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Violenza di genere. Simla: “Dal 50 al 70% dei casi finiscono nel nulla per mancanza di documentazione del primo soccorso”


La violenza del genere e il ruolo fondamentale della medicina legale al centro di un convegno patrocinato dalla Società Italiana di Medicina Legale e delle Assicurazioni (Simla). Al PS del Policlinico di Milano, per esempio, di 991 cartelle di 'vittime di violenze altrui’ esaminate, solo il 2,8% presentava fotografie e il 4,1% una descrizione esaustiva. Una valutazione medico legale correlata ad una maggiore probabilità diagnostica dei casi di abuso.

25 OTT - La violenza contro le donne rappresenta una violazione dei diritti umani e un importante problema di sanità. Eppure dal 50 al 70% dei casi finiscono nel nulla per mancanza di documentazione del primo soccorso. È quanto emerso nel corso dell’ultima giornata del convegno "Il sapere della medicina legale che unisce", organizzato e promosso dalla prof.ssa Paola Frati, ordinaria di medicina legale alla Sapienza e coordinatore Sezione Medicina Legale dell'Ateneo romano, e patrocinato da Simla (Società Italiana di Medicina Legale e delle Assicurazioni).

“La violenza contro le donne rappresenta un importante problema di sanità pubblica -le parole della prof. Paola Frati rilanciate attraverso una nota - , oltre che una violazione dei diritti umani. La violenza ha effetti negativi, a breve e a lungo termine, sulla salute fisica, mentale, sessuale e riproduttiva della vittima. Le conseguenze possono determinare per le donne isolamento, incapacità di lavorare, limitata capacità di prendersi cura di sé stesse e dei propri figli. I bambini che assistono alla violenza all’interno dei nuclei familiari possono soffrire di disturbi emotivi e del comportamento. Come medici legali ribadiamo la necessità di un nostro coinvolgimento fattivo nei pronto soccorso e al fianco di tutte le istituzioni che si occupano di prevenzione. Secondo il rapporto dell'OMS ‘Valutazione globale e regionale della violenza contro le donne: diffusione e conseguenze sulla salute degli abusi sessuali da parte di un partner intimo o da sconosciuti’, la violenza contro le donne rappresenta “un problema di salute di proporzioni globali enormi”.

Il fenomeno della violenza di genere, e in casi estremi del femminicidio, continua a essere al centro delle preoccupazioni della comunità scientifica medico-legale, anche per ragionare su sistemi di prevenzione che possano anticipare gli eventi più gravi. "Le donne vittime di violenze finiscono due volte più frequentemente al pronto soccorso, pertanto se vogliamo fare prevenzione e un detecting perfetto della violenza di genere, la medicina legale deve stare nelle sedi di primo soccorso: dobbiamo essere messi nelle condizioni di poter operare”.

La professoressa Cristina Cattaneo, consigliere del direttivo Simla e ordinaria di Medicina Legale all’Università di Milano e responsabile scientifica del Labanof (Laboratorio di antropologia e odontologia forense), aveva già evidenziato il ruolo centrale degli specialisti di medicina legale nei casi di violenza, nell’ambito di un documento redatto da una Commissione Simla incaricata di evidenziare il ruolo della medicina legale sul vivente, intesa come clinical forensic medicine, per quanto concerne il contrasto e la prevenzione della violenza e dei suoi esiti. In questo senso si specifica la necessità che gli operatori sanitari deputati all’accoglienza e alla cura delle vittime siano nelle condizioni di avere quelle competenze e di conoscere quelle procedure che gli consentano di mettere a punto una corretta documentazione, raccolta e conservazione delle tracce forensi, nonché la diagnostica differenziale tra lesione accidentale e non accidentale.

A questo proposito, spiega la professoressa Cattaneo, il rischio è che “se non si ipotizza la possibile violenza e non si sospetta il maltrattamento, non verranno prese misure per proteggere la salute e la vita della vittima”. Manca, appunto, un lavoro puntuale sui casi di violenza. Al PS del Policlinico di Milano - si cita nel documento Simla - sono state esaminate 991 cartelle di 'vittime di violenze altrui': solo nel 2,8% dei casi presenti fotografie e nel 4,1% descrizione esaustiva. Non è un caso che poi, prosegue ancora la presidente del G.I.A.O.F. – Gruppo Italiano Antropologi Odontologi Forensi, che "dal 50 al 70% i casi giudiziari per violenza domestica o violenza sessuale poi finiscono nel nulla perché c’è una mancanza di prove”. Capitolo delicato, inoltre, riguarda le donne migranti vittime di maltrattamento che "richiedono asilo in Italia perché in fuga da paesi dove i fatti violenti di cui sono oggetto non sono riconosciuti come reato".

Alcuni studi scientifici - conclude la professoressa - dimostrano che "l’esecuzione di una valutazione medico legale in queste situazioni correla ad una maggiore probabilità diagnostica dei casi di abuso (il 50-70% in più) rispetto ad accertamenti eseguiti da altri specialisti".

In questo contesto di studio e di ricerca multidisciplinare, il Labanof "rappresenta un laboratorio di antropologia forense - conclude la professoressa Cattaneo che ne è anche la responsabile scientifica - che ha voluto creare un trait d'union tra il linguaggio dello scheletro, anche antico, e il linguaggio del corpo, cadavere, vivente, nello studio e nell'interpretazione della violenza e del diritto all'identità".

La professoressa Rossana Cecchi, consigliere del direttivo Simla e ordinaria dell'Università di Modena, ha coordinato uno studio che beneficia del lavoro congiunto di 27 istituti di medicina legale che hanno fornito i loro dati relativi ai casi di violenza. "Grazie a queste informazioni, cioè con i dati che arrivano dalle donne purtroppo decedute - spiega -, noi oggi possiamo informare a nostra volta le vittime vive. Abbiamo la storia delle donne decedute, potendo realizzare una casistica del movente, di cosa ha portato alla loro uccisione, ma anche nei segni che noi vediamo sul loro corpo; in questo modo il medico legale può dare voce a queste donne morte che parlano alle donne vive, in via preventiva".

Proprio grazie alle statistiche sui femminicidi e sulla violenza di genere, la professoressa Cecchi punta sul ruolo di prevenzione che può avere il medico legale: "Dobbiamo assumerci la responsabilità, così come fa l'oncologo, così come fa qualsiasi altro medico, di dire al paziente, oltre alla diagnosi, anche la prognosi. Dobbiamo informare le vittime che, sulla base delle lesioni che riportano e delle storie che ci raccontano, è possibile prevedere se il rischio di un futuro femminicidio sia basso, medio o alto. Ecco la medicina narrativa: il movente si rintraccia nella narrazione della storia, noi raccogliamo l'anamnesi e la storia della vittima che poi diventa il racconto. La medicina legale narrativa porta poi a esprimere un giudizio diagnostico, differenziando, ad esempio, tra maltrattamento e violenza domestica. È un approccio, lo dico per esperienza personale, che ha un certo effetto sulle vittime".

I dati, che sono ancora in una fase preliminare, rivelano che nei femminicidi si osserva "un’aggressività mirata prevalentemente al volto, come se si volesse cancellare l’identità della vittima, alla bocca e al cavo orale, come se si intendesse privarla della parola, al collo, a simboleggiare la supremazia del carnefice sulla fragilità della vittima, e alla regione mammaria e al pube come chiaro bersaglio simbolico di un’aggressione alla sessualità della vittima". Inoltre, si registra il fenomeno "dell’overkilling, in cui i colpi inflitti superano numericamente quelli sufficienti a procurare la morte".

La medicina legale ormai ha consolidato alcune casistiche: "Quando una donna viene maltrattata perché non le viene riconosciuto il diritto all'autodeterminazione, allora siamo in presenza di un'aggravante ed è in questo caso che si parlerà di femminicidio, non di omicidio. Come medico legale è importante anche condurre le donne a questi ragionamenti, far capire che quando in gioco c'è la loro autodeterminazione - e non solo un atto di violenza gratuita -, allora la situazione è ancora più grave".

25 ottobre 2024
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