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Fondi integrativi Ssn: ad oggi 279 iscritti all’Anagrafe, ma oltre 400 entro l’anno


Introdotti dal Dlgs 229/99, ma mai compiutamente disciplinati, i fondi integrativi del Ssn stanno oggi recuperando il tempo perduto. Come racconta in questa intervista a Quotidiano Sanità Grazia Labate, ricercatore in economia sanitaria e coordinatrice del gruppo degli economisti presso il ministero della Salute per il decreto attuativo sui fondi integrativi firmato nel 2008 dal ministro Livia Turco.

23 GIU - La prima traccia risale al 1999, ma ci vollero quasi dieci anni perché venisse approvato il primo decreto attuativo in materia di fondi integrativi del Ssn. A firmarlo fu l’allora ministro della Salute Livia Turco, nel 2008. L’anno successivo fu la volta di un secondo decreto, di integrazione, ad opera di Maurizio Sacconi, quando il ministero del Lavoro e quello della Salute erano ancora accorpati. È con quest’ultimo provvedimento che venne istituita, presso il ministero della Salute, l’Anagrafe dei fondi sanitari integrativi, allo scopo di fare ordine nel settore individuando i protagonisti e le prestazioni offerte. E dai dati emersi nel corso degli ultimi anni, si scopre che il “secondo pilastro della sanità” è una realtà attiva e diffusa. Anche se i passi da compiere sono ancora tanti.
A fare il punto sullo stato dell’arte è Grazia Labate, ricercatore in economia sanitaria e coordinatrice del gruppo degli economisti presso il ministero della Salute per il decreto Turco.


Dottoressa Labate, può darci qualche numero sul settore?
Ad oggi gli iscritti all’Anagrafe dei fondi integrativi sono 279, di cui 220 negoziali - cioè promossi dalla contrattazione collettiva - e 59 territoriali - cioè società di mutuo soccorso e casse a livello territoriale.
La maggior parte delle iscrizioni provengono dal Nord: 100 dalla Lombardia, 20 dal Piemonte, 18 dall’Emilia Romagna, 14 dalla Toscana, 14 dal Veneto, 14 dal Lazio, mentre i numeri al Sud, seppure non definitivi, appaiono molto più piccoli. Basti pensare che c’è un solo fondo dalla Sicilia.
Le differenze geografiche dovrebbero tuttavia essere colmate nel corso dei prossimi mesi. I dati, infatti, sono preliminari. Nonostante la scadenza di presentazione delle domande di iscrizione all’Anagrafe sia scaduta il 30 aprile, infatti, il ministero della Salute ha acconsentito a prorogare i tempi considerato che molte delle richieste di iscrizione ricevute avevano una documentazione incompleta. È quindi stato offerto loro qualche mese in più per ottemperare correttamente alle procedure.

E su quale cifra dovrebbe aggirarsi l’Anagrafe una volta completata la procedura da parte di questi fondi?
Dalle analisi svolte nel 2008 dal gruppo ministeriale che ha lavorato al decreto Turco, i fondi attivi in Italia risultavano essere 416. È quindi ragionevole pensare che nel corso dei prossimi mesi l’elenco dell’Anagrafe salirà verso questa cifra, che in parte sarà rappresentata dai fondi attivati al Sud.
Occorre poi considerare che nel 2009 c’è stata una nuova tornata legata ai rinnovi contrattuali. Il numero complessivo è quindi destinato a crescere ulteriormente. Diventa però difficile fare un calcolo preciso, tenuto conto che alcune piccole società di mutuo soccorso hanno deciso di non iscriversi perché offrono sussidi o piccoli pacchetti di prestazioni sanitarie, e già godono di agevolazioni fiscali pari a 1.215 euro all’anno. In pratica, per loro non era conveniente aderire ed essere costrette a vincolare il 20% di fondo alle cure odontoiatriche e alla non autosufficienza come previsto dal decreto Turco e confermato dal decreto Sacconi.
Voglio sottolineare che il ministero ha dimostrato molta disponibilità allungando i termini dell’iscrizione. In autunno sarà fatto il punto della situazione, ma le ipotesi rispetto alle analisi che avevamo fatto nel 2008 sembrano essere confermate.
Qualche dato in più: in quell’anno i soggetti iscritti ai fondi erano 6.396.100 e gli assistiti 10.3410.210, perché alcuni fondi coprono anche i coniugi, i figli o i genitori a carico dell’iscritto. Anche questi numeri sono comunque destinati a salire con il conteggio dei nuovi fondi attivati nel 2009.


Una volta noti i numeri, come si procederà?
Le opportunità che si aprono sono diverse, ed emerse anche grazie al monitoraggio svolto in questi anni. Un caso è quello dei dipendenti delle banche e delle imprese di assicurazioni, che hanno creato fondi particolari con i quali garantiscono, ad esempio, la Long term care, non prevista dai decreti attuativi. C’è stato però un confronto con il ministero, che ha deciso di accogliere anche questa tipologia di fondi costatando come rappresenti un vantaggio per il Ssn, offrendo 12.366 euro annui in rendita monetaria o in prestazioni, a seconda dei bisogni.
Si sta inoltre considerando una nuova tipologia di fondi che porterebbe un forte vantaggio per il Ssn. Si tratta di fondi che si rivolgono alla grande collettività, soprattutto per prestazioni sociosanitarie, come la disabilità, che è un problema sempre più diffuso ma che le Regioni e i Comuni non sono in grado di coprire se non in minima parte. Questo tipo di fondi, detti “aperti”, sarebbero rivolti a tutta la collettività o destinati ai lavoratori autonomi e ai liberi professionisti, cioè a quella parte di popolazione non contemplata nei decreti.
Inoltre, come suggerito dalla Fimiv, la Federazione italiana della mutualità volontaria, bisognerebbe prevedere che in assenza di un regolamento generale, le società di mutuo soccorso possano deliberare di costituirsi fondi sanitari aperti ai sensi del decreto legislativo 502/92, adottando le modalità gestionali e organizzative previste dal loro regolamento di settore per essere assimilati agli altri fondi. Anche in questo caso il ministero ha dimostrato disponibilità. E si tratterebbe di circa 120 fondi, che andrebbero ad aggiungersi all’Anagrafe.
Questo rappresenterebbe una grande innovazione per il Ssn, offrendo risposte ad alcune criticità irrisolte, come quello della copertura dei pensionati, cioè delle persone che escono dalla copertura negoziale, nonché i bisogni delle giovani generazioni che hanno contratti atipici e quindi non rientrano nei fondi negoziali. I fondi aperti non farebbero discriminazioni di età né di stato di salute od occupazionale. Basterebbero 236 euro circa all’anno di compartecipazione collettiva per offrire una copertura a tutti coloro che ne avessero bisogno. Si tratta di una compartecipazione bassa, che però diventa una cifra importante nella sua totalità collettiva, ripartita nei rischi, in termini di solidarietà.
Credo che sia verso queste soluzioni che un welfare moderno debba muoversi.


Quali sono le principali differenze tra una polizza sulla salute e i fondi integrativi?
Sono due cose completamente differenti. La polizza è un soggetto privato che stipula un’assicurazione sulla salute che copre prestazioni a seconda della consistenza del premio versato. È legata ai rischi e alle caratteristiche, anche fisiche, della persona che stipula l’assicurazione. In Italia, inoltre, non è prevista deduzione fiscale per le polizze malattia ma solo per quelle sulla vita, per un totale di 1.250 euro.
I fondi segue tutt’altro regime legislativo e fiscale. Derivano dai contratti collettivi di lavoro o dalle iniziative di alcune categorie che attivano fondi propri, come per gli artigiani, i commercianti e il settore del turismo. Due anni fa è stato istituito il Cadiprof, un fondo che copre gli studi professionali e che ha dato grandi garanzie ai precari e praticanti. È stato indubbiamente un’ottima iniziativa.
Quanto alla deducibilità, le cose funzionano così. I fondi negoziali, territoriali o le casse di mutuo soccorso iscritte all’Anagrafe devono impegnarsi a garantire che il pacchetto delle prestazioni offerte sia costituito per il 20% da cure odontoiatriche e per gli anziani non autosufficienti. Se rispondono a queste caratteristiche, lo Stato riconosce ogni anno al soggetto una deducibilità di 3.615,20 euro.


Insomma, non è vero che il sistema dei fondi sanitari integrativi è ferma al palo. Da quel che ci racconta si tratta invece di una realtà viva.
Sì, il problema è che non abbiamo mai voluta vederla. Molti fondi esistono da anni, ma fino al 2008 non c’è stata una normativa sul sistema. Io ho lavorato al primo decreto approvato durante il ministero Turco, poi confermato dal decreto Sacconi. In quel momento abbiamo avviato un lavoro per indirizzare il sistema lungo dei binari, partendo dal rimodellamento dei fondi, che fino a quel momento erano sostitutivi, non integrativi. Praticamente offrivano tutto quello che era già garantito dal Ssn. Con il decreto Turco, abbiamo deciso di invertire la rotta stabilendo che i fondi debbano offrire quelle prestazioni che corrispondono a un grande bisogno sociale ma che il Servizio sanitario pubblico non riesce a soddisfare. Abbiamo fatto una grande operazione di orientamento della spesa privata dei fondi.
Non è cosa di poco conto considerato che, come emerso anche dal Rapporto Ceis Sanità di Tor Vergata, l’Italia è un Paese che spende poco per la spesa sanitaria pubblica, ma con un 2,4% di spesa privata. Ed è lì che i fondi integrativi devono incidere.
Per farlo, però, occorre completare un percorso che è stato avviato ma che ha bisogno di altri strumenti. Ad esempio di un decreto sull’affidamento a gestione dei fondi per alcune criticità, come il problema della disabilità o tutta quella serie di prestazioni sociosanitarie che il servizio pubblico garantisce solo in minima parte. Si parla del 18% dei bisogni nelle Regioni virtuose.
Con l’affidamento a gestione, le Regioni potrebbero stipulare delle convenzioni con i fondi per gestire una parte di quelle problematiche, ad esempio l’Adi. Sarebbero forme di contributo integrativo controllate delle Regioni, che potrebbero finalmente rispondere al fabbisogno del territorio.
È poi necessario approvare un decreto per il regolamento generale di tutti i fondi, quelli aperti territoriali o di altre tipologie che potrebbero presentarsi.
L’Italia non può pensare di continuare su un vecchio sistema di Welfare e senza un fondo per la non autosufficienza che, invece, la continua crescita delle aspettative di vita rende necessario e urgente.
Il sistema va rinnovato. Per farlo non è necessario scardinare quel che c’è, ma incentivare nuove forme di tutela indirizzando la spesa privata dei cittadini verso i fondi integrativi e le società di mutuo soccorso. Oggi, l’82,4% degli italiani “fa da solo”, attraverso la spesa out of pocket. Sono convinta che occorra innescare un sistema di basato sul principio di solidarietà sui bisogni reali e urgenti dei cittadini.


L’attuale ministero si sta dunque muovendo nella direzione segnata dal ministro Turco.
Sì, c’è assoluta continuità e grande disponibilità da parte del ministero di tener conto di tutte le problematiche e opzioni che si presentano.
Certo, quello che stiamo attraversando è un periodo di work in progress. Al momento si lavora per far venire alla luce tutto quello che c’è nel settore dei fondi integrativi. Monitorare e mettere in trasparenza il sistema, insomma, Il 2012 sarà l’anno di verifica, nel corso del quale apportare eventuali correttivi o ampliamenti.
Sarà sicuramente necessario approvare una serie di decreti per la governance del sistema, istituendo anche un organo di vigilanza. E occorrerà tener conto che il sistema andrà sempre più regionalizzandosi verso il federalismo fiscale. Per questo ritengo importantissimi i fondi aperti, che possano interagire con le Regioni ed essere controllati dalle Regioni stesse in funzione delle priorità di salute specifiche del territorio.
Ai fondi ho inoltre proposto di confrontarsi sull’esigenza di darsi una forma associativa per esercitare la propria rappresentanza, così da divenire interlocutore unico con le istituzioni sia a livello centrale che regionale e poter avviare in questo modo un dialogo più efficace.


I dati definitivi arriveranno entro l’anno. Ma se il gap Nord-Sud non dovesse essere colmato?
Il problema del Sud dipende dall’assenza di base produttiva. Ma sono certa che si possa lavorare sviluppando le società di mutuo soccorso. Anche in assenza di una base produttiva, infatti, gruppi di cittadini o categorie, come quella agricola o edilizia, potrebbero riunirsi in piccole casse che, con una spesa di 236 euro all’anno, assicurerebbero una risposta ai bisogni.
 
Lucia Conti
 

23 giugno 2010
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