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Biotestamento. Le novità del testo varato dalla Camera ed ora all’esame del Senato

di Fabio Cembrani

La Camera ha approvato il disegno di legge che modifica le norme sul consenso informato e introduce le disposizioni anticipate di trattamento. Al di là della sua buona qualità complessiva sul piano della tecnica legislativa, ciò che però colpisce, anche ad una prima lettura, è l’ambiguità di alcune scelte terminologiche in esso contenute. Ecco un'analisi della legge in vista del prossimo esame del Senato che si preannuncia tutt'altro che facile con il rischio di scontentare tutti

06 MAG - Il 20 aprile 2017 la Camera dei deputati, al termine di una discussione non sempre lineare come emerge dalla cronaca parlamentare, ha, a larga maggioranza, licenziato il d.d.l. “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”
 
L’articolato, modificato (non di poco, anche se ad una primissima lettura molte sono le sovrapposizioni testuali) rispetto alla versione approvata dalla Commissione il 2 marzo 2017 con l’inserimento di novità (l’intervenuto cambio del titolo del d.d.l.) e di qualche abrogazione (la più rilevante riguarda la banca-dati per esigenze di parità finanziaria), passa ora all’esame del Senato dove la discussione si preannuncia ancor più difficile per il delicato equilibrio della maggioranza politica all’interno della quale esistono, come si sa, diverse correnti di pensiero sui temi eticamente sensibili.
 
La prima conferma l’idea che la libertà della persona (art. 13 Cost.) ed il diritto alla salute (art. 32 Cost.) traslano definitivamente nel consenso informato e nel suo opposto (il dissenso o rifiuto informato): locuzione di straordinaria ambiguità nonostante la sua ampia diffusione nel mondo professionale (ed in quello giuridico che lo considera una regola della vita[1]) la quale è però  un’invenzione lessicale priva di qualsivoglia tradizione rappresentando il precipitato nella nostra lingua della traslitterazione della parola inglese informed consent.
 
La seconda riguarda la conferma che la volontà previa della persona viene indicata come disposizione (non più dichiarazione) ma non già come direttiva anticipata di trattamento con una differenza che non è di poco conto essendo ovvio il valore prescrittivo della direttiva. La terza avvalora l’idea che la nostra moral agency sia ricondotta, alternativamente, o nella capacità di agire o in quella di intendere e di volere usati quasi che essi fossero un’endiadi.
Abbozzando un primo e provvisorio esame critico sui contenuti del d.d.l., è evidenza pacifica che esso si occupa principalmente del consenso informato non introducendo però alcuna sostanziale novità ma consacrando il già esistente, ovverosia i principi riconosciuti a livello costituzionale, sovranazionale (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la bio-medicina mai citata nel d.d.l.), giurisprudenziale e deontologico: l’ art. 1, comma 4 prevede, infatti, la sua costante acquisizione in forma scritta ovvero, quando le condizioni del paziente non lo permettono, attraverso la videoregistrazione o l’uso di altri dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare oltre al suo inserimento o in Cartella clinica o nel fascicolo sanitario elettronico sperando che esso sia attivato in tempi celeri.
 
Con una previsione che andrà pericolosamente a burocratizzare la relazione di cura, tradendo le sue stesse finalità: che sono quelle di costruire un’alleanza prioritariamente umana le cui architravi portanti sono il riconoscimento reciproco, il paritario rispetto e la condivisione del certo e dell’incerto che non deve però mai degenerare nella (pre)costituzione di cause di giustificazione per non avere guai.
 
Il consenso non è così la raccolta di una firma olografa su un modulo di carta prestampata in cui sono di regola enfatizzati i rischi  ma la conclusione - mai ipostatica - di un processo fluido e dinamico che, attraverso la comunicazione (verbale e non), pretende di costruire un’alleanza fiduciaria che non si dinamizza certo con l’enunciazione in chiave difensiva dei rischi ma attraverso l’incontro di autentiche umanità le quali si riconoscono e si alimentano reciprocamente attraverso la lealtà ed il pieno rispetto delle singole autonomie e responsabilità.
 
A poco valendo il richiamo operato dal d.d.l. alla comunicazione come tempo di cura (art. 1, comma 8) perché a pacifico che i medici, nei sistemi performanti della sanità pubblica italiana che li opprimono in relazione al fattore tempo, cercheranno di arrivare alla firma sul modulo (di consenso o di dissenso) per esercitare il diritto alla loro irresponsabilità penale e civile laddove dovessero emergere le complicanze del trattamento o le conseguenze del rifiuto. Con l’ulteriore deriva che sarà proprio questa irresponsabilità sul piano della colpa a selezionare anche i contenuti del consenso (o del dissenso) informato in cui sarà data sicura enfasi ai rischi ed agli eventi avversi, anche a quelli statisticamente residuali o poco possibili e, ad essere realisti, anche a porre il medico nella piena legittimità di astenersi, nel caso di rifiuto opposto dalla persona, da qualsiasi azioni di umano convincimento visto il suo esonero dalla perseguibilità giuridica.
 
Con una previsione ancor più poco chiara nella parte in cui si prevede che, nell’ipotesi in cui la persona rifiuti in tutto o in parte di ricevere le informazioni, il consenso debba essere espresso dai familiari o da una persona di sua fiducia (art. 1, comma 3) non essendo nemmeno comprensibile quanto indicato dal comma 11 dell’art. 1 che fa “salva l’applicazione delle norme speciali che disciplinano l’acquisizione del consenso informato per determinati atti o trattamenti sanitari” (art. 1, comma 11): le quali andrebbero esplicitate perché se il d.d.l. opera qualche riferimento per dare una cornice ai trattamenti sanitarii (inserendo, tra di essi, l’alimentazione e l’idratazione artificiali “in quanto somministrat(e) su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici”), l’atto sanitario appare essere un labirinto indefinito del tutto pericoloso anche per quanto indicato dalla legge Gelli-Bianco sulla responsabilità professionale.
 
Poche novità, dunque, nei primi articoli del d.d.l. approvato dalla Camera, con una consacrazione del già esistente che, tuttavia, poteva essere declinato in maniera più incisiva e senza estraniarsi dalle ampie criticità dell’oggi laddove si fosse davvero voluto provare a correggere i molti difetti della disumanizzazione del care in un contesto sanitario sempre più definanziato, complesso e super-specialistico  che dovrebbe saper meglio rispondere alle nuove sfide poste dalle molte forme di cronicità.
 
A queste sostanziali conferme si aggiunge qualche novità contenuta negli art. 4 e 5 che, rispettivamente, disciplinano le direttive (rectius, dichiarazioni) anticipate di trattamento e la pianificazione anticipata della cura.
 
Riguardo alle prime si conferma l’esigenza della loro burocratizzazione sia nella redazione che nella fase del loro deposito nella banca-dati facoltativa regionale (art. 4, comma 7) che conferma quanto già si è detto a proposito del consenso e del rifiuto informato. Se è comprensibile che la preoccupazione era quella di garantire la loro autenticità, ciò che non è chiaro sono le ragioni in forza delle quali la nostra personale libertà debba essere etero-controllata  sia nella fase redattiva che in quella del suo deposito anche perché la firma sul modulo può ben rappresentare una garanzia sufficiente essendo peraltro prevista per altre, altrettanto importanti, dichiarazioni di volontà (ad es., per quella testamentaria).
 
La scrittura olografa è così una garanzia di per sé stessa sufficiente a dimostrare l’autenticità della volontà dettata in anticipo dalla persona ritenendo che il controllo esterno a queste decisioni personalissime sia un appesantimento inutile, quasi una forma di violenza che mina la nostra stessa dignità.  Quanto poi all’idea che il medico, nel caso di sopravvenuta incapacità della persona di autodeterminarsi, le possa disattendere in tutto o in parte (art. 4, comma 5) quando “esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente “ o nel caso di sussistenza “di terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di assicurare possibilità di miglioramento delle condizioni di vita”, occorre chiedersi se questa criticità che pur dobbiamo ammettere in linea teorica non poteva essere aggirata in altra maniera: prevedendo, ad es., che le dichiarazioni anticipate di trattamento debbano essere periodicamente aggiornate e redatte con il sostegno di un medico che, meglio di altri, potrà illustrare alla persona le opzioni terapeutiche al momento disponibili e rendere così esigibili le sue personalissime scelte di vita.
 
Non essendo poi nemmeno condivisibile l’idea che, nel caso di necessità quando le DAT non individuano il fiduciario, la questione debba essere rimessa al Giudice tutelare (art. 4comma 4). C’è da chiedersi, infatti, se i tempi della giurisdizione siano o meno compatibili con le esigenze della cura, se i Giudici non debbano occuparsi di affari più seri e sulla base di quali elementi tecnico-giuridici i rappresentanti dell’ordinamento dovranno in queste situazioni decidere anche ad evitare i pur sempre possibili ricorsi ai gradi superiori; occorre domandarsi, in altre parole, se l’esigenza di affidare alla giurisdizione un controllo di merito sia un ulteriore elemento che rinforza l’esigenza dell’etero-controllo normativo sulle nostre volontà nel fine della vita o se essa non sia la spia dell’esigenza di dare una qualche solidità ad una questione eticamente sensibile. 
 
C’è da chiedersi, ancora, se questa previsione non confermi la poca fiducia pubblica affidata al medico (confermata dall’esigenza di raccogliere le DAT con l’assistenza di due testimoni nella revoca delle stesse: art. 4, comma 7) o se essa non risponda all’esigenza di lasciare al medico stesso una via di fuga per eludere la volontà anticipata della persona: se fosse così, più opportuno sarebbe lasciare aperta ai professionisti la strada della clausola di coscienza pur evidenziando che questa opzione non deve essere confusa né con l’obiezione di coscienza né con la disobbedienza civile, anche perché resto convinto dell’esigenza che le nostre personali coscienze debbano sempre (responsabilmente) fare un passo indietro quando esse possono mettere in tensione  libertà e diritti legittimi di terzi.
 
Anche riguardo alla pianificazione anticipata della cura valgono le stesse considerazioni. Stride, ancora una volta, il richiamo alla capacità di intendere e di volere della persona che espelle da questo diritto di libertà i tanti pazienti psicogeriatrici ritenuti giudizialmente incapaci di provvedere ai propri interessi per un vizio di mente (così gli interdetti e gli inabilitati) o per una menomazione fisica o psichica anche di carattere temporaneo (così le persone in amministrazione di sostegno).
 
Per questa particolare forma di volontà anticipata, valida per tutte quelle persone affette da una disabilità o da una patologia cronica a carattere evolutivo, il d.d.l. prevede la sua redazione per iscritto ovvero, quando la situazione non lo permette, attraverso apparecchi di videoregistrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare (art. 5, comma 4) ed il loro inserimento o in Cartella clinica o nel fascicolo sanitario elettronico. Con un disallineamento incomprensibile rispetto a quanto previsto per le dichiarazioni anticipate di trattamento che, come ricordato, sono sottoposte ad un complesso sistema di controllo esterno.
 
Nella pianificazione anticipata della cura non sembra così porsi nessun problema riguardo all’autenticità del documento con una situazione che risulta paradossale se si pensa che essa riguarda trattamenti medici molto probabili mentre la dichiarazione anticipata attiene ad una situazione teorica, ancorchè pur sempre possibile: nell’un caso si ammette il ruolo di garanzia sociale del medico, nell’altro lo si mette in dubbio sostituendolo con un sistema pubblico di controllo esterno.
 
Quanto poi al rispetto della volontà della persona espressa nella pianificazione anticipata della cura il d.d.l. fa salvo quanto previsto per la dichiarazione anticipata di trattamento: che il medico la possa disattendere in accordo con il fiduciario quando esistono cure mediche non prevedibili all’atto della redazione (art. 5, comma 5) dimenticando però che la pianificazione anticipata della cura è un processo che deve essere costantemente ragionato e riverificato non foss’altro perché, in queste situazioni, le persone titolari del diritto non sono persone sane ma pazienti ammalati.
 
Nulla dice, invece, la proposta di legge riguardo al momento in cui è ragionevole affrontare la pianificazione anticipata della cura che non può essere né troppo precoce né, naturalmente, troppo tardivo ferme restando, naturalmente, le scelte personali di chi vuole affrontare la questione fin da subito, già al momento della comunicazione della diagnosi. Con un silenzio davvero incomprensibile nelle sue reali intenzioni che può davvero implementare il contenzioso medico nell’ipotesi in cui il processo di partenza della pianificazione della cura sia iniziato o troppo precocemente o tardivamente impedendo così alla persona di maturare la sua scelta in piena consapevolezza e libertà.
 
Poche sono, così, le luci del d.d.l. pur con qualche passo in avanti, ancora molto cupe le zone d’ombra e tanti gli inspiegabili silenzi su questioni centrali del care. Le poche luci non sono, tuttavia, da enfatizzare come se esse fossero una novità: si tratta, infatti, di riconferme del diritto vivente che hanno basi normative di rango primario se si considera che il pieno sviluppo della personalità, la libertà ed il diritto alla cura sono tra i paradigmi fondanti la nostra democrazia costituzionale e che questi diritti sono stati rinforzati da più recenti fonti giuridiche di provenienza sovranazionale (europee e comunitarie) oltre che da tutti i Codici di deontologia professionale e da una costante elaborazione giurisprudenziale.
 
Non si tratta, così, di novità ma di sole conferme le quali non richiedevano certo l’avvallo del legislatore dell’urgenza perché la cura è un diritto costituzionalmente garantito (non un dovere) con la conseguenza che la persona medesima può legittimamente rifiutarla a parte le oramai sporadiche eccezioni di legge che mai, comunque, possono violare i limiti imposti dal rispetto della dignità umana. 
 
Un diritto inalienabile (inviolabile o fondamentale che dir si voglia)a  la cui portata è ampia e valida anche per il futuro nell’ipotesi in cui la persona che ne è titolare non sarà più in grado di esprimere o di far sentire la sua voce; perché l’attualità del consenso (o del rifiuto) non può essere una legge universale del tutto o nulla, da usare come grimaldello per banalizzare le molte criticità del care senza volerle però nemmeno umanamente affrontare.
 
Se è dunque realistico pensare che il d.d.l. non colma nessun vuoto legislativo limitandosi a dar conferma di alcuni principi generali dell’ordinamento democratico che di certo non lo richiedevano, molti sono i vuoti e le sue incertezze che occorre ricordare, a futura memoria:
(a) la burocratizzazione del consenso (e del dissenso) informato sia nelle loro modalità di acquisizione che nell’estensione applicativa;
 
(b)  l’individuazione, tra le cause di invalidità del consenso della capacità di agire e della capacità di intendere e di volere che non esauriscono certo la  moral agency della persona;
 
(c) gli strumenti di etero-controllo pubblico esterno sulle dichiarazioni anticipate di trattamento;
 
(d) la loro parziale vincolatività per il medico ed il rinvio alla giurisdizione ordinaria della soluzione degli eventuali dissidi che si dovessero verificare tra il professionista ed il fiduciario;
 
(e) l’incomprensibile disallineamento delle modalità di formalizzazione della volontà anticipata della persona e della pianificazione della cura.
 
Il risultato finale non è soddisfacente e, alla fine, sembra scontentare tutti …: sia chi si appella alla sacralità della vita sia chi vorrebbe dare piena concretezza ed esigibilità alla dignità della persona umana.
 
Fabio Cembrani
Direttore U.O. di Medicina Legale
Azienda provinciale per i Servizi sanitari di Trento
 
[1]Così RODOTA’  S., La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2006.


06 maggio 2017
© Riproduzione riservata

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