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Covid. Draghi: “La pandemia non è finita. Dobbiamo fronteggiare nuove e pericolose varianti”


Il presidente del Consiglio invita a non abbassare la guardia. “Rimaniamo pronti a intervenire con convinzione nel caso ci fosse un aggravarsi della pandemia tale da provocare danni all'economia del Paese”. Così il premier in occasione della cerimonia alla Accademia dei Lincei nella quale gli è stato conferito il premio Feltrinelli.

01 LUG - “Dobbiamo fronteggiare l'emergere di nuove e pericolose varianti del virus. Rimaniamo pronti a intervenire con convinzione nel caso ci fosse un aggravarsi della pandemia tale da provocare danni all'economia del Paese”. È quanto ha affermato il presidente del Consiglio Mario Draghi, in un passaggio della sua lezione all'Accademia dei Lincei.
 
“A più di un anno dall'esplosione della crisi sanitaria – ha detto -, possiamo finalmente pensare al futuro con maggiore fiducia. La campagna di vaccinazione procede spedita, in Italia e in Europa. Dopo mesi di isolamento e lontananza, abbiamo ripreso gran parte delle nostre interazioni sociali. L'economia e l'istruzione sono ripartite. Dobbiamo però essere realistici. La pandemia non è finita. Anche quando lo sarà, avremo a lungo a che fare con le sue conseguenze”.
 
Di seguito il testo integrale dell'intervento di Mario Draghi:
 
“Ho molti motivi per essere grato all’Accademia dei Lincei nella giornata di oggi. Il prestigioso Premio Feltrinelli. La motivazione con cui mi è stato dato.
La possibilità di pronunciare questa lezione in un luogo che fa della ricerca la stella polare della sua esistenza, in un luogo reso illustre dai meriti scientifici dei suoi membri.
 
Ma vi sono anche ragioni più personali per questa mia gratitudine oggi. È l’opportunità di scorgere nel pubblico i visi di tanti amici di una vita.
Ed è l’opportunità per ricordare che tutti coloro che hanno formato il mio modo di pensare in economia, erano membri dell’Accademia dei Lincei.
Federico Caffè - classe 1970. Sergio Steve - classe 1967. Franco Modigliani - socio straniero classe 1991 e premio Nobel per l’economia. Robert Solow - socio straniero, anch’egli Nobel, classe 1985.
A loro e a tutti voi dico oggi grazie!
 
A più di un anno dall’esplosione della crisi sanitaria, possiamo finalmente pensare al futuro con maggiore fiducia.
La campagna di vaccinazione procede spedita, in Italia e in Europa. Dopo mesi di isolamento e lontananza, abbiamo ripreso gran parte delle nostre interazioni sociali. L’economia e l’istruzione sono ripartite. Dobbiamo però essere realistici. La pandemia non è finita. Anche quando lo sarà, avremo a lungo a che fare con le sue conseguenze. Una di queste è il debito – l’argomento della mia lezione di oggi.
 
La crisi economica iniziata lo scorso anno non ha precedenti nella storia recente. Si è trattato di una recessione causata in gran parte da decisioni prese consapevolmente dai governi. Per prevenire una diffusione catastrofica del virus abbiamo dovuto imporre restrizioni che hanno portato alla chiusura di molti settori dell’economia.
 
Non avevamo alternative. La tutela della salute e la protezione dell’economia non erano obiettivi tra loro in conflitto. L’alta circolazione del virus e il rischio del collasso del sistema ospedaliero rendevano impensabile la ripartenza di consumi e investimenti. La politica sanitaria doveva avere la priorità.
 
A quel punto, la sola scelta possibile era tra una recessione e una depressione. Potevamo fare in modo che il maggior numero possibile di aziende superasse la fase di restrizioni e rimanesse sul mercato, sopportando così una recessione severa, ma temporanea. Oppure avremmo potuto non farlo, come alcuni sostenevano all’inizio della pandemia, non avendone ancora compreso la gravità. In quel caso, l’improvvisa frenata di consumi e investimenti avrebbe causato un’ondata di fallimenti e una depressione profonda.
 
Avremmo avuto la chiusura di intere filiere produttive, con conseguenze disastrose per il futuro non solo dell’economia, ma dell’intero Paese. Il costo della scelta di avere una recessione invece di una depressione è stato il debito. L’aumento del debito di questi mesi è stato quindi deliberato e soprattutto auspicabile.
 
La pandemia è un disastro naturale. Molte imprese che hanno dovuto fermarsi, non lo hanno fatto per colpa loro, ma perché glielo ha imposto il governo. Avevamo noi, come collettività, un interesse a mantenere intatta la loro capacità produttiva e a preservare i loro posti di lavoro. L’unico modo per tenere le aziende sul mercato era dare loro fondi per compensare almeno in parte la perdita di fatturato e aiutarle a preservare i posti di lavoro.
 
Lo abbiamo fatto tramite sussidi e garanzie sui prestiti bancari. Dall’inizio della crisi, abbiamo esteso alle imprese garanzie per 208 miliardi di euro e sostegni per quasi 100 miliardi. I sussidi hanno comportato un aumento del debito pubblico. I prestiti bancari garantiti hanno comportato un aumento del debito privato. L’aumento nel debito totale rispetto al 2019 è una misura molto significativa del costo economico di questa pandemia, senza contare l’impatto sulle diseguaglianze.
 
Alla fine di quest’anno, il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo in Europa sarà cresciuto di circa 15 punti percentuali rispetto alla fine del 2019. In Italia, secondo le stime della Commissione Europea, il debito pubblico aumenterà dal 135% del Pil, al 160%. Si tratta di un incremento maggiore rispetto a quello della Grande Crisi Finanziaria. E a questo si è anche aggiunto un aumento consistente del debito privato.
 
È molto probabile che, per diverse ragioni, questa fase di crescita del debito, pubblico e privato, non sia ancora terminata. Dobbiamo fronteggiare l’emergere di nuove e pericolose varianti del virus. Rimaniamo pronti a intervenire con convinzione nel caso ci fosse un aggravarsi della pandemia tale da provocare danni all’economia del Paese.
 
Il reinserimento dei lavoratori dopo i traumi della crisi non è immediato. Il governo continua a sostenerli, come ha fatto in questi due anni. La Banca Centrale Europea ha stimato che in assenza del sostegno pubblico, le famiglie nei Paesi della zona euro avrebbero perso, in media, quasi un quarto del loro reddito da lavoro. Grazie all’intervento statale, questa perdita è stata del 7%.
 
Infine, le garanzie sui prestiti bancari sono state una condizione necessaria perché gli istituti di credito dessero liquidità a tutte le aziende che ne avevano bisogno, rapidamente e a un costo ragionevole. Tuttavia, in quella fase, non è stato possibile né per i governi né per le banche distinguere in maniera precisa tra quelle aziende che sarebbero state in grado di sopravvivere dopo la pandemia, e quelle che non ce l’avrebbero fatta. Farlo sarebbe stato probabilmente impossibile: non sapevamo, e non sappiamo ancora, quanto la crisi sanitaria avrebbe trasformato i nostri comportamenti e i nostri consumi.
È dunque inevitabile che una parte di questo debito implicito si cristallizzi, e vada poi a incrementare il debito pubblico.
 
L’altro motivo per mantenere una politica di bilancio espansiva è aiutare la crescita. L’economia italiana ha operato al di sotto del suo potenziale per gran parte degli ultimi dieci anni. C’è dunque molto spazio per utilizzare politiche di bilancio espansive prima di creare pressioni inflazionistiche. Lo abbiamo già fatto in questi due anni: nel 2020, il deficit italiano ha toccato il 9,5% del PIL, e quest’anno, secondo la Commissione, raggiungeremo l’11,7%.
 
Le previsioni attuali della Commissione indicano un aumento del PIL quest’anno in Italia e nell’UE del 4,2%. Credo che queste stime verranno riviste al rialzo, anche in maniera significativa. La fiducia di consumatori e imprenditori sta tornando. La BCE ha indicato che intende mantenere condizioni finanziarie favorevoli. Con il recedere dell’incertezza, l’effetto espansivo della politica monetaria acquisirà ancora più forza. Famiglie e imprese sono più disposte a prendere a prestito e investire quando il futuro è più sicuro.
 
Tuttavia, questa ripresa non è sufficiente per riparare i danni causati dalla crisi sanitaria. Dobbiamo raggiungere tassi di crescita più elevati e sostenibili che non nel recente passato, per aiutare non solo chi non aveva un lavoro prima della pandemia, ma anche chi lo ha perso in questi mesi e chi potrebbe perderlo nei prossimi anni. Le restrizioni di questi mesi hanno cambiato le nostre abitudini di consumo e i nostri modelli produttivi.
 
La digitalizzazione delle imprese in Europa, e in particolare delle piccole aziende, è avvenuta l’anno scorso con una rapidità molto maggiore – alcuni dicono addirittura sette volte - rispetto agli anni precedenti. È una buona notizia, che però ci impone di pensare a chi subirà le conseguenze negative di queste trasformazioni. In particolare i lavoratori con competenze più basse, i cui impieghi sono particolarmente a rischio nell’era della digitalizzazione. Intendiamo mettere in campo politiche attive del lavoro che permettano a chi non ha un’occupazione di acquisire le conoscenze necessarie per le professioni del futuro.
 
Dobbiamo crescere di più anche per contenere l’aumento del debito. Se portiamo il tasso di crescita strutturale dell’economia oltre quello che avevamo prima della crisi sanitaria, saremo in grado di aumentare le entrate fiscali abbastanza da bilanciare l’aumento del debito che abbiamo emesso durante la pandemia. Potremo inoltre creare domanda aggiuntiva per le aziende, riducendo il rischio di default e dunque il costo dei programmi di garanzie statali sui debiti d’impresa.
 
Sono obiettivi non solo auspicabili, ma anche raggiungibili.Come ho detto in precedenza, in questi due anni, il debito pubblico in Europa e in Italia è aumentato di circa 20 punti percentuali di prodotto interno lordo. Anche se utilizziamo un tasso d’interesse prudenzialmente alto, pari a 2,5%, il costo annuo di questo debito risulta essere pari a circa mezzo punto percentuale di reddito nazionale l’anno.
 
Siccome le entrate del governo ammontano in Italia e in Europa a circa il 40-50% del PIL, è sufficiente incrementare il tasso di crescita strutturale di 1-1,25 punti percentuali per coprire il costo del debito degli ultimi due anni.
 
Tuttavia, non tutte le politiche di bilancio espansive sono uguali. Oggi, dobbiamo puntare in particolare sugli investimenti, che permettono un rilancio della domanda e un miglioramento dell’offerta. Il governo ha già cominciato a farlo, con la presentazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, approvato dalla Commissione Europea la settimana scorsa.
 
Gli investimenti previsti nel piano servono a superare le carenze nelle infrastrutture – fisiche e digitali – che si sono accumulate negli ultimi decenni. È questa la ragione per cui l’Italia non ha avuto esitazioni a fare pieno uso di tutti i fondi messi a disposizione dall’Unione, sia le sovvenzioni, sia i prestiti.
 
Allo stesso tempo, dobbiamo superare i molti impedimenti strutturali che ci impediscono di realizzare il nostro pieno potenziale e rilanciare la produttività.
 
In Italia, la produttività totale dei fattori, una misura del livello di efficienza totale dell’economia, nel 2019 era addirittura più bassa che nel 2001. Aumentare la produttività si traduce nell’attuare il nostro programma di riforme. Abbiamo già approvato importanti semplificazioni amministrative. Iniziato la riforma della pubblica amministrazione e delle assunzioni nel settore pubblico. Riformato il Ministero dell’Ambiente, attribuendogli nuovi e importanti poteri e trasformandolo nel Ministero della Transizione Ecologica. Costruito il Ministero dell’Innovazione Tecnologica e della Transizione Digitale.
 
I prossimi passi sono la riforma della giustizia civile, della concorrenza e degli appalti.
 
Intendiamo contribuire a ricreare un clima di fiducia tra Stato e imprenditori, perché i privati scelgano di investire in Italia più di quanto abbiano fatto negli ultimi anni.
 
Infine, dobbiamo migliorare la partecipazione al mercato del lavoro di giovani e donne. Perché se è vero che non si può avere coesione sociale senza crescita, è anche vero che non si può avere crescita senza coesione sociale. I giovani sono i più esposti alle fragilità della nostra economia. Al sud, circa uno su tre non studia e non lavora. È importante favorire la transizione fra scuola e lavoro. Occorre dotare le scuole di programmi che permettano agli studenti di investire presto su competenze specifiche, in linea con i loro talenti e le loro aspirazioni. In questo senso, bisogna potenziare gli istituti tecnici e professionali e rafforzare il loro legame con il mercato del lavoro, perché l’offerta di capitale umano specializzato risponda velocemente alla domanda da parte delle imprese.
 
E dobbiamo rafforzare l’insegnamento delle materie cosiddette “STEM” – scienza, tecnologia, ingegneria e matematica - per portare più giovani a scegliere percorsi scientifici per la loro carriera professionale.
 
Le donne si trovano spesso a sopportare la maggior parte del carico assistenziale all’interno delle famiglie. Lo abbiamo visto durante la fase più acuta della pandemia quando hanno sofferto le conseguenze delle restrizioni sanitarie più degli uomini. Occorre sopperire alla mancanza di asili nido e alla carenza di strutture per la cura degli anziani. Questo non solo aiuterà le donne che devono entrare nel mercato del lavoro, ma anche quelle già inserite a progredire nelle loro carriere.
 
Oggi è quindi giusto indebitarsi, ma questo non è sempre vero. Questo mi porta a una distinzione a cui avevo accennato qualche mese fa, tra quello che chiamo “debito buono” e quello che chiamo “debito cattivo”. Ciò che rende il debito buono, o cattivo, è l’uso che si fa delle risorse impiegate. Questa distinzione è particolarmente importante in una fase di transizione come quella attuale, in cui possono essere più marcate le differenze di produttività tra i progetti in cui è possibile investire.
 
Il debito può rafforzarci, se ci permette di migliorare il benessere del nostro Paese, come è avvenuto durante la pandemia. Ci può rendere più fragili se, come troppo spesso è accaduto in passato, le risorse vengono sprecate. Il debito può unirci, se ci aiuta a raggiungere il nostro obiettivo di prosperità sostenibile, nel nostro Paese e in Europa.
 
Ma il debito ci può anche dividere, se solleva lo spettro dell’azzardo morale e dei trasferimenti di bilancio, come ha fatto dopo la crisi finanziaria. Si pensi, ad esempio, al debito comune che finanzia il Next Generation EU. Il nostro Paese è il principale beneficiario di questo programma e ha dunque un’enorme responsabilità per la sua riuscita. Se sapremo utilizzare queste risorse in maniera produttiva e con onestà non aiuteremo soltanto l’economia italiana. Rafforzeremo anche la fiducia all’interno dell’Unione Europea, contribuendo in maniera decisiva al processo di integrazione.
 
Più in generale, tra i modi di utilizzare il debito pubblico che lo qualificano come debito buono ci sono:
Il debito che serve a finanziare investimenti pubblici ben mirati.
Il debito che permette di assorbire gli shock esogeni come la difesa da una guerra o, appunto, una pandemia.
Il debito utilizzato per fare politica anticiclica.
 
La politica di bilancio anticiclica è particolarmente importante in un’unione monetaria, perché la politica monetaria non può rispondere da sola agli shock isolati che colpiscono un Paese.
 
Lo è ancora di più oggi, quando la vicinanza dei tassi d’interesse al loro limite inferiore effettivo riduce la capacità della BCE di sostenere autonomamente la domanda aggregata.
 
Tuttavia, non tutti i Paesi della zona euro sono ugualmente in grado di utilizzare la politica di bilancio come strumento di stabilizzazione.
Il debito sovrano che non è considerato sicuro lo consente solo in parte, perché la sua emissione può comportare tassi d’interesse più elevati.
Solo i debiti di alcuni Paesi vengono infatti considerati completamente privi di rischi dai mercati.
Questi possono emettere tutto il debito necessario per contrastare il calo della domanda privata durante una crisi senza provocare un aumento dei tassi d’interesse.
 
Un esempio è quanto avvenuto durante la crisi del 2011. Il debito pubblico di alcuni Paesi come l’Italia non è stato ritenuto sicuro dagli investitori proprio quando i governi avevano bisogno di emetterlo per rispondere alla crisi. Lo spazio fiscale per questi Paesi si è ridotto proprio quando ne avevano più bisogno perché i loro tassi d’interesse sono aumentati.
 
Negli ultimi anni, la BCE ha sopperito a questo problema grazie a una politica monetaria espansiva, giustificata dal fatto che l’inflazione nel medio periodo continuava ad essere molto più bassa del suo obiettivo primario.
 
Ciò ha evitato che le economie cadessero in un circolo vizioso, come quello del 2011, dove la mancanza di sicurezza nel debito pubblico generava aumenti nei tassi d’interesse che inducevano i governi ad attuare politiche restrittive nel tentativo di guadagnare credibilità. La crescita ne risentiva, la credibilità in questi Paesi diminuiva e i tassi continuavano ad aumentare.
 
Ad oggi, il tasso d’inflazione all’interno della zona euro continua a rimanere basso e a richiedere una politica monetaria accomodante. Tuttavia, in futuro queste circostanze potrebbero non ripetersi se le aspettative di inflazione dovessero eccedere in maniera duratura l’obiettivo statutario della BCE.
 
A livello europeo dobbiamo dunque ragionare su come permettere a tutti gli Stati membri di emettere debito sicuro per stabilizzare le economie in caso di recessione. La discussione sulla riforma del Patto di Stabilità, per ora sospeso fino alla fine del 2022, è l’occasione ideale per farlo. Una risposta credibile a questo problema consentirebbe di migliorare la capacità della zona euro di rispondere alle crisi e allo stesso tempo rafforzerebbe ulteriormente l’indipendenza della BCE.
 
Una politica fiscale espansiva non è in contrasto con la graduale discesa del rapporto tra debito e prodotto interno lordo necessaria nel medio periodo per ridurre le fragilità di una sovraesposizione.
 
Occorre però sollevare lo sguardo dall’orizzonte della macroeconomia per riflettere sulla profonda trasformazione che le nostre società si apprestano ad affrontare. La transizione energetica, la consapevolezza dell’importanza della ricerca e il percorso che porterà le generazioni future verso gli obiettivi del 2030 e del 2050 attribuiscono allo Stato un ruolo attivo che è cruciale.
Non solo nella costruzione di infrastrutture chiave nella ricerca e nello sviluppo. Ma soprattutto nel catalizzare gli investimenti privati nelle aree di priorità.
Dando fiducia. Semplificando le procedure. Aiutando le imprese a gestire il rischio in aree nuove. Disegnando politiche di decarbonizzazione trasparenti e condivise tra Paesi.
 
Per l’Italia, questo è un momento favorevole. Le certezze fornite dall’Europa e dalle scelte del governo, la capacità di superare alcune di quelle che erano considerate barriere identitarie, l’abbondanza di mezzi finanziari pubblici e privati sono circostanze eccezionali per le imprese e le famiglie che investiranno capitali e risparmi in tecnologia, formazione, modernizzazione.
 
Ma è anche il momento favorevole per coniugare efficienza con equità, crescita con sostenibilità, tecnologia con occupazione. È un momento in cui torna a prevalere il gusto del futuro. Viviamolo appieno, con determinazione e con solidarietà”. 

 
 

01 luglio 2021
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