L’ospedale e il mito dell’aziendalizzazione
di Roberto Polillo
Senza reti cliniche e governo dei flussi dei pazienti, realizzabile solo attraverso una reale integrazione con le cure primarie, gli ospedali continueranno a morire di sovraffollamento e a produrre disavanzi. Per migliorare la qualità dell’assistenza ospedaliera bisogna abbandonare l’illusione che questa possa passare esclusivamente attraverso gli strumenti del management aziendale
04 MAG - Le drammatiche condizioni in cui versano molti ospedali italiani, ad ultimo la denuncia della UIL sul degrado di due grandi ospedali romani, sono la dimostrazione del fallimento del processo di aziendalizzazione. Senza reti cliniche e governo dei flussi di entrata e di uscita dei pazienti, realizzabile solo attraverso una reale integrazione con le cure primarie, gli ospedali continueranno a morire di sovraffollamento e a produrre disavanzi. Ed è un'illusione pensare al miglioramento della qualità e a una maggiore appropriatezza.
L’ospedale e la sua scuola
Per la sanità, fino a pochissimi anni orsono, l’ospedale ha rappresentato quello che nel mondo della produzione delle merci era la fabbrica fordista. La rigida normativa nazionale esistente (leggi 128,130 e 132) ne aveva definito le diverse tipologie (l’ospedale zonale, provinciale, nazionale), le unità operative che lo potevano costituire (le vecchie divisioni di medicina, chirurgia, servizi etc), le varie qualifiche professionali necessarie al suo funzionamento sia di tipo medico (primario, aiuto ed assistente) che di tipo non medico (caposala, infermieri, ausiliari); in poche parole a essere disciplinata era l’intera organizzazione del lavoro. E in quel modello rigidamente top-down le funzioni proprie dei diversi profili professionali (non solo infermieristico si badi!) erano regolate sulla base di specifici mansionari. In ambito medico i compiti dell’assistente erano la raccolta dell’anamnesi, l’esame obiettivo del paziente, la misurazione della pressione e del polso e nulla più. La diagnosi, la terapia, le dimissioni dei pazienti, e il colloquio con i familiari erano di esclusiva competenza del primario e dell’aiuto suo delegato.
La trasmissione verticale del sapere
In quel mondo anche la trasmissione del sapere era verticale e quando il caposcuola parlava, alla domanda “chi è il parlante?” si sarebbe potuto rispondere con il detto di Jacques Lacan: “E' Il discorso (clinico) che parla”. A parlare dunque era un insieme coerente e concluso di dispositivi discorsivi, che la “scuola” aveva sistematizzato, mano a mano che se ne era resa possibile l’ emersione, e che venivano tramandati a chi di quella scuola (degno o indegno che fosse) ne era l’erede. Impresa non facile l’acquisizione di quel linguaggio, perché il ragionamento clinico richiedeva conoscenza teorica e casistica clinica e quindi un training lungo e faticoso al letto del malato. E del resto solo grazie a tali pratiche fu possibile che sul finire dell’800 la clinica, come oggi la intendiamo, potesse nascere in quei proto ospedali parigini dove trovavano rifugio una moltitudine di infermi, poveri e senza speranza. Ma in quei luoghi anche il reietto, il nulla tenente, l’escluso acquistò una nuova dignità, consentendo il formarsi di un nuovo sguardo medico, di un processo analitico dei fatti morbosi che riconduceva il “caso clinico” alla “serie”. E la generalizzazione dei particolari, attraverso lo studio della ricorrenza dei sintomi e delle similitudini, rese possibile la nascita di un discorso clinico che era osservazione e statistica al contempo. E così il ragionamento clinico fu finalmente libero dai pregiudizi, relegando sugli scaffali delle curiosità le astruse speculazioni della medicina delle specie che i vecchi parrucconi dell’accademia, seguaci di Linneo, insegnavano nelle università francesi.
Un modello di produzione tipicamente make
Nell’ospedale fordista i costi di produzione erano in larghissima misura fissi, rappresentando il paziente, con il vitto consumato e l’ utilizzo di accertamenti e farmaci a basso impatto economico, un costo meno che marginale. Il suo modello organizzativo era esclusivamente basato sul make. Tutto era prodotto all’interno, e un esercito di salariati fissi (dal fabbro, all’elettricista dal falegname) provvedeva alla costruzione di tutto ciò che era necessario (dai letti, agli infissi, fino alle protesi per i pazienti) come anche alla manutenzione ordinaria e straordinaria. Lo stesso dicasi per il vitto che veniva preparato in loco da cuochi salariati e talvolta prodotto anche direttamente nelle proprietà possedute dalle grandi fondazioni (come nel caso del Pio istituto di Roma).
Dal fordismo al Just in time
Con la fine del fordsimo anche quel modo di produzione è progressivamente entrato in crisi. Il post fordismo ha creato nuovi paradigmi: la produzione snella, il just in time, lo zero-defect della fabbrica Toyota. Con la post-modernità si è così passati dalla rigidità alla flessibilità, dalla fabbrica di spilli di Adam Smith (basata sulla scomposizione delle mansioni) alla produzione in isole in cui il gruppo di lavoratori (sottoposto spesso a turni ancora più duri) era responsabile dell’intero processo produttivo. E l’ospedale si è progressivamente adeguato, rinunciando al make per esternalizzare la stragrande maggioranza delle attività fino ad arrivare ad acquistare, attraverso le cooperative e le agenzie interinali, lo stesso personale, infermieristico ma non solo.
Nessuno, tuttavia, è mai riuscito a dimostrare che l’adozione di questa nuova logica del buy diffusasi alla velocità della luce, abbia determinato i risparmi promessi. Al contrario, l’impressione di molti di noi è che i costi siano lievitati, la qualità decresciuta e che la corruzione abbia potuto trovare un terreno ancora più fertile di prima. Di fatto a essere in crisi ormai non era solo un modello produttivo; il pensiero che si era affermato puntava dritto alla privatizzazione dei servizi, al ritiro dello stato e all’affidamento al mercato anche di quelle attività come la sanità che del vecchio stato sociale novecentesco erano il core. Era questo un paradigma che credeva nel libero gioco degli operatori economici e le sue parole d’ordine erano mercatizzazione della sanità, competizione tra gli erogatori e neutralità dello stato relegato nel ruolo di semplice arbitro.
Il grande bluff dell’aziendalizzazione
Il processo di aziendalizzazione in sanità con l’adozione del simbolismo e della strumentazione propri dell’industria post-moderna (la vision, la mission, la pianificazione strategica, il gudgeting) sono i dispositivi con cui la sanità si è adeguata al nuovo paradigma neo liberista. Inevitabilmente anche l’ospedale, core del sistema sanitario e principale fattore di spesa, causa i costi dell’assistenza ospedaliera, enormemente lievitati per la moltiplicazione dei presidi e l’avvento di tecnologie ad altissimo impatto economico, ha dovuto adattarsi e cambiare. Il superamento della sua tradizionale rigidità strutturale è stato il prezzo per ottenere quella nuova legittimazione sociale che il vecchio modello organizzativo non poteva più garantire.
I nuovi miti: l management i e la pianificazione strategica
A partire dalla metà degli anni ’90 i nuovi miti dell’aziendalizzazione vengono concretamente implementati negli ospedali. Quelli di dimensioni maggiori subiscono la trasformazione in aziende autonome remunerate non più (ma anche questo solo in teoria) sulla spesa storica, ma in funzione del numero e complessità delle prestazioni (i ricoveri contabilizzati come DRG) rese. L’organizzazione interna diviene più flessibile e ai nuovi managers, i Direttori generali, viene affidata la gestione e la pianificazione strategica con la definizione attraverso gli atti aziendali (che la regione dovrà approvare) della tipologia e consistenza numerica delle unità operative che costituiranno il cosiddetto core dell’azienda. Obiettivi attesi: risanamento economico, efficienza produttiva, separazione della gestione dalla politica.
L’operazione tuttavia non riesce: dal punto di vista economico gli esiti sono quasi ovunque negativi. Pochissime sono infatti le strutture che riescono a raggiungere la parità tra uscite ed entrate; la maggioranza delle aziende ospedaliere chiude il bilancio in profondo rosso e le regioni devono intervenire facendosi carico anche dei disavanzi accumulati dalla nuova gestione. Dal punto di vista del miglioramento dell’offerta sanitaria per i cittadini la capacità di autonoma programmazione delle attività cliniche da parte delle aziende ospedaliere risulta di utilità solo nelle regioni provviste di un piano sanitario adeguato e di idonei strumenti di programmazione (analisi epidemiologica dei bisogni, definizione degli standard assistenziali, valutazione delle carenze e delle eccedenze etc) e che sulla base di questo danno indicazioni di merito all’azienda. In mancanza di questo, la pianificazione aziendale è un atto privo di reale efficacia, una operazione esclusivamente formale che non riesce a rompere l’isolamento che soffoca l’ ospedale, esponendolo a flussi di pazienti senza governo. E le conseguenze sono le stesse che si volevano evitare con il processo di aziendalizzazione: inappropriatezza, affollamento dei PS, bassa qualità e ulteriore incremento dei costi.
I presupposti per il miglioramento
Per migliorare la qualità dell’assistenza ospedaliera bisogna dunque abbandonare l’illusione che questa possa passare esclusivamente attraverso gli strumenti del management aziendale. Certo un management capace, onesto, innovativo può rappresentare una risorsa da non disperdere ma per ottenere i risultati che servono bisogna agire su fattori di tipo sistemico: la costituzione di reti cliniche e il governo dei flussi dei pazienti realizzabile solo attraverso un integrazione reale con le cure primarie.
Le reti cliniche e l’ospedale
Un ospedale non è una monade, una cattedrale nel deserto o uno stato autonomo. L’ospedale può vivere solo come nodo di un sistema integrato di reti cliniche. Sono le reti cliniche e non l’ingegno del direttore generale, il presupposto per decidere cosa allocare in ogni singola struttura. Se una regione non è in grado di definire le proprie reti cliniche, costruite sull’analisi dei bisogni su precisi standard quali-quantitativi di offerta, l’ospedale rimarrà vittima di quelle contraddizioni che abbiamo poco prima ricordato. Solo le reti cliniche inoltre, sono in grado di garantire attraverso l’equa distribuzione di servizi su tutto l’ambito territoriale di riferimento, la reale esigibilità del diritto alla salute da parte dei cittadini. Il buon manager non è allora il signorotto feudale che decide cosa e come produrre; esso piuttosto è un funzionario che attua le direttive ricevute e che sa fare buona amministrazione.
Il flusso di entrata e uscita dei pazienti
Se un ospedale non è messo in grado di governare i flussi di entrata e di uscita dei pazienti esso sarà esposto al rischio mortale di affollamento dei pronto soccorsi, intasamento delle degenze, difficoltà nella dimissione dei pazienti. La corretta gestione dei flussi è a sua volta realizzabile solo implementando i livelli di appropriatezza di tipo organizzativo e poi di tipo prescrittivo. Una prospettiva questa talmente nota da essere abusata, come hanno ben documentato
Mantovani e
Piacentini nel loro
recente contributo su Quotidiano Sanità. La domanda da porsi è allora quale è il motivo per cui l’appropriatezza tanto decantata non è mai stata realizzata, se non in misura ridotta. E tale domanda è ancora più urgente oggi che si cerca di scaricare i costi della incapacità programmatoria della politica sui professionisti che di questo sono incolpevoli. Fatto questo pubblicamente denunciato con forza da
Ivan Cavicchi su questo stesso giornale.
L’appropriatezza organizzativa
Appropriatezza organizzativa significa, a mio modo di vedere, definire per ogni determinata patologia o tipo di paziente il setting assistenziale migliore in termini di costi/benefici e outcome attesi. Cosa significa questo? Significa che per ogni ambito territoriale di riferimento deve esistere un processo di negoziazione tra ospedale e territorio per definire dove dirigere al meglio i flussi di pazienti e dove allocare le risorse umane, strumentali e finanziarie necessarie a tale scopo. In questo percorso ovviamente l’allocazione nel territorio di funzioni svolte in precedenza in ambito ospedaliero non deve tradursi per l’ospedale in una penalizzazione economica. Se l’ospedale vuole essere il luogo della intensività assistenziale le patologie non necessitanti tali setting (tra cui la stragrande maggioranza delle patologie croniche) devono giocoforza trovare una nuova allocazione e per fare questo servono investimenti e trasferimento di risorse dall’assistenza ospedaliera a quella delle cure primarie (ivi comprese quelle a domicilio del paziente attraverso gli strumenti oggi disponibili della telemedicina). Una operazione tuttavia irrealizzabile se gli ospedali continuano ad essere aziende autonome la cui fonte di finanziamento è il numero di prestazioni rese, come è avvenuto finora. Perché mai gli ospedali dovrebbero rinunciare a parte dei loro introiti perdendo pazienti e prestazioni ambulatoriali a favore di strutture del territorio? Perché allora non tentare una negoziazione di un budget di area che tenga in debito conto anche il trasferimento di funzioni dall’ospedale al territorio? Perché non riservare la diagnostica ospedaliera ai soli pazienti ricoverati riducendo così la durata della degenza e senza penalizzare gli ospedali per questo?
Il secondo problema riguarda i flussi di uscita. E qui la soluzione teorica è ancora più semplice perché è ampiamente dimostrato che laddove non esistano in numero sufficiente strutture ad intensità assistenziale intermedia e di post acuzie, le corsie si intasano e le giornate di degenza si allungano per impossibilità di dimettere i pazienti. Il tutto senza che nessun vantaggio in termini assistenziali per i pazienti, diventati senza volerlo ospiti indesiderati. E’ del tutto evidente che questo è un atto di programmazione dei servizi che è sottratto alla volontà dei singoli managers. Tale attività rimane, ed giusto che lo sia, totalmente in capo ai politici e alla responsabilità che i cittadini hanno affidato loro.
L’appropriatezza prescrittiva
In un sistema come il nostro in cui la valutazione delle performances dei professionisti e delle strutture è esclusivamente basata sui volumi di prestazioni rese è un controsenso imporre ai professionisti di autolimitarsi. Come si può infatti chiedere senza cadere nel ridicolo a un medico ambulatoriale di ridurre il numero di accertamenti e di controlli se poi a fine anno gli si chiederà conto del perché ci sia stato un calo numerico delle sue prestazioni? E questo si badi bene è quello che comunemente avviene in tutte le strutture sanitarie grandi o piccole che siano. E’ evidente che bisogna introdurre nuovi indicatori con cui valutare il lavoro medico e il servizio reso. Ho già più volte affrontato tale argomento adottando il concetto “feticismo delle prestazioni” e su questo non mi dilungo oltre. Anche in questo caso tuttavia dunque cercare di risolvere il problema attraverso gli strumenti punitivi è un rimedio peggiore del male.
L’appriopiatezza prescrittiva è un processo, un percorso che per essere attuato deve coinvolgere una pluralità di soggetti: il regolatore pubblico, le società scientifiche, il team degli operatori che quelle prestazioni eseguiranno o richiederanno, i cittadini che devono essere correttamente informati sulla efficacia di quanto viene loro prescritto. Basterebbe che ogni disciplina elencasse le 5 prestazioni inappropriate da non fare e che questo venisse recepito dal regolatore pubblico per ottenere risultati significativi. Ma anche questo richiedere la capacità di ascoltare di co-decidere mettendo intorno a un tavolo i veri interlocutori. Una capacità che appare totalmente assente in chi ha la responsabilità politica del paese.
Roberto Polillo
04 maggio 2015
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