aggiunta l’assenza di efficaci strumenti di management e di rischio clinico.
La medicina territoriale, poi, è da sempre lasciata ai margini del sistema. Negli ultimi anni si è parlato molto di valorizzare questa area della sanità, ma se non si decide di passare dalle parole ai fatti, la medicina territoriale continuerà a rimanere al palo.
Servono investimenti. Serve una seria riprogettazione del sistema sanitario, il cui obiettivo non deve essere più ridurre la mortalità quanto aumentare il benessere della popolazione attraverso interventi di educazione sanitaria. In questo modo si ridurrebbe la domanda e quindi la spesa, mentre aumenterebbe il livello di salute dei cittadini. In un contesto come questo, anche le competenze specifiche di ogni professionista troverebbero spazio per essere valorizzate. Ma perché ciò avvenga, il Governo deve decidere di investire seriamente nella prevenzione, che non può essere una percentuale minima rispetto alle risorse destinate al Servizio sanitario nazionale.
La prevenzione è una grande strumento e una grande opportunità per il Servizio sanitario. Siamo inoltre convinti che il ruolo del pediatra sia fondamentale per diffondere fin dalle prime fasi di vita la cultura del benessere, dei corretti stili di vita, delle sane abitudini alimentari, così come dell’appropriato uso di farmaci e delle prestazioni del Ssn. La pediatria deve diventare un Livello essenziale di assistenza.
 
Carlo Nozzoli, presidente medici internisti ospedalieri (Fadoi)
Medici, più che soli “accerchiati”. Ma dobbiamo e possiamo reagire

La solitudine del medico di cui scritto Sergio Harari sul Corriere è reale. Anche se, più che soli, siamo in realtà ‘accerchiati’ da una molteplicità di interventi esterni. E non mi riferisco solo ai tagli di bilancio di cui parla Harari, del resto ineludibili nelle regioni in deficit. Penso anche alla drammatica escalation del contenzioso medico legale (un fenomeno quasi sconosciuto in Italia fino a una quindicina d’anni fa) che sta soppiantando la relazione fiduciaria tra medico e paziente. Al suo posto si fa strada la logica del “soddisfatti o rimborsati “ (leggi denunciati),  come se la medicina fosse paragonabile  a una qualsiasi attività meccanica o peggio ancora commerciale.
Detto questo ciò che, come medici, dobbiamo porci è il ‘che fare’? Vedo due vie per uscire dall’accerchiamento. La prima è quella di imporre, assumendocene oneri e responsabilità, la nostra presenza nelle ‘stanze dei bottoni’ di Asl e ospedali attuando quel ‘governo clinico’ di cui si parla da troppo tempo senza costrutto nelle Aule parlamentari. E governo clinico vuol dire incidere nelle scelte su dove tagliare e dove invece aumentare investimenti e risorse. Su cosa fare per riavvicinare la medicina e la sanità ai nuovi bisogni di salute, facendosi carico di un quadro epidemiologico che cambia e che necessita di un approccio diverso, più attento alla cura della persona a tutto tondo che all’ultraspecializzazione.
La seconda è quella di far uscire allo scoperto il ‘sapere’ medico e farlo diventare patrimonio di chi, amministratori e manager della sanità pubblica, ha l’onere di attuare le scelte indispensabili per ammodernare il sistema e programmare la sanità di domani sotto il segno dell’efficienza e della qualità.
Siamo in grado di farlo? Questa è la vera domanda che dobbiamo rivolgere a noi stessi e alle nostre organizzazioni.  Società scientifiche, Ordini professionali e Sindacati medici devono reagire, superando vecchie logiche corporative, aprendosi al confronto, prima di tutto con i cittadini, per rompere l’accerchiamento e ridare dignità professionale al medico e fiducia al paziente che deve poter tornare a credere in chi lo cura e ha in mano la sua vita.
 
Costantino Troise, segretario nazionale Anaao Assomed
Occorre tutelare l’atto medico e far comprendere ai cittadini che neanche le migliori tecnologie sono esenti da rischio

È assolutamente vero che il medico vive una condizione di solitudine, stretto tra il diritto dei cittadini ad avere i migliori risultati di salute, il codice disciplinare da pubblico dipendente che impone dei vincoli, il codice deontologico che stabilisce le linee di comportamento, l’esigenza dell’azienda a raggiungere l’equilibro di bilancio e la magistratura sempre pronta a mettere in discussione il suo operato.
In questo contesto l’atto medico è diventato estremamente fragile e il medico è privo di punti di riferimento. Basti pensare alla sentenza della Corte di Cassazione che ha rinviato a giudizio un medico che aveva seguito le linee guida ma il cui paziente era deceduto. Dopo quella sentenza probabilmente molti medici si sono sentiti ancora più soli.
Purtroppo l’alleanza terapeutica tra medico e paziente si è trasformata in un rapporto di diffidenza, spingendo i medici a mettere in campo la medicina difensiva, che è pericolosa per tutti. Per la professionalità medica, per la salute dei pazienti e anche per la sostenibilità del sistema. Un rapporto così inquinato non può reggere le sfide della sanità moderna. Si corre il rischio di vedere i medici chiudersi sempre più nella propria nicchia professionale per il timore di esporsi a condanne giudiziarie. La sanità, invece, ha bisogno di professionisti attivi, messi nelle condizioni di decidere in scienza e coscienza. Solo così il cittadino potrà ottenere la migliore assistenza possibile e il sistema potrà muoversi verso l’efficienza e l’appropriatezza.
Purtroppo non credo che l’azienda sia in grado di invertire l’attuale rotta, stretta come è nella logica dell’equilibrio di bilancio. Credo, piuttosto, che lo sforzo debba avvenire dai livelli più alti. Dalle Regioni, dal Governo, dal legislatore e anche dalla magistratura. Quest’ultima sembra averlo già capito. Con due recenti sentenze, i giudici della Cassazione hanno infatti dimostrato una sensibilità maggiore nella tutela dell’atto medico. Ma non è soltanto un problema di chi risarcisce. Il problema è far comprendere alle istituzioni che la sanità ha bisogno di risorse, perché una sanità in cui si tagliano gli organici e i mezzi a disposizione, diminuisce anche il tempo da dedicare ai pazienti, a fronte della crescente domanda di assistenza. Questo non può che ridurre il livello di sicurezza.
Serve, però, anche un salto culturale da parte dei cittadini. Che devono comprendere che la medicina non è una scienza immune da rischi, neanche quando si utilizzano le tecnologie più sofisticate e ci si rivolge al migliore medico e alla più eccellente struttura. Il rischio zero, in medicina, non esiste. Qualsiasi sia la tecnologia che si utilizza. Se i cittadini comprenderanno questo, il rapporto tra medico e paziente potrà tornare ad essere un’alleanza.
 

20 maggio 2011
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