Dopo il triennio 2020-2022 dominato dall'emergenza Covid, in cui la spesa sanitaria a carico delle amministrazioni pubbliche ha visto un "aumento significativo", nel 2023 si osserva invece "un calo dello 0,4%" rispetto all'anno precedente (a 130,2 miliardi, contro i 130,8 mld del 2022). Cresce invece la spesa delle famiglie: "Sempre nel 2023, la spesa sanitaria direttamente a carico delle famiglie supera i 40,6 miliardi (+1,7% rispetto al 2022); dopo il calo del 2020, si è registrata una forte ripresa che ha portato la variazione media 2019-2023 a +2,7%". E' il quadro tracciato nella documentazione messa a disposizione dal presidente dell'Istat, Francesco Maria Chelli, oggi in occasione della sua audizione in Commissioni riunite Bilancio di Camera e Senato sulla Manovra. Un quadro che vede anche in crescita la quota di italiani che rinuncia alle cure.
Nel 2023, ultimo anno per cui i dati sono disponibili - analizza l'Istat - la spesa corrente per l'assistenza sanitaria sia pubblica che privata ammontava a oltre 176 miliardi di euro, di cui poco meno dei tre quarti a carico delle amministrazioni pubbliche (74,0%), il 23,1% a carico direttamente delle famiglie e il 3% sostenuta dai regimi di finanziamento volontari. Nella relazione di Chelli si cita poi l'indagine 'Aspetti della vita quotidiana' che raccoglie informazioni sulle persone che, pur avendone bisogno, hanno dovuto rinunciare a un accertamento diagnostico o a una visita specialistica, un importante indicatore della qualità dei servizi sanitari. Nel 2023 la quota di persone che hanno rinunciato a curarsi si attesta al 7,6% sul totale della popolazione, questa percentuale era pari al 6,3% nel 2019. Riguardo ai motivi della rinuncia, la quota di quanti hanno rinunciato a causa delle lunghe liste di attesa risulta pari al 4,5% (2,8% nel 2019). Le rinunce per motivi economici riguardano il 4,2% della popolazione, quelle per scomodità del servizio l'1%.
Focus anche sul personale. "La dotazione e l'invecchiamento del personale medico rappresentano criticità per il comparto della sanità, anche alla luce del futuro aumento della domanda di cure dovuto alla dinamica della popolazione". In particolare sono i medici di medicina generale e gli infermieri le categorie che destano "maggiori preoccupazioni per le prospettive future".
Nel 2022, ultimo anno per cui i dati sono disponibili, la dotazione complessiva di medici (generici e specialisti) in Italia è stata pari a 4,2 camici bianchi per mille abitanti, 0,2 punti in più rispetto al 2019. I medici specialisti costituiscono l'81% circa dei medici totali: nel 2022 sono 3,3 ogni mille residenti, 0,3 punti in più rispetto al 2019. Mentre i medici di medicina generale (Mmg) sono solo 6,7 per 10 mila abitanti e rappresentano il 15,7% dei medici totali. E le preoccupazioni relative a questa categoria, sono motivate dal fatto che i medici di medicina generale sono caratterizzati "da una struttura" che è spostata verso le "età prossime al pensionamento (sulla base dei dati Iqvia si stima che circa il 77% abbia 55 anni e più), da un trend decrescente (il numero è diminuito di oltre 6mila in 10 anni, da 45.437 nel 2012 a 39.366 nel 2022) e da un incremento significativo degli assistiti pro capite (da 1.156 nel 2012 a 1.301 nel 2022)", il che si traduce in un "forte aumento della percentuale di Mmg con più di 1.500 assistiti (in crescita dal 27,3% al 47,7% nell'arco di un decennio)". La dotazione è più bassa nelle regioni del Nord. Sulla quota di mmg con più di 1.500 assistiti, in particolare, si osserva una forbice amplissima, dal 71,0% in Lombardia al 22,4% in Sicilia.
Per quel che riguarda il personale infermieristico (infermieri e ostetriche), "il numero è da molti anni ritenuto insufficiente rispetto ai bisogni di salute della popolazione", rileva l'Istat. La dotazione nel 2022 è pari a 6,8 per mille abitanti, 0,4 punti in più rispetto al 2019. Tra le regioni si osserva un ampio divario, con una dotazione particolarmente bassa pari a 5,7 infermieri e ostetriche per mille residenti in Lombardia, Campania e Calabria e a 6 in Sicilia, mentre tassi significativamente più elevati si registrano in Molise (8,8), nelle province autonome di Bolzano e Trento (8,3), in Liguria (8,1) e in Umbria (8,0).