Questo provvedimento è un po' il manifesto della salute del Ministro Lorenzin e non fa che confermare la visione assolutamente retrograda e arcaica della sanità che già abbiamo avuto modo di verificare in questi quasi cinque anni in cui la Ministra è rimasta tenacemente in sella e come abbiamo drammaticamente appurato qualche mese fa, con l'approvazione del decreto coercitivo sui vaccini; e anche in questo abbiamo ricevuto un provvedimento chiaramente male impostato e mal fatto ab origine.
Un testo intriso di interessi che sono lontani anni luce dai bisogni di salute dei cittadini e dai problemi dei professionisti della sanità, lasciati soli e sottopagati nelle strutture sanitarie, costretti a tamponare, con orari di lavoro inaccettabili, una carenza di personale ormai drammatica.
Non si condivide la natura omnibus del provvedimento, che disciplina questioni molto diverse, alcune delle quali, invece, data l'importanza, avrebbero richiesto una trattazione dedicata, come, ad esempio, la sperimentazione clinica dei medicinali o il riordino delle professioni sanitarie. Invece, accanto a questioni di rilievo, si introducono disposizioni, o meglio prebende, sulle farmacie, oppure si istituisce e disciplina il ruolo unico della dirigenza sanitaria del Ministero della salute, un ruolo dirigenziale ad hoc per pochi e privilegiati soggetti, in contrasto con lo spirito e la delega Madia e con il testo unico del pubblico impiego, che hanno già istituito il ruolo unico della dirigenza per tutte le amministrazioni pubbliche.
Diciamo un'altra verità preliminare: le modifiche intervenute in sede referente, alcune delle quali non accolte con favore da esponenti delle categorie interessate, potrebbero, in realtà, essere ancora modificate, se non in quest'Aula, al Senato, ove la maggioranza, però, sembra avere questa sensibilità diversa, per usare un eufemismo.
Dunque, l'iter del provvedimento potrebbe, in realtà, non concludersi entro il termine della legislatura, e pertanto viene il lecito dubbio che il rush finale dell'approvazione in quest'Aula rappresenti una sorta di spot elettorale per la Ministra Lorenzin. È difficile a credersi che si voglia approvare una delega così complessa al termine della legislatura. Le nostre premesse sono quindi pessimiste, ma speriamo veramente di essere sconfessati, sia nel corso del dibattito in Aula, nel quale avremo l'occasione di tentare di eliminare le prebende e apportare talune necessarie modifiche per rendere il provvedimento accettabile, ma, soprattutto, speriamo di essere sconfessati da quel che avverrà in Senato, dove il testo dovrà rimanere intonso.
Chissà se addirittura il Ministro Lorenzin avrà mai l'ardore di apporre la fiducia al Senato, così come ha fatto di recente per coercizzare i cittadini.
Fatte queste doverose premesse, entriamo ora nell'anima del provvedimento, evidenziando quali sono per noi le principali criticità, che auspichiamo siano superate anche grazie ai nostri ulteriori emendamenti. Pur migliorata molto grazie anche al MoVimento 5 Stelle, la delega sulle sperimentazioni cliniche presenta ancora alcune criticità che devono essere superate: non si risolve l'immediata necessità di adeguare la materia delle sperimentazioni al regolamento europeo del 2014, che prevede il passaggio da una gestione puramente nazionale ad una gestione coordinata a livello europeo. Sarebbero auspicabili indicazioni più incisive per tutelare l'indipendenza della sperimentazione clinica e per garantire l'assenza di conflitti di interesse. Altrettanto auspicabile, come proposto in fase emendativa dal MoVimento 5 Stelle, è il trasferimento delle competenze sulla sperimentazione clinica all'Istituto superiore di sanità, al fine di tenere ben distinta la ricerca di un farmaco dalla successiva commercializzazione. Dirimente sarebbe, inoltre, la rimozione della segretezza dei dati delle sperimentazioni dopo l'immissione in commercio del farmaco, in conformità proprio a quanto indicato dal Regolamento dell'Unione europea.
Il riordino dei Comitati etici, organismi deputati alla valutazione delle domande di sperimentazione clinica, come proposti dal relatore in Commissione, non sono organizzati in maniera da garantire un'efficace indipendenza, come richiesto dal Regolamento dell'Unione europea, poiché proprio la territorialità fa permanere la correlazione con i siti delle sperimentazioni cliniche. Soprattutto, il provvedimento all'esame non chiarisce se si intende separare la valutazione delle domande per gli aspetti etici dalla valutazione per gli aspetti scientifici, come richiesto da Regolamento UE, poiché di fatto si rimanda sine die a tale separazione, correlandola ad un decreto che potrebbe anche non vedere mai la luce, e non viene specificato quale sarà l'organismo deputato a valutare le sperimentazioni cliniche proprio dal punto di vista scientifico.
Se appare senz'altro condivisibile l'articolo aggiuntivo sulla medicina di genere, rimane complessivamente critico il tentativo di riforma delle professioni sanitarie, soprattutto tenendo conto che dovrà applicarsi non più alle attuali sei professioni regolamentate - medici, farmacisti, veterinari, infermieri, ostetriche e tecnici di radiologia - ma ben ventuno ulteriori professioni, per complessive ventisette professioni: biologi, chimici, tecnico audiometrista, tecnico di laboratorio biomedico, tecnico di neurofisiopatologia, tecnico ortopedico, tecnico audioprotesista, tecnico della fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare, igienista dentale, dietista, educatore professionale sanitario, fisioterapista, logopedista, ortottista e assistente in oftalmologia, podologo, tecnico della riabilitazione psichiatrica, terapista della neuro e psico motricità dell'età evolutiva, terapista occupazionale, tecnico della prevenzione nell'ambiente e nei luoghi di lavoro, assistente sanitario, con l'aggiunta del fisico. Una dislocazione provinciale per ventisette professioni, e non più sei, significa avere migliaia e migliaia di poltrone con costi a carico dei professionisti iscritti agli albi; si creano ordini con più professioni, ma ciascuna professione avrà una Commissione d'albo - quindi è stata aggiunta la Commissione d'albo - con un numero di componenti presumibilmente non inferiore a cinque, ma potrebbe essere anche di nove componenti. Moltiplicando i cinque componenti della Commissione d'albo per ciascuna delle ventisette professioni per le 107 province italiane arriviamo a ben oltre 14 mila poltrone.
A questi numeri devono essere aggiunti i membri dei consigli direttivi per un numero variabile da sette a quindici, da moltiplicare per sette, otto ordini e per le 107 province, per un totale di ulteriori 6-7 mila poltrone.
Si aggiungono, poi, i quindici componenti di ciascun comitato centrale e della Commissione d'albo delle federazioni nazionali e arriviamo ad oltre 200 ulteriori poltrone. Infine, bisogna aggiungere i tre componenti del Collegio dei Revisori dei conti per ciascun ordine e per ciascuna provincia, per oltre 2.500 ulteriori poltrone: siamo dunque ben oltre le 22.500 poltrone; attualmente sono, invece, circa 6 mila. Tutte queste poltrone richiedono uffici e personale amministrativo e soprattutto richiedono gettoni e diarie. Chi paga tutto ciò? Ma gli iscritti agli albi, naturalmente.
In legge di bilancio noi avevamo chiesto l'assunzione di 6 mila unità tra personale medico e sanitario e li avete negati, e non serve raccontare la storiella che non sono a carico della finanza pubblica, poiché quelle poltrone sono pagate dai cittadini con una tassa obbligatoria e per noi questo è una vergogna. È assurdo che questo enorme numero di professioni sanitarie abbia una struttura ordinistica, ma bisognerebbe dire “ordinastica”, ancora di livello provinciale, nonostante l'esiguità numerica di alcune professioni. Vedete, il paradosso che viene proposto come cavallo di battaglia, la soppressione delle province per quanto riguarda la gestione politica di questo Paese, e non si riesce nemmeno a chiedere che venga gestito l'ordine a livello regionale, che sarebbe assolutamente congruo col sistema sanitario regionale, così come è concepito.
La maggior parte dei sei ordini attualmente esistenti non sono in grado di funzionare perché il numero degli iscritti e i relativi introiti non consentono un corretto funzionamento e la maggior parte delle risorse vengono usate per rimborsi e compensi degli eletti. Molti, infatti, sono privi di personale e non riescono ad onorare tutti gli adempimenti tipici di una pubblica amministrazione: contabilità, appalti pubblici, trasparenza anticorruzione, procedimento amministrativo, eccetera, con l'evidente impossibilità di dare seguito alle attività istituzionali di loro competenza. Un'articolazione quanto meno regionale, come abbiamo detto, sarebbe peraltro più consona alla struttura regionale del sistema sanitario italiano.
In fase emendativa, per ovviare a questo evidente problema, il relatore ha inserito la possibilità dell'avvalimento o dell'associazione per l'esercizio delle funzioni più rilevanti e, pur ritenendo apprezzabile il tentativo di ovviare all'evidente assurdità di avere migliaia di enti pubblici incapaci di funzionare, in realtà le soluzioni o aggiustamenti trovati non appaiono risolutivi e, comunque, sono di difficile applicazione. Bisogna avere il coraggio di riordinare gli ordini su base regionale. Se da un lato si conferma quanto già vigente, ovvero la natura di ente pubblico non economico, dall'altro lato si introduce una maggiore autonomia, così ampia che mal si concilia con l'anzidetta natura di ente pubblico non economico, volta a tutelare interessi pubblici, ma soprattutto mal si concilia con il carattere paratributario impositivo dei contributi degli iscritti, che, quindi, non è volontario, ma sono obbligati ad iscriversi, non per ricevere in cambio un servizio, ma in forza del loro status di professionista. Riguardo alla trasparenza e alle incompatibilità dentro gli ordini, rimane la volontà di depotenziarne l'applicazione, nonostante proprio il presidente dell'ANAC in audizione avesse rilevato l'ambiguità della disposizione contenuta nel provvedimento.
Nell'ambito dei procedimenti disciplinari rimane insufficiente la separazione tra fase istruttoria e fase giudicante ed appare opportuno che la funzione disciplinare degli ordini sia ripensata, come peraltro avvenuto per altre professioni, per evitare che soggetti eletti siano anche soggetti giudicanti, ovvero evitare che le Commissioni disciplinari coincidano con gli organismi elettivi degli ordini, che ben possono usare, e assai spesso la usano, la mannaia del procedimento disciplinare per opportunità politiche ed elettorali.
Fiore all'occhiello del MoVimento 5 Stelle in fase emendativa è la previsione che il Collegio dei revisori dei conti sia composto da soggetti esterni, ossia da revisori legali, ma rimane l'assenza del controllo della Corte dei conti, pur richiesto con altri emendamenti. I revisori dei conti esterni è il minimo sindacale per quanto ci riguarda; significa semplicemente applicare la legge e il Ministro Lorenzin ha avuto il coraggio di presentare un testo in cui i revisori dei conti erano ancora i sanitari medesimi: stendiamo un velo pietoso. Ancora oggi è bene che i cittadini italiani lo sappiano: ci sono enti pubblici non economici con revisori dei conti che svolgono la professione di infermiere, di ostetrica, di medico; fanno esercizio abusivo della professione di revisore legale, in aperta violazione delle norme sul controllo contabile vigenti per tutte le pubbliche amministrazioni, senza che il ministero vigilante abbia mai eccepito nulla.
Apprezzabile è l'introduzione di un più rilevante quorum nel sistema elettorale, nonché la previsione che il presidente uscente dell'ordine non sia più il presidente del seggio elettorale.
Grazie al MoVimento 5 Stelle è stata introdotta l'espressione di voto per via telematica, ma senza che, al riguardo, sia stata posta una scadenza al decreto attuativo, e nemmeno l'obbligatorietà che ci avrebbe posto all'avanguardia in Unione Europea, dato che gli ordini già forniscono la posta elettronica certificata ai loro iscritti: quindi, sarebbe stato un emendamento a costi praticamente identici rispetto a quelli sostenuti attualmente.
L'introduzione del limite dei mandati, come introdotto in fase emendativa, appare assolutamente insufficiente, poiché la consecutività indicata in realtà rende inefficace il limite di mandato, e poiché le cariche all'interno di un ordine non sono elettive, non sono gli iscritti che le eleggono, ma sono elezioni di secondo livello del consiglio direttivo, che ben potrebbero variare, anche a distanza di pochi mesi, durante l'arco quadriennale del mandato elettorale. Pertanto, sarebbe stato necessario correlare il limite al mandato elettorale a tutti i membri del consiglio direttivo, eliminare la non consecutività, bensì proprio andare oltre il secondo mandato elettorale.
Grazie ai 5 Stelle, si prospetta la possibilità che la tassa di iscrizione all'albo sia diversificata tenuto conto dello stato occupazionale e reddituale degli iscritti; rimane la rilevante criticità che affida ad organi eletti funzioni gestionali e amministrative, senza che sia contemplata, come avviene per tutta la pubblica amministrazione, la separazione tra la gestione amministrativa e dirigenziale e le funzioni di indirizzo politico. Aumenta sensibilmente il numero dei componenti dei comitati centrali delle federazioni nazionali, che dagli attuali 7 o 9 passano a 15 componenti. L'aumento del numero dei componenti comporta ovviamente l'aumento delle risorse necessarie a mantenerli, sia con riguardo a missioni, diarie, e sia con riguardo a strutture amministrative di supporto, che a tutt'oggi sono troppo esigue e in affanno: sarebbe stato auspicabile prevedere almeno l'incompatibilità tra la carica provinciale e quella nazionale, in maniera da rendere più democratico e rappresentativo l'intero farraginoso sistema.
Infine, il provvedimento introduce ex novo lo statuto delle federazioni nazionali approvato dai consigli nazionali. Tale statuto definisce le attribuzioni e le funzioni delle federazioni regionali e interregionali degli organi, le modalità di articolazione territoriale degli ordini, nonché l'organizzazione e gestione degli uffici del patrimonio, delle risorse umane e finanziarie. Lo strumento statutario appare azzardato, soprattutto qualora non sia approvato quantomeno dal Ministero vigilante. Non appare condivisibile delegare ad un atto statutario interno l'organizzazione e gestione degli uffici del patrimonio, delle risorse umane e finanziarie, tenuto conto che per tutti gli enti pubblici non economici valgono le norme pubbliche. Tale previsione è sintomatica della reiterata volontà di gestire le risorse economiche ed umane in maniera assolutamente svincolata da ogni controllo esterno, nonostante tali risorse siano acquisite in forza di un potere impositivo delegato dallo Stato.
Sono state complessivamente condivise le modifiche introdotte in fase emendativa su impulso del relatore in riferimento alle professioni di chiropratico e di osteopata, laddove si è fornita più coerenza all'iter del riconoscimento. In riferimento ai delitti non colposi è apprezzabile anche l'introduzione dell'aggravante per aver commesso il fatto in danno di persone ricoverate presso strutture sanitarie sia pubbliche che private e presso strutture socio-educative. In riferimento alla formazione medica specialistica, si prevede la definizione di ulteriori modalità attuative, anche negoziali, per l'inserimento dei medici in formazione specialistica all'interno delle strutture sanitarie e inserite nella rete formativa, senza però che siano indicati i criteri o principi, e senza che in realtà si sia risolta l'esiguità delle risorse necessarie, unitamente alla disciplina che consente, per esigenze formative, l'impiego di medici extracomunitari anche in strutture cliniche. Si teme che tali disposizioni siano un éscamotage per sopperire alla carenza di personale sanitario del SSN, o comunque incentivare un sistema di impiego a costo zero o comunque ridotto.
Si esprimono forti perplessità laddove si elimina il divieto di esercizio cumulativo della professione di farmacista con l'esercizio di altre professioni, e si consente di fatto alle farmacie private di diventare delle strutture che, dotandosi di personale sanitario, erogano prestazioni sanitarie in regime privatistico, sulla base di convenzioni o concessioni pubbliche. Inoltre, il riferire il divieto di esercitare la propria attività all'interno delle farmacie solo ai professionisti abilitati alla prescrizione di medicinali, e non anche ad esempio ai medici in generale o ai laureati in medicina, o senza specificare esattamente a che tipo di prescrizione ci si riferisca, appare rischioso, tenuto conto che, ad esempio, alla prescrizione su ricettario rosa del SSN sono abilitati solo i medici di medicina generale convenzionati per il sistema, i medici addetti alla continuità assistenziale pubblica, i pediatri in libera scelta, gli specialisti ambulatoriali interni, i medici dipendenti del SSN, e non anche, quindi, i medici che non siano dipendenti o convenzionati con il SSN.
Non condivisibili sono poi le disposizioni relative al settore farmaceutico, soprattutto laddove si modifica la norma vigente che in caso di successione ereditaria obbliga l'erede, che non sia farmacista, a cedere la quota di partecipazione nel termine di sei mesi dalla successione, e il termine di sei mesi è modificato in due anni: si ritiene che si cerchi di favorire il sistema familistico delle farmacie, consentendo a figli o parenti di farmacisti di procrastinare la partecipazione della farmacia per due anni.
Sconcertanti, infine, sono poi le disposizioni sulla dirigenza del Ministero della salute, che oltre a porsi in conflitto con la legge n. 124 del 2015, la delega cosiddetta Madia, sembrano introdotte per beneficiare alcuni dirigenti specifici del Ministero. Si fa presente che anche la Commissione affari costituzionali, nel proprio parere reso sul provvedimento, ha espresso un'osservazione analoga, sollevando la necessità di valutare l'istituzione del nuovo ruolo della dirigenza sanitaria del Ministero della salute, poiché in realtà è già presente un ruolo della dirigenza pubblica nel Testo unico del pubblico impiego (articolo 23 del decreto legislativo n. 165 del 2001), che ha istituito l'unico ruolo valido per tutte le pubbliche amministrazioni, e che si articola nella prima e seconda fascia, nel cui ambito sono definite apposite sezioni per garantire la specificità tecnica. Invece sembra che il Ministro Lorenzin voglia un ruolo ad hoc per il suo Dicastero, evidentemente necessario a sistemare i diversi personaggi che da svariato tempo si aggirano negli uffici del Ministero della salute, effigiandosi della qualifica di dirigenti ma che dirigenti non sono.
Concludo, Presidente. Come già detto all'inizio, il testo pervenuto dal Senato era inaccettabile, oserei dire inguardabile; sono stati apportati alcuni miglioramenti, e la reazione scomposta degli ordini, che non vogliono i revisori dei conti esterni, è, in tal senso, emblematica. Siamo probabilmente sulla strada giusta; appare inquietante però il silenzio del Ministro Lorenzin, che non difende il suo caro provvedimento, né difende il lavoro condotto finora in questo ramo del Parlamento, che ha rimediato ad alcune sviste elementari. Ripeto: siamo probabilmente sulla strada giusta, pur essendo ancora necessario ripulirla da alcuni macigni ingombranti; esempi: ordini provinciali e riduzione delle poltrone, limite dei mandati anche non consecutivi negli ordini professionali, netta separazione tra chi valuta la domanda di sperimentazione dal punto di vista etico e chi la valuta dal punto di vista scientifico, soppressione della segretezza dei dati sulle sperimentazioni dopo che sia stata concessa l'autorizzazione in commercio di un farmaco, e soprattutto eliminare le prebende o “marchette” per farmacisti e dirigenti del Ministero della salute. Auspichiamo che quest'Aula elimini queste criticità, e che abbia il coraggio di innovare veramente la sanità italiana.
PAOLA BINETTI. Presidente, membri del Governo, mi spiace avere solo quattro minuti per intervenire su un disegno di legge così importante, per cui ho deciso di dedicare ad ogni tema un minuto, quindi potrò andare poco più in là dell'enunciato. Il primo punto riguarda la sperimentazione clinica, e in realtà io mi rallegro molto invece che sia stata fatta chiarezza, che siano stati ribaditi dei principi, che in qualche modo si sia sottolineato come l'uomo, il paziente non è l'oggetto della ricerca ma il soggetto; e questo lo si sia fatto facendo riferimento esplicitamente a quel Protocollo di Helsinki, da cui poi sono partite tutte le successive dichiarazioni per il riconoscimento dei diritti, in particolare dei diritti dei pazienti. A me sembra un buon punto di riferimento, e ci auguriamo che poi il coordinamento dei centri etici renda davvero più facile il far ricerca, e non solo il parlare di ricerca.
Il secondo punto di cui mi rallegro, anche se mi sarei aspettata qualcosa di più chiaro, di più determinante, riguarda finalmente l'istituzione della professione dell'osteopata.
Sono quasi 2 milioni, alcuni dicono che si arriva a 4 milioni; ma non è facile, non essendo regolamentata la professione, sapere esattamente quanti sono gli italiani che ricorrono alle cure degli osteopati, e bisogna riconoscere che, molto spesso, ottengono da queste cure risultati largamente soddisfacenti.
Ma proprio l'estensione della richiesta da parte dei pazienti e la necessità, quindi, di garantire con sicurezza la qualità e la competenza del professionista che svolge il compito di osteopata, rendevano urgente stabilire non solo la professione, e riconoscerla in quanto tale come avviene in molti Paesi d'Europa, ma codificarne quello che è il piano di studi, identificare un suo posizionamento all'interno delle professioni sanitarie, riuscire a superare quella che è stata una frizione molto pesante con altre figure di professionisti, peraltro inserendo entrambi nella stessa classe di laurea che è quella che vede i tecnici di radiologia e di tutte poi le professioni rivolte alla riabilitazione. Speriamo che questo aiuti a creare posizioni di collaborazione, che veramente tolgano di mezzo quelle conflittualità che hanno esasperato un po' il clima in questi mesi.
Un terzo punto interessante, lo accenno soltanto: mi rallegro molto che la professione del biologo sia stata spostata dall'area della giustizia (evidentemente c'era una lettura soltanto in chiave dei casi drammaticamente volti alla criminalità o alla criminalità organizzata) verso quello che è il suo collocamento naturale, che è il Ministero della salute. Ciò vuol dire che la mente umana viene considerata non solo nella sua possibile devianza delittuosa, ma viene considerata soprattutto come una struttura da poter difendere.
Il quarto punto è quello che riguarda la formazione specialistica. Mi preoccupa un po' quel riferimento a nuove modalità attuative anche negoziali in un momento in cui abbiamo bisogno di difendere la professione dei medici specialisti che quest'anno sono stati defraudati. Io voglio dirlo chiaramente in quest'Aula: è stato tolto un anno di vita ai migliori dei laureati a giugno del 2016, che a oggi, ottobre 2017, non hanno ancora potuto confrontarsi con gli esami della scuola di specializzazione. Riflettere sulla scuola di specializzazione è un dovere di giustizia nei confronti di coloro che impegnano nel loro processo di formazione dai 10 agli 11 anni e che, in questo caso, per colpa del Ministero, sono diventati perlomeno 12. Anche a questo dovrebbe servire questa legge e ci auguriamo che vada in porto.
ELVIRA SAVINO. Grazie, signor Presidente. Il disegno di legge quest'oggi all'esame dell'Aula reca la delega al Governo in materia di sperimentazione clinica di medicinali, nonché diverse disposizioni volte ad un aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, nonché al riordino delle professioni sanitarie e della dirigenza sanitaria del Ministero della salute.
Il testo sul quale ci troviamo a discutere e sì quello che risulta dalla precedente approvazione da parte del Senato, e sul quale Forza Italia aveva espresso grande condivisione, ma nella sostanza esso è stato praticamente stravolto in sede di esame nella Commissione affari sociali della Camera.
Nell'ambito dell'esame ed approvazione del testo in Senato, infatti, Forza Italia ha lavorato con impegno e armonia, insieme a tutte le altre forze politiche, al fine di predisporre un testo legislativo che fosse in grado di disciplinare situazioni che da anni attendevano l'intervento del legislatore. Mi riferisco, ad esempio, alla delega al Governo per la revisione della disciplina in materia di sperimentazione clinica dei medicinali per uso umano oppure ancora all'aggiornamento dei LEA, dei livelli essenziali di assistenza, auspicato da molti.
Altro aspetto importante aveva riguardato il riordino delle professioni sanitarie. Si era raggiunto infatti un buon punto di equilibrio, ridisegnando ruoli e ridando dignità professionale a più di un milione di operatori che aspettavano questo provvedimento da diversi anni, nella convinzione che le professioni sanitarie devono essere tutelate nella loro autonomia in quanto ciò rappresenta un elemento di garanzia per la salute dei cittadini e per la sostenibilità del Servizio sanitario nazionale.
Tuttavia, nonostante l'iniziale favore espresso in Senato, Forza Italia ritiene che, alla luce delle modifiche approvate dalla Camera in Commissione affari sociali, il provvedimento in esame non possa dirsi soddisfacente e ciò per alcune ragioni che vado di seguito ad illustrare.
In primo luogo, per quanto riguarda il riordino della disciplina degli ordini delle professioni sanitarie. Il testo licenziato dalla XII Commissione introduce alcuni elementi che, in realtà, non vanno nella direzione di una vera e propria riforma degli ordini, ma rappresentano di fatto un elemento di paralisi della loro attività, che sono in aperta contraddizione con le istanze di alternanza che emergono a supporto di queste misure.
Diverse altre questioni problematiche si riscontrano con riferimento, da un lato, ai quorum rilevanti per le elezioni dei consigli degli ordini, rispetto ai quali tuttavia il testo non prevede quale procedura debba essere seguita nel caso in cui non vengano raggiunti né in prima, né in seconda convocazione, e dall'altro lato le modalità di svolgimento delle elezioni. Si prevede infatti la moltiplicazione dei seggi, nonché la possibilità del voto telematico, con evidenti ricadute non solo logistiche, ma anche in termini di efficienza complessiva della procedura, considerati i tempi e le risorse necessarie per svolgerla.
Inoltre, anche la previsione secondo la quale il collegio dei revisori dei conti deve essere costituito da revisori legali iscritti al registro rappresenta un onere del tutto sproporzionato rispetto al profilo economico dell'attività degli ordini.
Forza Italia, inoltre, esprime il proprio rammarico per la mancata istituzione della figura professionale del podoiatra, della sua professione sanitaria, così come risultante da un mio emendamento presentato nell'ambito dell'esame in Commissione. È noto, infatti, come il podoiatra si stia progressivamente sviluppando in Paesi come gli USA, il Canada, nonché in diversi Paesi europei, come il Regno Unito, l'Irlanda, la Spagna e il Portogallo, in quanto figura professionale dotata di una forte cultura della prevenzione e del servizio alla collettività che assume un ruolo sempre più rilevante nell'ambito delle strategie di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione delle affezioni, delle difformità podaliche e dei tessuti annessi al piede attraverso procedure terapeutiche podoiatriche.
Considerata la rilevanza della funzione, si era previsto che si potesse accedere alla professione soltanto al termine della frequenza di un corso di laurea articolato in due cicli di studi universitari, tre più due, o quattro più uno, all'esito del quale appunto il podoiatra avrebbe acquisito tutte le necessarie competenze in termini di capacità di diagnosticare, prescrivere e/o valutare qualsiasi tipo di trattamento podoiatrico, ortopodologico, chiropodologico, fisico, farmacologico, preventivo, basato sulla storia clinica del paziente in relazione al suo bisogno di salute.
Forza Italia, inoltre, aveva ritenuto importante l'istituzione di una simile figura professionale nella convinzione che il podoiatra si caratterizzi per alcune rilevanti peculiarità che lo differenziano dagli osteopati e dai chiropratici. Proprio per questo motivo, a differenza delle citate professioni che prevedono percorsi di studio solo triennali, si era immaginato per il podoiatra la frequenza di un corso di laurea quinquennale, considerato non solo che le patologie da questo trattate sono alquanto invalidanti per l'individuo che ne è affetto, si pensi ad esempio alle ulcere diabetiche ovvero alle complicanze che sorgono a seguito di malattie di grandissima rilevanza sociale, come il diabete o l'artrite reumatoide, ma soprattutto per il crescente peso scientifico che tale figura sta assumendo nello scenario internazionale.
Prendiamo atto, dunque, che vi è stata una mancata volontà politica di istituire la figura professionale del podoiatra, cionondimeno Forza Italia invita tutte le forze politiche a valutare l'opportunità di aggiornare il profilo professionale della figura del podologo che ad oggi non risulta essere stato oggetto di alcun aggiornamento da molti anni e che per tale motivo rischia di diventare una professione obsoleta e non in grado di raggiungere quelli che sono attualmente gli standard europei.
Si potrebbe anche pensare alternativamente di prevedere, allo stesso modo di come fece il Governo nel 2007 per i chiropratici, l'istituzione di un registro che consenta a coloro che sono in possesso del diploma di laurea magistrale o di un titolo equivalente di esercitare perlomeno liberamente le proprie mansioni sul territorio nazionale.
In conclusione, Forza Italia ribadisce con forza il proprio giudizio negativo su questo provvedimento e si augura che in Aula si possa lavorare per introdurre tutti i necessari elementi correttivi sugli aspetti che abbiamo evidenziato, nel tentativo di coniugare l'efficienza, che alla luce appunto delle modifiche introdotte dalla Camera pare del tutto archiviata, con la salvaguardia di principi che stanno alla base della vita degli ordini, così da non essere del tutto paralizzati.
GIOVANNI MONCHIERO. Grazie Presidente. L'iter stesso di questo disegno di legge governativo, che gira per le Aule parlamentari ormai da tre anni, dimostra quanto delicata e complessa fosse la materia affrontata, anzi occorre dire le materie affrontate, perché effettivamente questa proposta di legge non si sottrae al giudizio di essere una sorta di piccolo decreto omnibus, che tocca argomenti e temi tra loro abbastanza distanti. Tuttavia, li tocca in modo complessivamente positivo.
Era indubitabile che tutte le problematiche connesse alla sperimentazione clinica meritassero una risistemazione, perché spesso le nostre aziende ospedaliere e gli istituti di ricerca erano in difficoltà a intervenire tempestivamente, di fronte alle richieste di sperimentazione, che provenivano dal mondo della ricerca. Mi pare che la norma, in questo senso, colmi una lacuna e, pur con qualche complessità di troppo, tuttavia risolva anche l'annosa questione dei comitati etici, risorsa indispensabile, perché il confine tra l'etica e la scienza nella fase di sperimentazione è certamente un confine molto delicato. È un confine che merita di essere, come dire, approfondito, in ogni momento e in ogni circostanza, con il massimo delle competenze possibili.
In realtà, non è certamente su questo tema che il disegno di legge ha incontrato le sue difficoltà. Credo che la cosa più spinosa fosse la revisione degli ordini in materia di professioni sanitarie. Effettivamente il collegamento fra ordine e concezione corporativa delle relazioni economiche è un collegamento stretto, storico, plurisecolare. Ogni qual volta si incide su questa materia, vengono fuori delle reazioni e delle incomprensioni.
È stato così anche recentissimamente, perché non voglio sottacere che mi ha un po' stupito la presa di posizione, fortemente negativa, dell'ordine dei medici sulla proposta di legge finale, così come è stata licenziata dalla XII Commissione, che invece a me pare che, pur con qualche lacuna sottolineata dai colleghi che mi hanno preceduto, vada comunque nella direzione giusta, quella di rafforzare la democrazia interna agli ordini e rafforzarne la trasparenza. Si tratta di valori fondamentali per il buon funzionamento di una struttura, che non può non avere una rappresentanza fortemente e trasparentemente democratica al proprio interno.
Poi c'è la questione, anche recentemente sollevata dalla collega Salvino e da chi mi ha preceduto, del riordino e del riconoscimento delle professioni sanitarie. Mi riferisco all'introduzione, qui in Commissione alla Camera, del nuovo testo dell'articolo 6, che è frutto di una mediazione anche complessa e che va ascritto a merito anche personale del presidente della Commissione, che voglio qui elogiare per avere comunque trasformato, quella che era una norma ad hoc, in una norma aperta.
Se domani sarà necessario risistemare la professione del podologo e affiancargli il podiatra, come richiedeva poc'anzi la collega, beh, insomma, nell'articolo 6 è scritta la procedura su come fare. Naturalmente il come fare, se il fare o non fare, è una valutazione politica, che gli enti e le istituzioni richiamati dalla norma dovranno esaminare e decidere, valutando le necessità, valutando il contesto, valutando anche i progressi scientifici e le mutate necessità. Ma la norma che istituisce la nuova procedura mi pare una norma aperta e, come tale, assolutamente condivisibile.
Così come ho molto apprezzato l'istituzione dell'albo degli ingegneri biomedici all'interno dell'ordine degli ingegneri. Gli ingegneri biomedici sono una risorsa forte del sistema sanitario, sono figure fondamentali in tutti gli ospedali italiani, perché hanno favorito e accompagnato l'adeguamento tecnologico di strutture che alla tecnologia sono sempre più votate e lo saranno ancora di più in futuro.
Si tratta, quindi, nel complesso di un'ottima norma, nella quale, però, io vorrei sottolineare anche qualche piccola ombra, a prescindere dal fatto che questa sottolineatura si traduca poi in decisioni dell'Aula nell'esame di emendamenti, che saranno esattamente presentati su questi temi. Si tratta di un discorso un po' più generale che vorrei fare. Comincerei con quello più spinoso.
Io ritengo che sia un errore intervenire sul complesso problema delle farmacie, a piccoli spot, mettendo una riga e una finanziaria di un anno, poi mettendo una norma e un decreto sulla concorrenza, poi introducendo qui questa strana definizione di farmacia, che diventa quasi una struttura ambulatoriale. Insomma, mi pare che il tema delle farmacie, della loro relazione con altre forme di commercializzazione di farmaci, in primis le parafarmacie, nella loro relazione con il Servizio sanitario nazionale, meriti una sistemazione organica, che ridefinisca il ruolo della farmacia, che ne definisca anche gli aspetti economici, che definisca tutti quegli aspetti anche di natura personale e familiare. Non possiamo dimenticare che la farmacia è nata nel tempo come la bottega del farmacista.
Ecco, trasformare la bottega del farmacista in un ambulatorio o in una clinica privata, così, con una “normicina”, infilata più o meno distrattamente in una legge che si occupa di tutt'altro, francamente non mi pare una buona tecnica di legislazione.
Così come mi suscita qualche perplessità, come ricordava anche prima la collega Binetti, la parte relativa alla specialistica. Introdurre il concetto di rapporto negoziale nelle procedure di accesso ai corsi di specializzazione a me pare usare una terminologia potenzialmente pericolosa, almeno su questo punto. Così sul comma successivo del medesimo articolo, che introduce - immagino a fin di bene, ma chiaramente mi pare del tutto stravagante - che, chi non ha titolo per potere esercitare la professione medica, possa andarsi a specializzare in medicina nelle nostre università.
Ecco, qui immagino si cerchi di affrontare una lacuna amministrativa, ma è una risposta davvero sbagliata. Quando le procedure amministrative per il riconoscimento del titolo di studio conseguito all'estero, in Paesi extracomunitari, diventa così lungo, da dovere introdurre una deroga, per far sì che, chi non ha ottenuto questo riconoscimento, possa partecipare e lavorare in ospedale, a me pare che sarebbe molto più semplice snellire la procedura amministrativa e giungere a tempestive decisioni circa il riconoscimento. Così vorrebbe una sana amministrazione.
Con queste più piccole e marginali perplessità, ribadisco comunque il giudizio positivo sul complesso del disegno di legge e, quindi, sin da ora un nostro voto favorevole su questa interessante e importante legge.
PAOLA BOLDRINI. Presidente, onorevoli colleghi, ci apprestiamo oggi a fare la discussione generale sul disegno di legge n. 3868-A, approvato al Senato e trasmesso alla Camera nel maggio 2016.
Come hanno già ricordato sia il relatore che altri colleghi, questo iter è stato lungo, ma perché ha visto anche una serie di audizioni importanti, per far sì che il testo fosse revisionato nella sua parte e in concordanza con il testo comunque pervenuto dal Senato, per poi migliorarlo ulteriormente.
È un disegno di legge che, come abbiamo sentito, tocca molte modifiche, sul tema delle sperimentazioni cliniche, dei medicinali, dei comitati etici, della riorganizzazione degli ordini professionali e delle federazioni nazionali, dell'istituzione dell'area delle professioni socio-sanitarie e di nuove professioni sanitarie, nonché dell'esercizio abusivo della professione sanitaria e della dirigenza medica. È una riorganizzazione di normative che avevano ormai il tempo che correva. Sono leggi che ormai sono tanti anni che sono in essere, quindi, una revisione doveva essere fatta.
Ma io mi soffermerò su alcune parti del provvedimento. Con l'articolo 1 si parte proprio dalla sperimentazione di farmaci. Reca una delega al Governo per la revisione della disciplina in materia di sperimentazione clinica dei medicinali per uso umano, al fine di coordinare la disciplina nazionale con la normativa europea, recentemente innovata dal Regolamento dell'Unione europea n. 536 del 2014, che comporterà il passaggio, da una gestione puramente nazionale delle valutazioni e delle sperimentazioni cliniche, a una gestione coordinata a livello europeo, ciò che richiederà l'applicazione di criteri e di procedure condivise.
Ma arriviamo poi ad altri articoli. Come si è detto già prima, l'articolo 2, che prevedeva l'aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, i famosi LEA, è stato soppresso, anche perché, dalla nascita di questo disegno di legge, nel frattempo sono stati emanati invece i decreti per l'aggiornamento dei LEA.
Quindi quest'articolo è stato soppresso.
Invece, un articolo al quale tengo particolarmente è l'articolo 3, perché è un articolo aggiuntivo rispetto al testo pervenuto dal Senato e per la prima volta è dedicato completamente all'applicazione e alla diffusione della medicina di genere nel sistema sanitario nazionale. È praticamente un emendamento aggiuntivo che richiama una gran parte di un testo di legge che io stessa ho depositato alla Camera il maggio scorso, ed è in piena sintonia con quanto espressamente citato all'articolo 1 riguardo la sperimentazione clinica dei medicinali per uso umano, che ha introdotto uno specifico riferimento appunto alla medicina di genere.
La medicina di genere non è una visione ideologica o una moda, come ho sentito anche in Commissione, tant'è che la Ministra della salute, Lorenzin, oltre ad aver inserito la medicina di genere nel semestre europeo e nell'agenda italiana, ha già annunciato che porterà il tema dell'attenzione al prossimo G7 sulla salute, che si terrà il 4 e 5 novembre; e Farmindustria ha reso noto che più di un'azienda investe sulla ricerca di genere. Quindi, mi aspetto che questo articolo rimanga intonso anche nella discussione in Senato. Infatti - e qui lo devo dire, perché è la prima volta che mi appresto a farlo e ne colgo l'occasione -, è degli anni Settanta del secolo scorso la denuncia che la medicina non è una scienza neutra.
Da quel momento è diventato sempre più sorprendente constatare come lo sviluppo della medicina fosse avvenuto attraverso studi condotti quasi solo su uomini, in base all'errato pregiudizio scientifico, supportato da un costrutto di pensiero strutturalmente androcentrico, che il corpo della donna, a parte i diversi apparati sessuali e procreativi, sia come quello dell'uomo.
Prestare attenzione alle conseguenze delle differenze sessuali e del fattore genere in medicina, cioè applicare quella che più comunemente è denominata medicina di genere, anche genere-specifica o gender-sensitive, non significa parlare di una disciplina aggiuntiva alla medicina o avere una visione ideologica, ma significa conoscere e applicare un nuovo approccio allo studio del funzionamento del fisico umano, in salute e malattia, in modo attento alle diversità fra uomini e donne. Sesso e genere rappresentano due termini comunemente male interpretati, anche dalla letteratura scientifica.
Con il termine “sesso” ci si riferisce agli aspetti biologici, morfologici e funzionali che caratterizzano l'essere uomo o donna; il termine “genere”, invece, ha una storia diversa e recente: divenne d'uso negli anni Cinquanta del secolo scorso in uno dei due significati, quello riferito alle categorie personali e sociali di identità, femminilità e mascolinità. Nel 2006, la Commissione determinanti sociali della salute dell'Organizzazione Mondiale della Sanità afferma i contenuti specifici del genere, e lo riconosce come fattore che determina salute e malattia.
Numerosi studi - perché su evidenze scientifiche ci dobbiamo basare - dimostrano che uomini e donne sono diversi dal punto di vista biomedico nell'anatomia, nella genetica ed epigenetica, nel metabolismo e nel funzionamento di recettori, enzimi e proteine, nei livelli degli ormoni sessuali e loro effetti, nelle eziologie, prevalenze e sintomatologie di diverse patologie e in molti altri aspetti afferibili alle differenze sessuali. Le donne, per esempio, hanno rispetto all'uomo sintomi diversi di insorgenza di infarto e ictus, prima e terza causa di morte per le donne in Italia nel 2015 (dato riferito dal Ministero della salute), e vengono sottoposte in misura minore a terapie coronariche salvavita. Questo è un dato importantissimo, perché molti non conoscono questi dati e credono che il primo dato di morte per le donne sia il tumore al seno; invece no, purtroppo è l'infarto miocardico.
Ma andiamo oltre. È del 2016 l'uscita negli Stati Uniti di un documento ad opera dell'American Heart Association proprio in tema di infarto acuto del miocardio e la donna, che era stato proceduto dalle linee guida sull'ictus nelle donne: anche qui abbiamo un'evidenza scientifica che viene connotata in speri
09 ottobre 2017
© Riproduzione riservata